Per ricordare Piero Angela (1928-2022) Scienza in rete ha scelto di ripubblicare un testo dimenticato ma prezioso: l'intervista che il giornale Tempo medico fece al giornalista sul numero 187 del dicembre 1980. Allora cinquantaduenne, Angela non aveva ancora iniziato la fortunata trasmissione "Quark", ma aveva già una lunga consuetudine con la radio e la televisione, prima come corrispondente a Parigi e Bruxelles, poi al TG2, e su RAI 1 come autore di documentari. Fra l'altro, allora Angela aveva già all'attivo sei libri di divulgazione scientifica e le prime trasmissioni di scienza. Ecco cosa rispondeva, 42 anni fa, sul tema del giornalismo e della cultura scientifica in Italia. Tante cose sono cambiate da allora, ma non tantissime... Addio Piero Angela, grazie di tutto, e buona lettura a tutti voi.
L'articolo, come tutti quelli di Tempo Medico, non è firmato. L'illustrazione di copertina è del grande illustratore Giovanni Mulazzani.
Piero Angela: lo sforzo di divulgare la scienza in una società poco propensa a coglierne i valori
Torinese, 52 anni, una cinquantina di documentari televisivi quasi tutti a carattere scientifico, sei libri di divulgazione che hanno riscosso un successo eccezionale: questa la scheda di riconoscimento di Piero Angela, sicuramente il più celebre dei giornalisti che hanno intrapreso il difficile compito di parlare di scienza al grande pubblico.
Perché Tempo medico ha deciso di dedicargli il servizio di copertina? Perché, pur nella differenza di pubblico e nella diversa specificità dell'informazione, il campo culturale in cui si muove Tempo medico è assai vicino a quello in cui opera Angela. Informazione scientifica specialistica verso un pubblico già culturalmente qualificato per il primo, divulgazione scientifica verso un pubblico che di scienza vuole sapere più di quel poco che la scuola, il lavoro, i mass media gli hanno insegnato per il secondo.
La platea di Angela è dunque molto vasta, come succede a coloro che hanno a disposizione un mezzo come la televisione. Ma questo non basterebbe a fare di Angela un personaggio se le sue trasmissioni non riscuotessero sempre un successo straordinario e se i suoi libri - lo dice Anna Drugmann che dirige l'ufficio stampa della casa editrice di Angela, la Garzanti, non si vendessero a ritmi da best-seller.
Protagonista di questa affascinante avventura è dunque anche il pubblico, i cui atteggiamenti hanno del paradossale: quanto più lo si crede vittima delle ventate irrazionalistiche che spesso si diffondono (cure miracolose per il cancro, Madonne che piangono, baroni defunti che respirano affannosamente in vecchi manieri), tanto più sembra rispondere positivamente a fenomeni culturali che non sollecitano certo le sue esigenze metafisiche. Sta di fatto che tutti ricordano ancora non solo i documentari più recenti di Angela, quelli sulla parapsicologia e sulla vita nello spazio, ma anche i servizi ormai storici, dedicati ai lanci Apollo, alla ricerca biologica e allo sviluppo del bambino, La dice lunga il fatto che i libri scritti per Garzanti siano già sei (e altri due siano in preparazione). Si dirà che essi ripetono in gran parte gli argomenti già trattati in sede televisiva, sfruttando per inerzia la popolarità che ne è derivata. Ma chi ha letto L'uomo e la marionetta (1972) sui condizionamenti biologici, Da zero a tre anni (1973) che volgarizza problemi pediatrici, La vasca di Archimede (1975) dedicato agli ecosistemi mondiali, Nel buio degli anni luce (1977) sui problemi economici e i processi di sviluppo, Viaggio nel mondo del paranormale (1978), e l'ultimo (uscito nella primavera 1980, dopo l'omonima serie di documentari televisivi) Nel cosmo alla ricerca della vita, sa che in tutti questi libri non si trovano inesattezze o approssimazioni scientifiche, e nemmeno concessioni al facile e al favolistico. Dunque se questi libri rimangono leggibili e affascinanti, vuol dire che una divulgazione seria non solo è possibile ma ottiene più successo di quella che non lo è.
Dove ha imparato a divulgare la scienza?
«Una certa tecnica del comunicare - risponde - posso averla appresa col mestiere. Ho cominciato come giornalista radiofonico, poi televisivo. Ho dovuto imparare come si parla alla gente. Non è possibile fare il giornalista senza mettersi dalla parte del lettore; non per blandirlo, ma per comunicare con una certa garanzia di essere capito. Il giornalista non ha quasi mai una specifica competenza di ciò che sta trattando, e quando riesce a capire sa che cosa deve dire perché anche gli altri capiscano. Le difficoltà che ha la gente nel capire sono le stesse che ha incontrato il giornalista. Sono stato inizialmente al giornale radio - racconta ancora -, poi sono andato a Parigi e a Bruxelles a fare il corrispondente. Sono ritornato nel 1968 e da allora la mia attività si è svolta a Roma. Ho iniziato il telegiornale delle 13,30, che fu il primo presentato da giornalisti; quindi ho lavorato al telegiornale delle 21 e al TG2. Ora sono alla Rete 1, dove faccio essenzialmente documentari».
Questa è la premessa tecnico professionale, che ovviamente non è sufficiente a spiegare il fenomeno di un giornalista che diventa divulgatore di questioni scientifiche e tecniche decisamente ardue. Per affrontare determinati argomenti occorre avere un interesse specifico, «che ho sempre avuto - dice Angela ma da dove mi sia venuto non saprei proprio dire. Dalla scuola no di certo. Sono stato un pessimo studente. Mi sono iscritto a ingegneria, e questo forse può essere sintomo delle mie preferenze culturali, ma non posso dire che l'università mi abbia particolarmente appassionato. Ho studiato a lungo musica, ma questo spiega ancora meno. Non posso pensare che a tendenze innate, a fatti genetici. Ha influito certamente l'ambiente familiare. Mio padre era medico, uno psichiatra della vecchia scuola organicista, e mi ha certamente educato a considerare le cose e il mondo secondo schemi molto razionali».
Non sembra il caso di insistere oltre. In fondo è proprio della mentalità scientifica il non volere spiegare tutto a ogni costo, e il rimanere ai fatti. Angela è un eccezionale divulgatore. Gli si chieda allora quali sono i segreti del divulgatore. Secondo Angela il buon divulgatore deve avere tre qualità: l'onestà intellettuale, la conoscenza del settore disciplinare di cui si sta occupando, la padronanza del linguaggio adatto a mediare efficacemente le nozioni.
«L’onestà intellettuale è la premessa indispensabile - dice. - Bisogna porsi di fronte a un problema consapevoli che il primo dovere è di non essere al servizio di alcun interesse, e quando dico interesse non parlo solo di interessi materiali ma anche di ideologie. Il divulgatore deve comunicare la verità scientifica senza chiedersi a quale visione del mondo essa possa nuocere o portare vantaggio. La seconda qualità, quella della competenza, può esserci oppure no. Quando non c'è, e il giornalista è un incompetente per definizione, bisogna raccogliere tutte le informazioni necessarie, capirle nel loro vero significato e sottoporsi poi al giudizio dei competenti per verificare se si è capito bene. Io non esito mai far rivedere il mio lavoro agli esperti, poiché desidero che nessun errore o inesattezza mi sfugga».
Infine la questione del linguaggio. È ovvio che si debba essere semplici e chiari, non usare termini gergali o, se si usano, spiegarli.
Ma questo basta?
«No - risponde Angela. - Occorre destare l'interesse dello spettatore, o del lettore. Come? Non certo introducendo elementi spettacolari spuri. Nessun lenocinio, ma bisogna trovare l'angolatura che affascini, cercare lo spettacolo all'interno della materia. Una trasmissione dedicata astrattamente alla matematica sarebbe un fallimento. Ma insegnare la matematica attraverso un pretesto, come potrebbe essere il Totocalcio, è possibile. Nella mia ultima trasmissione si è parlato di astronomia, di geologia, di evoluzione, di chimica, di radiocomunicazioni, ma essa aveva come oggetto l'interrogativo se ci potesse essere vita nello spazio, interrogativo che molti si pongono e che risulta di per sé coinvolgente. Si può insegnare qualsiasi cosa e chiunque è in grado di comprendere qualsiasi cosa, purché abbia voglia di capire; ora, la voglia di capire deve essere destata e tenuta viva. Questo è possibile considerando ogni disciplina in funzione di qualcos'altro. Se questo qualcos'altro è affascinante, la gente è affascinata anche dalla strada che bisogna percorrere per arrivarci».
Semplice? Non sempre. In certi casi non è possibile trovare ragioni di coinvolgimento emotivo. Quanto alla tecnica, bisogna tener conto che esiste un ritmo di apprendimento e che quando lo sforzo di apprendimento è troppo intenso o troppo prolungato conviene diluirlo, per così dire ratealizzarlo. Bisogna dare l'impressione che l’argomentazione sia facile.
«La divulgazione - riprende Angela - è dunque il risultato di un lungo lavoro. È molto difficile rendere facili le notizie scientifiche».
Ma tutto questo, che pure non sembra né poco né agevole, non basta ancora. Il divulgatore deve rendersi conto che lo scopo che egli deve perseguire è di abituare la gente a comprendere, più che i risultati finali, il metodo che la scienza segue per raggiungerli. L'immagine della scienza conta pertanto più delle acquisizioni. Il vero problema - afferma Angela- è che la gente apprenda a vedere la realtà scientifica in modo equilibrato, si faccia un’idea corretta di che cos'è la scienza e di come opera. Le acquisizioni vengono dopo. Divulgare, pertanto, significa educare e non soltanto informare. E la filosofia del divulgatore deve essere la stessa dello scienziato, nel senso che deve essere analogo il metodo. Due sono gli atteggiamenti contrastanti che, secondo Angela, bisogna evitare: il primo è di considerare la scienza come qualcosa di straordinario, di favoloso, inesauribile fonte di meraviglie, motore delle magnifiche sorti e progressive; il secondo, diametralmente opposto, è di demonizzare la scienza, vedendola come sorgente di mali, di catastrofi, della disumanizzazione dell’uomo. Il primo pregiudizio fu quello del periodo positivista, del contrasto fra il progresso e l'oscurantismo, del mito così tipicamente espresso dal ballo Excelsior. Il secondo è più recente ed è nato dalla attuale tendenza a ideologizzare tutto.
«Tuttavia, entrambi questi atteggiamenti hanno avuto il loro risvolto positivo: l'enfatizzazione della scienza ha avuto il merito di propagandarla, di sensibilizzare l’opinione pubblica; l'attuale demonizzazione, con tutti i suoi eccessi, ha destato gli stessi scienziati da quello che anche per loro può costituire il rischio di un sonno dogmatico. Con lo sviluppo di certi movimenti politici, si è avuta una presa di coscienza di problemi che rischiavano di rimanere nell’ombra, come quello dell’inquinamento, per esempio, della salute nelle fabbriche, della stessa utilizzazione della scienza».
Sia pure sotto la spinta di stimoli brutali ed estremizzati, la scienza si è trovata a riflettere su se stessa, aprendo un dibattito all'interno del proprio mondo.
«Ciò che bisogna continuare a ripetere - riprende il giornalista - è che la scienza in sé non è né buona né cattiva, né angelica né demoniaca. È uno strumento che l'uomo ha fra le mani e che può adoperare bene oppure male. Il punto è tutto qui, nell'uso che se ne fa. Quando si capisce questo, si può fare della divulgazione corretta».
La società italiana sta assumendo questo atteggiamento dialettico? La risposta non è confortante.
«Non mi pare, almeno a giudicare nel complesso. I miei libri si vendono bene e le mie trasmissioni sono seguite, ma l'impressione è che siamo ancora lontani, nel nostro Paese, dal giusto clima culturale. È sempre viva la polemica antiscientifica e siamo costretti a lottare continuamente contro le spinte irrazionali che serpeggiano nella società, pericolose perché danno ai giovani la sensazione che il destino dipenda dalle stelle e non dall'uomo e dal suo operare. In occasione del servizio televisivo sulla parapsicologia (che fra l'altro sbugiardò inesorabilmente i presunti poteri straordinari di certi ciarlatani, ndr) sono stato accusato di faziosità, quando avevo semmai commesso l'errore di essere troppo tenero e condiscendente. Ho cercato di essere il più possibile aperto ma, come è stato detto, non si può essere così aperti di mente da lasciare che il cervello caschi per terra. Evidentemente non è bastato cercare il giusto equilibrio fra le posizioni e far capire qual era il corretto metodo di indagine. Per fortuna era stato creato per l'occasione un comitato di esperti di varie discipline, scienziati e filosofi (fra gli altri Amaldi, Bovet, Garattini, Mainardi, Visalberghi, Buzzati-Traverso, Tecce, Vacca) che aveva il compito di mettere in guardia contro le informazioni distorte e di difendere la trasmissione da prevedibili accuse».
Del resto, la misura della dimensione culturale in cui si vive in Italia è offerta dalla vita politica, in cui tutto si risolve in termini di schieramenti, di compatibilità di puro principio, di scontri astrattamente ideologici, anziché su un confronto di proposte concrete, di tecniche e di strumenti. Secondo Angela
«la scienza dimostra che è possibile un accordo fra scienziati di diversa ideologia; sarebbe quindi possibile anche in politica un accordo sulle cose, almeno per quel tanto di scientifico o comunque di oggettivo che esse presentano sotto il profilo operativo (esiste lo stesso modo di mandare in orbita un satellite in un Paese capitalista e in un Paese socialista). Ma non siamo ancora abituati a dividere i fatti dalle opinioni, le cose che si credono dalle cose che si sanno».
Le tradizioni culturali latine purtroppo non sono favorevoli, poiché la cultura idealistica dominante sembra avere selezionato un tipo di intellettuale che più o meno inconsciamente nutre una profonda sfiducia nella scienza. Per lui quello che importa è la speculazione, buona o cattiva che sia. La nostra è tuttora una terra piena di dotti aristotelici che si rifiutano di guardare nel cannocchiale di Galileo per verificare se Giove ha davvero satelliti.
«Il guaio è che non possiamo più fondare il nostro sviluppo su tempi lunghi, che ci consentiva di imparare dagli errori commessi. Oggi non c'è più tempo per sbagliare e l’errore dobbiamo prevenirlo».
Ben vengano dunque i libri e le trasmissioni di Piero Angela, «che - dice - non sono affatto destinati agli ignoranti, o almeno non agli ignoranti tout court ma agli ignoranti specifici, fra i quali possiamo contare tutti gli intellettuali di cultura umanistica. Non voglio offendere nessuno, ma sono convinto che un magistrato, un professore universitario di letteratura, uno scrittore di romanzi si trovino al livello di un ragazzo intelligente di diciotto anni per quel che riguarda l’informazione scientifica e tecnologica. Anche per costoro io scrivo, per modificare, nei limiti che mi sono consentiti, la nostra cultura generale, che è una cultura contadina prescientifica».
Angela dice tutte queste cose senza acrimonia, con semplicità, con bonomia ma anche con profonda convinzione.
«Bisogna uscire dall’analfabetismo. E una cultura come la nostra, che nella sua generalità non sa leggere il suo tempo, cioè non lo sa capire, e di conseguenza non ci sa scrivere sopra (perché non sa come agire nella realtà), è una cultura che non sa né leggere né scrivere, quindi è diventata analfabeta. Questo non vale solo per l'Italia ma certamente anche per l'Italia, dove gli uomini di cultura, e basta prendere gli uomini politici come esempio, non hanno la cultura (la cultura e non le nozioni, la visione della realtà e non il sapere la formula dell’acido citrico o come si duplica il DNA) che consente di comprendere la metodologia della scienza e di capire quindi quale è il ruolo della tecnologia e gli investimenti che si devono fare. Chi ha la leadership dell'opinione queste cose non le sa ed è come una scimmia nella stanza dei bottoni».
Sotto la discrezione piemontese, Angela nasconde un temperamento battagliero e uno spirito che rifugge dalle ipocrisie. Del resto, queste cose egli non le ha dette soltanto in confidenza a Tempo medico ma le ha scritte nei libri. Vorrebbe modificare la situazione, arrivare se non altro a ottenere che la società italiana riuscisse a separare la realtà dalle opinioni, tanto più che
«tutti potrebbero rimanere fedeli alle proprie idee e non si tratta di pensarla tutti allo stesso modo. C’è gente che ha bisogno dell’irrazionale o, se si vuole, del trascendente. Benissimo, ci sono tanti eccellenti scienziati che hanno una profonda fede religiosa e questo non impedisce loro di essere induttivi e sperimentali nel loro lavoro. Ciò che è vero per uno scienziato lo è anche per un uomo politico e un umanista. Tutti possono benissimo soddisfare le loro esigenze interiori, purché non si confondano le sfere operative. Uno ha diritto di ubriacarsi, se lo desidera; quel che non può pretendere è di guidare la macchina dopo che ha bevuto».
Angela crede nel suo lavoro. Anche questo spiega il successo che ottiene. È anche convinto che il futuro dell'uomo sia nello spazio. Le utilizzazioni sono già incominciate, e basta pensare ai satelliti artificiali, che rendono tanti servigi nel campo delle comunicazioni. Ma ci sono altri e importanti sviluppi in prospettiva. Recentemente sono tornati su questo pianeta alcuni astronauti, rimasti nello spazio per sei mesi.
«Non ci sono rimasti per battere un record, per un fatto sportivo - commenta Angela -. Ciò prelude ad applicazioni. Me lo hanno detto alla NASA».
È prevedibile che il ciclo dei suoi libri e delle sue trasmissioni televisive abbia un lungo seguito.