In questa breve e improvvisata campagna elettorale si è notato nei diversi programmi elettorali la difficoltà ad affrontare nella loro complessità il tema sanità e welfare; una proposta, solo apparentemente modesta, viene dal libro di Carlo Saitto e Lionello Cosentino, La sanità non è sempre salute, i cui temi trattati richiedono si apra una discussione nella sanità pubblica italiana. (Immagine: Sante Monachesi, A foglia morta su Roma, 1940, Roma, Galleria d'arte moderna / Google Arts & Culture)
La pubblicazione del libro di Carlo Saitto e Lionello Cosentino (S&C), La sanità non è sempre salute (Il Pensiero Scientifico Editore, 2022), precede il confronto elettorale, ma la sua lettura è ancor più interessante alla luce di quanto discusso nei programmi dei diversi schieramenti politici che hanno presentato proposte e idee per la sanità e il welfare mediamente piuttosto convenzionali.
Il libro è originale anche perché è scritto da due autori che hanno una importante esperienza nella gestione di un sistema sanitario, quello della Regione Lazio. Se Cosentino è un politico della sinistra di lungo corso nella gestione della sanità, Carlo Saitto, medico, ha un ricco passato di lavoro clinico e di sanità pubblica e, negli ultimi anni della sua carriera, di Direttore Generale nelle ASL della Regione Lazio. Si aggiunge ai due autori una prefazione che è una riflessione a firma di Walter Tocci, esponente di primo piano di un mondo della sinistra politica e intellettuale, sempre molto impegnato nel cercare di dare indirizzi e riposte al sistema del servizio pubblico a Roma - e non solo - e in specifico nella sanità e nel welfare. È quindi rappresentata, già nei nomi degli autori, la rilevanza dell’esperienza a cui essi si possono riferire.
L’ ambizione di S&C non è stata quella di scrivere un libro descrittivo di dati epidemiologici né di teoria organizzativa. È una proposta che sembra venire da un mondo a parte, lontano da ciò che correntemente si legge e che tuttora troviamo centrale nei programmi elettorali; provocatorio nella sua asciutta modalità di analisi della sanità, del welfare e, obiettivo centrale della indagine, delle diseguaglianze nella salute. Non si dilunga con le usuali ricette, risposte organizzative, corporative o sindacali. La principale originalità di questo libro è infatti quella di proporre, con competenza, un drastico percorso di rottura, una via di uscita forte dalla situazione di crisi del sistema di salute e sanitario. Rapporti, osservatori sulla salute, relazioni scientifiche, anche approfondite, giacciono in tanti scaffali di libreria, più o meno aggiornati; essi sono raramente corredati con proposte interessanti e praticabili, spesso non aspirano o non riescono a divenire pratica sociale e gestionale.
Nonostante Tocci proponga di affidarsi alla indignazione dei cittadini, l’impressione, che io credo di condividere con gli autori, è che abbiamo oggi molti strumenti, culturalmente e scientificamente forti, a partire dai valori di riferimento, in primis quelli costituzionali, evidenze scientifiche già applicate in sanità pubblica e flussi informativi di popolazione che, pur con tutti i limiti, permettono di andare oltre l’ “indignazione”, che in questi anni troppo spesso si è accompagnata all'incapacità di costruire strade praticabili per ridurre le diseguaglianze.
La mortalità per municipio di residenza a Roma
Sin dall’incipit, il libro si concentra sulla praticabilità della proposta: mettere al centro gli obiettivi di salute per la popolazione; e offre alcuni strumenti per farlo in concreto, ponendo al centro dell’interesse la riduzione delle diseguaglianze socioeconomiche. Questo richiede di usare le informazioni disponibili in un modo che sia condiviso, rispettoso delle competenze tecniche, con una esplicita dichiarazione dei propositi, con capacità professionale e visione politica e, non ultimo, con la partecipazione dei cittadini. Nella sua apparente semplicità, la proposta è invece una grande sfida e i cittadini la possono girare a quei politici e tecnici che, se i ruoli sono chiari e le risposte, per quanto possibile, valutabili, spesso misurabili, potranno accoglierla localmente per puntare a una migliore sanità universalistica, cioè capace di offrire assistenza e cura con risposte egualitarie ai diversi bisogni di salute.
Partire dalla mortalità per causa a Roma, la città dove ogni Municipio è una città di medie dimensioni e quindi appartiene a un tutto, il Comune di Roma, evidenzia le contraddizioni della metropoli, con i suoi squilibri e le sue ingiustizie, più che non l’analisi di intere regioni. È una dimensione sociale naturale, che nasce dall’effettiva realtà di un’area metropolitana. Certamente un’analisi simile potrebbe essere prodotta anche per la realtà nazionale, o all’interno di una regione, così come definita dai confini amministrativi, ma qui si respira un forte senso di unità che il parlare di una città complessa come Roma consente. L’analisi statistica, che ci accompagna nella lettura in forma piacevolmente ripetitiva, è essenziale, scheletrica e parla con franchezza e forza. Per un epidemiologo, come io sono, abituato a leggere complesse elaborazioni o modelli statistici, rendere nudo il dato, e quindi diretto il messaggio comunicativo, è accettabile a fronte delle tante volte in cui la comprensione viene oscurata dalla complessità del metodo analitico e dalla prolissità delle tabelle. Ad altre sedi spetterà verificare se l’analisi complessa o l’uso di altri strumenti o flussi informativi possa confermare o meno le conclusioni che qui permettono a S&C di raffigurare gli andamenti della diseguaglianza nel tessuto sociale metropolitano.
Per chi segue questo tipo di pubblicazioni, queste non sono scoperte, né in Italia né in altri paesi; esistono molti convincenti e autorevoli studi epidemiologici che vanno in questa direzione e offrono dati e metodi di valutazione. Trasformarli in obiettivi pragmatici, descritti in maniera leggibile da tutti, suggerendo di usarli come base delle azioni di cambiamento dello stato di salute in una popolazione apre la strada a una conoscenza della diseguaglianza e della fragilità sociale che sia leva e misura del cambiamento.
La mortalità per diabete, e il suo confronto con quella attribuita a malattie mentali, sono presentate per ogni municipio romano nelle tabelle 2.3 e 2.4 a pagina 23 del libro. È ben conosciuta la gravità del diabete in mancanza di un percorso assistenziale organizzato che nel libro gli autori considerano elemento centrale di una politica sanitaria efficace. Purtroppo, è anche ben noto quanto poco un modo di lavorare per percorso di salute sia adottato nelle nostre realtà e non solo in quelle socialmente più deboli e professionalmente meno presidiate. Il tasso standardizzato di mortalità è decisamente ben correlato al valore del reddito per area di residenza (qui aggregato se superiore ai 27.000 euro annui). La sua rappresentazione grafica è incisiva, la quota di variabilità spiegata dalla diseguaglianza spinge prima facie all’indignazione.
Non sorprende, invece, che non vi sia un’evidente correlazione con la mortalità per malattie mentali, un insieme di cause composito, espressione di storie clinico assistenziali e servizi di sostegno variabili. La malattia mentale è meno direttamente misurabile con la mortalità e raccoglie quadri diversi, in particolare le demenze, patologie che riguardano persone anziane che colpiscono le famiglie anche con redditi più alti. Molti soffrono della carenza generale della struttura di welfare in Italia, un problema di assistenza all’anziano e alla patologia cronica come quella mentale che in Italia non riguarda solo i meno abbienti (anche se per loro è più grave) ma in larga parte anche i gruppi sociali a medio reddito (che sarebbe sbagliato definire ricchi). In questo caso probabilmente ci sarebbe bisogno di più indicatori e magari di una rappresentazione maggiore di queste fasce medie, su questi aspetti assai fragili.
Il tumore del seno, la causa di morte oncologica più frequente nelle donne, mostra un andamento contradditorio che viene confermato quando si guardi anche ai ricoveri (o all’incidenza di malattia). Ci sono altri fattori in gioco nella popolazione: donne più giovani o immigrate (fertilità come fattore protettivo), ma c’è anche un disaccoppiamento tra incidenza del tumore (o ricoveri) e mortalità, che può essere attribuito alla diversa efficacia del percorso diagnostico terapeutico non solo per ragioni di diseguaglianza di accesso alle cure ma anche per una differente risposta per fascia di età o per differenziata risposta locale del sistema sanitario, che può riflettere la sua diseguale distribuzione o suo utilizzo. L’interpretazione diviene più complessa (incluso l’impatto dello screening organizzato) ma non inficia la rilevanza della mortalità come indicatore; spinge però a studiare con maggiore profondità le varie fasi del percorso di salute. È questa, si deduce anche da questi esempi più critici, la chiave di volta proposta per coniugare indagine epidemiologica, politica sanitaria e valutazione.
Una proposta troppo modesta?
Un sistema sanitario universalistico che non veda cosa accade nella sua popolazione di riferimento e interviene solo per aumentare l’offerta di prestazioni non misura e valuta ciò che ha contribuito a cambiare e quindi disattende al suo compito. La valutazione del sistema sanitario oggi, nella sua forma migliore, è attenta all’esito di singole prestazioni, solo raramente si spinge alla valutazione di percorsi assistenziali e comunque opera in una prospettiva prevalentemente medica e individuale. Trasforma poi il giudizio sulle performance individuali in una valutazione dell’azienda, del singolo operatore o del servizio sanitario regionale mettendo sempre al centro l’offerta e la qualità delle prestazioni. Il recente rapporto nazionale di valutazione delle aziende ospedaliere redatto da Agenas e Sant’Anna di Pisa, per esempio, si basa sui due sistemi di misurazione consolidati - il Programma Nazionale Esiti e il Sistema di Valutazione dei Sistemi Sanitari Regionali - e aggiunge una prospettiva di analisi nuova, perché fotografa l’assetto organizzativo e scelte economico-gestionali delle aziende ospedaliere. Questi sono, in fase sperimentale e ancora limitata, i principali momenti di valutazione non economica del sistema sanitario italiano e sappiamo quanto ancora poco influiscono sul governo del sistema.
Molto si risolve nella costruzione di una “classifica” come quella sui LEA, che ha riscontro per qualche giorno nei titoli dei giornali e dei media e ove ciò che conta è la regione che arriva per prima o quella che ha qualche indicatore insufficiente. Manca una lettura per obiettivi di assistenza e cura che consideri la salute della popolazione, individuata non come luogo amministrativo ma come comunità di problemi e di intervento. La politica e le istituzioni non conoscono in cosa hanno contribuito a cambiare la salute e tantomeno se riescono a controllare le diseguaglianze da un punto di vista della popolazione, un obiettivo che è fondativo del nostro servizio sanitario a livello regionale e nazionale. Ancora meno esse si confrontano su come agire praticamente sulle diseguaglianze economiche e sociali nei bisogni e nell’offerta di servizio. Non mancano le descrizioni dello stato epidemiologico attuale di singole ASL, manca l’elaborazione di dati finalizzata al cambiamento per la popolazione e quindi azioni consapevoli e misurabili su obiettivi di salute che non siano estemporanee ed esemplari.
L’apparentemente modesta proposta (non nel senso di Swift, i nostri tempi non concedono la forte satira) di concentrare la decisionalità di politica sanitaria sugli obiettivi di salute di popolazione pone, secondo me, problemi di gestione del sistema sanitario che vanno oltre quelli che gli autori individuano nel libro. S&C pongono infatti al centro del cambiamento il distretto, individuato, insieme al Comune con le sue articolazioni, come il luogo “mitico” dove ritrovare una comunità consapevole e l’energia necessaria per cambiare. Della complessità del cambiamento, ovviamente, gli autori sono più che consapevoli, come si legge nella loro introduzione, ove si ripercorrono i problemi della struttura istituzionale, a partire dal titolo V della Costituzione fino alla valutazione e al sistema dei LEA e la limitazione della gestione politica delle regioni e del centralismo. Non azzardano però valutazioni su quanto l’attuale assetto gestionale aziendale sia compatibile e possegga la cultura per andare nella direzione che suggeriscono.
Nella sua prefazione, invece, Tocci lamenta più esplicitamente un dibattito nazionale ripiegato all’interno di tradizionali politiche ministeriali e regionali, che finisce per risolversi in ricette tradizionali: la richiesta di più finanziamenti e più servizi. Conclude riconoscendo agli autori il coraggio di confutare alla radice gli argomenti, sia quelli dei conservatori dell’establishment sia le sterili rivendicazioni, ma identifica, io credo correttamente, nella responsabilità culturale e professionale del servizio la differenza nella attuale gestione dell’ospedale rispetto a quella del territorio. Io intendo questa sua affermazione esprima l’esigenza di rimettere al centro del servizio sanitario una cultura multi-professionale che non sia frammentata tra ospedale, territorio e medicina di famiglia. Una mancanza di finalità comuni resa evidente dalla pandemia di Covid-19, nell’offerta non governata del welfare per l’anziano e i fragili, nella sostanziale frattura, presente già dagli albori, tra medicina territoriale e ospedaliera (anche grazie al pesante contributo che a questa frattura culturale ha dato l’università di medicina). La crescente crisi dell’attuale assetto burocratico e procedurale del sistema pubblico lo rende refrattario al cambiamento, una difficoltà che Tocci vede “incastellata nella fortezza dell’azienda sanitaria”, un tipo di azienda che è un vecchio arnese. Abbiamo a che fare con aziende “false”, gestori di budget che sono programmati in modo sempre più lontano dalle esigenze (e non parliamo del bisogno legato alla diseguaglianza, che nella politica sanitaria attuale non esiste), in sostanza programmate centralmente e strutturalmente impossibilitate a rispondere all’innovazione, anche tecnologica, che è sempre più necessaria nei servizi di welfare e di cura. Il rapporto tra la gestione della sanità e la politica affonda nella storia della nascita del sistema sanitario con la legge 1978 e si è risolto oggi nella predominanza dei governatori e del burocratismo ministeriale (centralismo, lo chiama Tocci) che ha contrassegnato la storia di questa pandemia sia a livello di gestione nazionale che regionale.
In questa breve e improvvisata campagna elettorale si è notato nei diversi programmi elettorali la difficoltà ad affrontare nella loro complessità il tema sanità e welfare. Pochi hanno ripensato alle difficoltà evidenti che l’assetto derivante dai 21 sistemi sanitari regionali durante la pandemia hanno comportato nell’emergenza, ma che sono presenti anche nella vita quotidiana del nostro servizio sanitario. D’altra parte, l’impronta burocratica e centralista si evidenzia nelle risposte che anche oggi si stanno configurando, con la prevalente attenzione alle infrastrutture (PNRR) e alle liste degli standard organizzativi (di fatto poco considerando la cultura multi-professionale necessaria al cambiamento).
Sui temi proposti da questo libro bisognerà che si apra una qualche discussione nella sanità pubblica italiana. Leggendo un libro come questo se ne intuiscono le ragioni - anche se si hanno pareri diversi sull’analisi e le proposte da fare - e forse si possono ritrovare le motivazioni anche professionali che costituiscono la ragion d’essere della sanità come servizio pubblico. L’esigenza di una riforma che vada in profondità, ridefinisca gli obiettivi e gli strumenti di gestione affrontando nodi che sono cruciali per i cittadini, richiede di considerare in questa ottica questioni come il rapporto pubblico-privato o l’insieme dei problemi del lavoro nella sanità e nel welfare. Ormai non si può solo continuare a lamentare la crisi del sistema; è di modeste proposte come queste che occorre cominciare a parlare. Questo libro getta il sasso nello stagno, ma non prende atto, e secondo me è il suo limite, che lo stagno è quasi vuoto - e non parlo di risorse - cioè corre il rischio di non suscitare neanche una piccola onda. Non bisogna nascondersi che le direzioni in cui andare possono essere tante, gli interessi, le sensibilità professionali, politiche, corporative molteplici. È una sfida che chi ritiene che il sistema sanitario pubblico universalistico (oggi parte integrante di un sistema di welfare), nelle diverse forme assunte in Europa e in pochi altri paesi del mondo, sia tuttora la risposta migliore deve accettare in modo aperto. Mettere al centro la salute della popolazione e della persona, la qualità professionale e lavorare per la riduzione delle diseguaglianze, non burocraticamente ma coinvolgendo i cittadini e i professionisti, è la politica più difficile, nel senso buono del termine.
Ho espresso, insieme con altri interventi, alcune posizioni su queste esigenze in un contributo su Epidemiologia e Prevenzione, perché mi sembra che questa esigenza di cambiamento, debba avere una risposta adeguata e coinvolgente di tutti i protagonisti. Questo libro definisce la novità dello scenario su cui si dovrebbe lavorare per il cambiamento, consapevoli dell’esistenza di interessi, analisi e visioni diverse su come risolvere i problemi che sono ormai evidenti.