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Conserve, quelle di pesce fanno bene?

Tonno in scatola, Jules (Flickr).

Tempo di lettura: 12 mins

Uno studio dell’Istituto Mario Negri pubblicato quest’anno sulla rivista Nutrients ha evidenziato una riduzione del rischio di tumore del colon-retto del 34% in chi consuma almeno due porzioni alla settimana di tonno, sgombro o sardine in scatola rispetto a chi non ne mangia. 

Pratico e veloce da usare, facile da trovare (chi non ne ha una scatoletta in casa?), economico: che il consumo regolare di pesce in scatola sia stato associato a una diminuzione del rischio di tumori del colon-retto è una buona notizia, che sdogana un alimento che piace a tutti, non richiede particolare fatica né nel reperirlo né nel prepararlo e che tutti ci possiamo permettere. Non per nulla il suo consumo in Europa è cresciuto durante la pandemia di Covid-19, in un periodo in cui sono stati valorizzati i cibi facili da conservare, che consentono di farsi scorte in dispensa. Per una volta, aprendo una scatoletta per risolvere una cena all’ultimo minuto con la classica pasta al tonno, potremo non sentirci in colpa sul fronte nutrizionale. Contrariamente a quanto avviene per la carne lavorata e conservata, come i salumi, la cui azione sfavorevole sul rischio di tumori del tratto gastrointestinale è ormai accertata, per il pesce conservato questo effetto negativo non si vede, anzi. 

Lo studio, condotto dall’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS di Milano, ha esaminato per la prima volta l’effetto del consumo di pesce in scatola separatamente da quello di pesce fresco sul rischio di tumore al colon-retto. È stato condotto nell’ambito delle attività dell’Italian Institute for Planetary Health (IIPH), in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano: l’IIPH è un consorzio tra Mario Negri e Università cattolica di Roma, che ha lo scopo di studiare modi e metodi per rendere compatibili la salute umana e quella del pianeta: investigare sui cibi, tra gli elementi fondamentali della relazione tra umani e ambiente, costituisce uno dei filoni principali di queste ricerche.

Un tumore diffuso, legato allo stile di vita

Occuparsi di prevenzione del cancro del colon-retto è importante anche perché è in assoluto uno dei più diffusi. Secondo i dati più recenti, nel 2020 sono stati 1,9 milioni i nuovi casi di cancro del colon-retto in tutto il mondo, dato che lo pone al secondo posto per le donne e al terzo per gli uomini in termini di incidenza; con 935.000 decessi è stato la seconda causa di mortalità per cancro. Più diffuso nei Paesi ad alto reddito, presenta oggi una tendenza all’aumento in quelli che stanno evolvendosi significativamente verso condizioni più simili a quelle occidentali (per esempio, Europa orientale, Asia sud-orientale e centro-meridionale e Sud America), il che riflette probabilmente i cambiamenti nei fattori di stile di vita e nella dieta.

Vale la pena ricordare, di passaggio, un aspetto importante: nella prevenzione di questo tumore gioca un ruolo fondamentale lo screening sulla popolazione, che può essere basato sulla ricerca ripetuta del sangue nelle feci (metodo di gran lunga più diffuso in Italia) o sull’esecuzione di una rettosigmoidoscopia una volta nella vita; si tratta infatti di uno dei pochi casi in cui grazie allo screening si può agire non solo con la diagnosi precoce, ma anche identificando e rimuovendo neoformazioni quando sono ancora allo stadio benigno, prima che degenerino, ovvero attuando una forma di prevenzione primaria.

I fattori di rischio legati allo stile di vita (e quindi modificabili) per questo tumore sono ormai noti da risultati di studi piuttosto consolidati: uno stile di vita sedentario, ovvero praticare scarsa attività fisica, il cui effetto protettivo contro il tumore al colon è confermato da molte ricerche; peso corporeo in eccesso; il consumo di alcol eccessivo; il fumo di tabacco e un elevato consumo di carni rosse o lavorate. Al contrario è stata inversamente associata al rischio una dieta ricca di cereali integrali, fibre alimentari, prodotti lattiero-caseari e calcio, verdure (escluse quelle amidacee, come le patate) e frutta.

Quanto al pesce, sembra che svolga un ruolo favorevole nel rischio di cancro, soprattutto in quello dell'apparato digerente, compreso il cancro al colon-retto, anche se gli studi hanno dato risultati non sempre coerenti tra loro. Benché il pesce fosse da tempo incluso tra gli alimenti che hanno un probabile effetto protettivo contro il cancro colon-rettale, il ruolo specifico del pesce conservato sott’olio non era ancora stato definito con chiarezza e proprio su questo aspetto hanno puntato la lente i ricercatori, utilizzando i dati di due grandi studi caso-controllo condotti in Italia.

Mangiare pesce in scatola fa bene?

Come racconta Barbara D’Avanzo, responsabile del laboratorio di valutazione della qualità delle cure e dei servizi del Mario Negri, che ha coordinato lo studio, la ricerca «si è focalizzata sul pesce in scatola – tonno, sgombro e sardine sott’olio – un alimento stranamente piuttosto trascurato dalla ricerca, considerata la sua diffusione, per capire quali fossero gli effetti del suo consumo sulla salute: abbiamo potuto farlo in maniera puntuale grazie all’esistenza di due ampi database, costruiti nel tempo grazie a una collaborazione tra Mario Negri, Università statale di Milano e altri contesti accademici, in cui erano raccolti dati relativi a grandi gruppi di persone sulla diffusione di diversi tumori e le più importanti caratteristiche sociodemografiche, cliniche e le abitudini di vita della stessa popolazione». 

La metodologia seguita è quella degli studi caso-controllo, come spiega ancora Barbara D’Avanzo: «Si tratta di studi che confrontano la frequenza di alcune caratteristiche, abitudini di vita e altri fattori di rischio in un gruppo di persone affette dalla patologia studiata – in questo caso tumori del colon e del retto – rispetto alla frequenza delle stesse caratteristiche in un gruppo di persone che non sono affette dalla patologia studiata né da altre patologie che abbiano fattori di rischio in comune con quella considerata».

Per investigare sulle abitudini delle persone è stato utilizzato un questionario dettagliato. Come conferma D’Avanzo: «Abbiamo utilizzato un questionario molto completo, che non includeva soltanto la parte dietetica, che pure era molto ampia e precisa, ma anche una serie di domande per rilevare tutti gli altri fattori di rischio che possono contribuire all’insorgenza del tumore: sesso, età, indice di massa corporea, livello di istruzione, storia familiare di tumore al colon-retto, attività fisica connessa al lavoro, fumo e quantità di sigarette al giorno, consumo di alcol, consumo di verdura e frutta, introito calorico, consumo di pesce fresco. Questo passaggio è fondamentale perché ci permette di “aggiustare”, come si dice tecnicamente, la stima di riduzione del rischio associata al consumo di pesce in scatola tenendo conto di tutti gli altri fattori di rischio noti. Di eliminare, insomma, per quanto è possibile l’effetto dei fattori confondenti: per esempio, il consumo di pesce in scatola potrebbe associarsi a una dieta migliore in generale. Il metodo di analisi permette di tenere conto di questo aspetto. Da sottolineare che nella ricerca è stata inclusa una popolazione molto ampia: i casi osservati sono quasi 2.500, messi a confronto con oltre 4.700 controlli, il che dà ai risultati una certa robustezza. Il risultato osservato è stato una diminuzione del rischio, rispetto a chi non consuma pesce sott’olio, del 19% per chi lo consuma più di ogni 15 giorni, ma meno di due volte alla settimana; e addirittura del 34% per le persone che lo consumano due o più volte alla settimana. Come tutti gli studi caso-controllo, bisogna notare che siamo di fronte ad associazioni: la loro natura causale deve poi essere stabilita in base alla verosimiglianza biologica. In questo caso, si ritrova nel fatto che il pesce in scatola condivide molte caratteristiche salutari del pesce non preparato in scatola. Si può aggiungere che un ulteriore nostro studio basato sugli stessi database e sulla stessa metodologia in corso di pubblicazione su Nutrition and cancer ha mostrato una significativa riduzione del rischio legata al consumo di pesce in scatola anche per i tumori dello stomaco e del cavo orale».     

La raccolta dei dati originali dello studio è stata sostenuta dalla Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro. L’analisi dei dati relativi all’effetto del pesce in scatola è stata finanziata dalla Bolton Food SpA.

Il pesce in scatola è una fonte di proteine più equilibrata

Il tonno e lo sgombro in scatola possono dunque trovare posto in una dieta sana ed equilibrata? E se sì, come? Lo abbiamo chiesto a Lucilla Titta, nutrizionista, coordinatrice di Smartfood, il programma di ricerca e comunicazione in scienze della nutrizione dell'Istituto Europeo di Oncologia di Milano.

«Il tonno in scatola, così come lo sgombro e le sardine in scatola, è certamente un ottimo alimento e trova posto in una dieta equilibrata: rispetto ad altre scelte proteiche, in particolare alla carne rossa e soprattutto ai salumi, il pesce in scatola è maggiormente salutare e, dato che non costa molto, è anche democratico. Non molti sanno che una porzione di tonno apporta una maggiore quantità di proteine rispetto a una di carne di manzo. E anche più vitamina D».

Non tutte le conserve sono uguali, quindi, se pensiamo che invece il consumo di salumi e in generale carne conservata è sconsigliato. 

«È interessante notare – continua Lucilla Titta – che mentre per il consumo di carne lavorata è emerso un effetto negativo, legato a un aumento del rischio di tumori, che come è noto nel 2015 ha portato lo IARC a includerla tra i carcinogeni per gli umani, per il pesce sott’olio questo non avviene. Ci sono ben pochi studi su questo argomento, tra l’altro, quindi ben venga una ricerca che mostra una correlazione favorevole. Più che a uno specifico effetto antitumorale legato a sostanze presenti nel pesce in scatola io penserei all’effetto su un maggiore equilibrio della dieta in generale, dato appunto che è una delle fonti di proteine più salutari. Consumarne una o due porzioni alla settimana, accompagnate da carboidrati come pasta, riso o altri cereali, meglio se integrali, e un contorno di verdure che non deve mai mancare, è sicuramente un’opzione consigliabile: per esempio parliamo delle classiche insalatone o di una pasta condita con tonno e pomodoro, che può fare da piatto unico. Attenzione però al sale: il tonno in scatola ne contiene parecchio, circa un grammo per ogni 100 di prodotto, quindi è consigliabile evitare di aggiungere sale ai piatti che lo contengono. Basta il tonno a dare tutta la sapidità necessaria. Inoltre secondo le linee guida del Crea la porzione consigliata è di 50 grammi, anche se la tendenza più diffusa è consumarne quantità maggiori».     

Una volta stabilito che il pesce sott’olio è un valido componente della nostra dieta, abbiamo chiesto a Emanuela Bianchi, tecnologa alimentare, coordinatrice dell’ufficio di ricerche in campo alimentare di Altroconsumo, se sia meglio quello in vetro o in lattina: «Tendenzialmente, dato che quando il contenitore è di vetro il consumatore può vedere quello che sta comprando, i produttori per il tonno in barattolo trasparente utilizzano tagli migliori e tranci di tonno più grandi e integri. Non per nulla mediamente è un prodotto più caro. Però nel nostro test più recente, pubblicato ad aprile 2020, che ha riguardato solo il pesce in lattina, includendo 24 marche tra le più diffuse sul mercato, i risultati sono stati comunque buoni e possiamo dire che tutti i prodotti sono stati promossi». Nel complesso, dunque, il tonno in scatola è risultato essere di buona qualità. Spiega ancora Bianchi: «I campioni inclusi nelle analisi non avevano problemi di freschezza della materia prima, che abbiamo controllato attraverso le analisi dell’azoto basico volatile totale e verificando l’eventuale presenza di istamina; inoltre nei campioni è risultata assente o contenuta la presenza di difetti come residui di pelle, lische o squame, macchie scure e simili. Anche la specie dichiarata in etichetta, quando indicata, pinne gialle o tonnetto striato, corrispondeva sempre al contenuto: nella maggior parte dei casi si tratta di tonno a pinne gialle, che è il più apprezzato, ma purtroppo è anche una specie minacciata; dal punto di vista ambientale sarebbe meglio scegliere il tonnetto striato, possibilmente pescato a canna». 

Lati critici sul fronte della sostenibilità del tonno

Un aspetto da non trascurare è in effetti quello della sostenibilità, se parliamo di tonno. La richiesta eccessiva concentrata su poche specie, ovviamente, le mette a repentaglio. Abbiamo ascoltato in merito Valentina Tepedino, medica veterinaria ed esperta di prodotti ittici. «Se guardiamo all’intero ciclo di vita produttivo, il pesce in scatola, proprio perché è un prodotto trasformato, a parità di condizioni ha, in generale, un peso ambientale maggiore rispetto al pesce fresco: pensiamo al trasporto, alla refrigerazione, alla cottura, all’inscatolamento, alla produzione delle scatolette… All’interno del pesce in scatola, sgombro e sardine potrebbero risultare più sostenibili del tonno a pinne gialle, effettuando un’analisi del loro ciclo di vita. In ogni caso il consiglio più importante, pensando a preservare le risorse del mare, è non soltanto alternare al consumo di pesce in scatola quello di pesce fresco o surgelato, ma anche variare tra prodotto pescato e allevato e non fissarsi sempre sulle stesse specie ittiche; bisogna variare, ricorrendo anche a pesci meno conosciuti, presenti nelle nostre acque: come le tante specie di tonno, tonnetto, tombarello, sgombri, sardine e alici; sogliole mediterranee, spesso più piccole, come taglia, di quelle di origine atlantica; molo, della stessa famiglia del merluzzo nordico; sugarello, imparentato con la ricciola, adatto anche al sushi; e anche la trota, che non ha molto da invidiare al salmone». 

Nel tonno c’è il mercurio?

Il pesce di grossa taglia, come lo spada, il tonno o la verdesca, può essere soggetto a contaminazione da mercurio, un inquinante presente nei mari (tra cui in particolare nel Mediterraneo), che si accumula nel grasso dei pesci e quindi in particolare nei pesci predatori, che si nutrono di pesci di taglia più piccola. Altroconsumo ha misurato anche il contenuto di mercurio del tonno. Come spiega Emanuela Bianchi: «Recentemente abbiamo misurato il mercurio sia nel corso del test comparativo del 2020 sia ad aprile dell’anno successivo, quando in un’altra inchiesta abbiamo portato in laboratorio un centinaio di campioni di pesce di specie diverse, sia fresco, sia conservato, sia surgelato. Nel test è risultato che per quanto riguarda il mercurio oltre la metà dei campioni non avevano problemi, tanto da meritare giudizi buoni od ottimi, e che nessuno oltrepassava i limiti di legge, anche se alcuni si avvicinavano alla soglia in misura maggiore di altri. Nell’inchiesta dell’anno successivo abbiamo voluto verificare il rischio di superare la dose settimanale considerata tollerabile di mercurio attraverso il consumo di pesce. Le specie più a rischio sono risultate lo spada (fresco) e la verdesca (surgelata): per quanto riguarda queste specie ittiche con una sola porzione un adulto può superare la dose settimanale considerata tollerabile. Nei campioni di alice e tonno in scatola abbiamo trovato una quantità inferiore di questo inquinante, che può però suggerire una certa attenzione se parliamo di bambini sotto i cinque anni: una porzione infatti può far raggiungere circa un terzo della dose settimanale ritenuta tollerabile per questa fascia di età. Meglio quindi, soprattutto nei bambini, alternare il consumo di pesci di specie diverse, senza dimenticare quello fresco, e preferendo specie di taglia piccola o che hanno vita breve, come trota, sgombro, sardine, salmone, che non tendono ad accumulare questo inquinante nelle proprie carni», conclude Bianchi. 

 


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