Il comunicato rilasciato dalla Società Psicoanalitica Italiana, nel quale è espressa la preoccupazione per il ricorso ai bloccanti della pubertà per minorenni con diagnosi di disforia di genere, ha suscitato grande clamore mediatico. Varie voci si sono levate dal mondo medico-scientifico a difesa dell'uso di questo farmaci, che sono tra gli approcci più sicuri ed efficaci per trattare la disforia di genere nella prima pubertà e durante l’adolescenza - ovviamente a fronte di una «valutazione biopsicosociale completa» mirata sul caso e condotta da un gruppo di controllo multidisciplinare.
Nell'immagine: bandiera transgender. Crediti immagine: Alexander Grey/Unsplash
Il 12 gennaio la Società Psicoanalitica Italiana (SPI) pubblica, a firma del presidente Sarantis Thanopulos, un comunicato indirizzato al governo. Il testo esprime «grande preoccupazione» per il ricorso a farmaci che bloccano lo sviluppo puberale su minori con diagnosi di disforia di genere. A sostegno di questa preoccupazione segue un elenco di controindicazioni a monito che la «sperimentazione in atto elude un’attenta valutazione scientifica». Infine, l’invito ad avviare una «rigorosa discussione».
È un casus belli, ma le belligeranze sono antiche. Così, in un paio di settimane la notizia rimbalza su vari media: chi rilancia, cercando magari un approfondimento (parziale) sul caso, ma più folta la schiera di chi la usa come fionda nello scontro politico e socioculturale in corso sulle persone transgender. In risposta, arriva infine una levata di scudi da parte di numerose voci del mondo medico-scientifico che si è protratta fino agli ultimissimi giorni, difendendo il ricorso ai bloccanti puberali e contestando nel merito le affermazioni della SPI.
La tempesta annunciata
Che una tale questione venga fuori adesso non deve sorprendere: è una tempesta annunciata. Ci troviamo, infatti, in una fase di passaggio storica riguardo il progresso della salute transgender. Può valer la pena ricordare che la depatologizzazione officiale dell’incongruenza di genere è appena avvenuta: tra il DMS-5-TR dell’American Psychological Association nel 2013 e l’ICD-11 dell’Organizzazione mondiale della sanità, approvata nel 2019 e rilasciata nel 2022. Ma mentre l’expertise di settore propone soluzioni d’avanguardia in ambito medico-clinico, sulla base degli studi aggiornati, il mondo nel complesso – inclusa buona parte della comunità scientifica estesa – non ha ancora assimilato molte delle conoscenze acquisite sui temi di genere e sessualità, finendo spesso per contestarle senza cognizione di causa.
Nel caso specifico poi, più rilevante ancora è che la salute delle persone transgender è strettamente legata a un problema di fortissimo stigma sociale e strutturale, divenendo così particolarmente incandescente quando si tratta di minorenni. Era avvenuto anche pochi mesi fa, quando la World Professional Association for Transgender Health (WPATH) aveva aggiornato il Gold Standard delle cure per la salute delle persone transgender introducendo un nuovo capitolo dedicato appositamente all’adolescenza (su Scienza in rete ne avevamo parlato qui).
Il ritornello del dibattito pubblico italiano
Riguardo la questione odierna, il pronto intervento della comunità scientifica italiana ha del nuovo in quanto a estensione e coordinamento. Ciononostante, le dinamiche del dibattito pubblico seguono nel complesso un ritornello trito. Quando a febbraio 2019 l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) aveva esteso la prescrivibilità e la rimborsabilità della triptorelina come bloccante puberale per il trattamento di adolescenti con disforia di genere si era assistito a una bagarre simile (Giulia Siviero de Il Post l’aveva illustrata con chiarezza).
Alla fine, solo su un punto c’è accordo unanime: si parla della salute delle persone, in particolare di minorenni. Al netto di tutto, sarebbe dunque auspicabile che le sedi e le persone esperte competenti raccogliessero davvero l’invito a una discussione rigorosa per superare le criticità del panorama italiano riguardo la salute transgender. Tuttavia, il marasma mediatico di allarmismi e schieramenti rischia di minare di nuovo – se non lo ha già fatto – le possibilità di un confronto proficuo. Tanto più per questo, è importante farsi un’idea più chiara, sia della questione in sé, sia del contesto nel quale emerge. A tal proposito, spoiler: il diavolo è nei dettagli.
Per chi non avesse presente i bloccanti puberali: cosa, quando e perché?
Quattro anni fa, il via libera dell’AIFA (e, a monte, del Comitato Nazionale di Bioetica) sulla triptorelina è stato un passetto avanti verso l’accessibilità alla salute transgender. Tuttavia, l’utilizzo di questo tipo di farmaci non è affatto una novità. Sin dagli anni ’80 si è iniziato a ricorrere abitualmente ai bloccanti degli ormoni sessuali, soprattutto per curare alcuni tumori (esempio, alla prostata o al seno) e altre condizioni ormone-sensibili (endometriosi o fibromi uterini); ma anche per trattare bambine e bambini che presentano pubertà precoce centrale (CPP): semplificando, quando lo sviluppo sessuale tipico dell’adolescenza avviene in età estremamente prematura, o troppo rapidamente, rischiando di causare problemi di varia natura. In sostanza, si fornisce un ormone artificiale (GnRH agonista) che satura specifici recettori dell’asse ipotalamico-ipofisario, responsabili a loro volta del rilascio di alcuni ormoni sessuali. Nei casi di CPP, si blocca così temporaneamente, o si rallenta, lo sviluppo dei caratteri sessuali primari e secondari (gonadi, genitali, seno, peluria, ecc.). In genere, il trattamento prosegue fino agli 11-12 anni, per poi lasciare che il corpo riprenda il processo di maturazione sessuale. Nonostante qualche dubbio sollevato in merito ad alcuni possibili effetti collaterali – rischi che però, a oggi, non sono stati confermati scientificamente – la maggior parte degli studi e delle prove sperimentali ha dimostrato la sicurezza e l’efficacia dei bloccanti della pubertà.
Sulla scorta positiva di questa linea di ricerca, a cavallo tra gli anni ‘90 e 2000 si è iniziato ad applicare lo stesso trattamento anche su minorenni con diagnosi di disforia di genere – previo il requisito che lo sviluppo sessuale sia iniziato (almeno stadio 2 della scala Tunner), non v’è quindi prescrizione per l’età prepuberale, nonostante quanto danno a intendere certe narrazioni. – L’obiettivo è lo stesso: fermare (almeno temporaneamente) lo sviluppo dei caratteri sessuali. Differenti, invece, alcuni parametri e, soprattutto, le ragioni di fondo. Un aspetto rilevante è che in questo caso la somministrazione dei bloccanti, pur abbracciando spesso un numero analogo di anni, è tipicamente traslata in là nel tempo, arrivando fino ai 16-18 anni. Questo e altri scostamenti del quadro medico-clinico generale hanno spinto e spingono giustamente a proseguire le ricerche. Di conseguenza, i dati e gli studi rilevanti sulla popolazione adolescente sono già significativamente aumentati rispetto a venti anni fa, e anche se non ancora definitivi, nel complesso continuano a esprimersi in favore di questo tipo di trattamento. Rimanendo nella stessa ottica, raccomandazioni ulteriori suggeriscono di valutare sempre caso per caso e, se necessario, integrare i bloccanti puberali con altre terapie di supporto (per esempio, allo sviluppo osseo). A fronte di questo quadro, varie esperte ed esperti di bioetica e storia della medicina, come Søren Holm e Simona Giordano, hanno ribadito recentemente che il ricorso ai bloccanti puberali nel caso di minorenni transgender «non è sperimentale, o almeno non è più sperimentale della pratica pediatrica standard».
Le ragioni poi che hanno incoraggiato la diffusione di questo approccio di cura sono principalmente legate all’urgenza d’intervenire sulla base della valutazione dei rischi. Qual è l’urgenza? Nel caso di minorenni transgender, lasciare che il corpo prosegua lo sviluppo di caratteri sessuali percepiti come incongrui alla propria identità di genere non è una scelta neutra e senza conseguenze. È già un danno. Lo è subito nella misura in cui alimenta già nell’adolescenza la sofferenza e il disagio psicologico legato alla disforia di genere. E lo è in prospettiva, considerando che il permanere di questo stato di cose, così come gli approcci – terapeutici, ma anche sociali o familiari – che reprimono l’identità di genere di un individuo sono strettamente associati a tassi sproporzionalmente elevati di ansia e depressione a valenza cronica, nonché maggiore tendenza all’autolesionismo e al suicidio. A scanso di equivoci: queste considerazioni non sono ipotesi di ricerca, sono evidenze scientifiche maturate nella lunga parabola storica di studio dell’incongruenza di genere, riconfermate anche dagli studi più recenti. Tutto ciò, senza contare che intraprendere una transizione di genere medica o chirurgica una volta che i caratteri sessuali si siano sviluppati è comunque un percorso dai margini d’efficacia limitati, lungo, doloroso, spesso costoso, e che tende a incrementare l’esposizione delle persone transgender a fenomeni quali mobbing, violenza e marginalizzazione.
La posizione “controtendenza” della SPI
Riassunto il tema di fondo, val la pena dare uno sguardo al contesto professionale nel quale è stato lanciato l’allarme e al nocciolo delle controindicazioni espresse. Nonostante alcuni quotidiani abbiano presentato il comunicato della SPI come un sollevamento della scienza contro la fantomatica “ideologia” o “teoria del gender”, la maggior parte dell’expertise scientifica non ha accolto questa posizione. Anzi, rifacendosi agli studi attuali e sottolineando come, statistiche alla mano, il ricorso ai bloccanti della pubertà salvi molte vite e riduca significativamente la comorbilità associata al mancato trattamento della disforia di genere, numerose tra società scientifiche e ordini professionali hanno preso pubblicamente le distanze dalle dichiarazioni firmate da Thanopulos. Tra queste la Società italiana di psichiatria, l’Ordine degli psicologi, la Società italiana di endocrinologia, la Società italiana di pediatria, e la Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza – solo per citarne alcune. Dinnanzi a questo spaccato del mondo medico-scientifico, nettamente asimmetrico, viene da chiedersi quale sia allora il senso del monito secondo cui la «sperimentazione in atto elude un’attenta valutazione scientifica»?
Il nocciolo delle controindicazioni della SPI è che senza il confronto con il “completo sviluppo sessuale”, e senza l’esperienza del conseguente “pieno appagamento erotico”, non sia possibile una valutazione adeguata della propria identità di genere da parte dei soggetti interessati, né fare una diagnosi accurata di disforia di genere da parte del personale sanitario. Tuttavia, le basi teoriche di questa posizione psicanalitica oggi sono largamente in discussione. Si tratta, infatti, di un approccio che tende a rigettare o ignorare molti dei progressi conoscitivi degli ultimi decenni in merito alla complessità e alle distinzioni tra identità di genere, espressione di genere, caratteri sessuali e orientamento sessuale. Ciò risalta anche nel lessico del comunicato, dove si parla di una general generica «identità sessuale», e di un «opposto orientamento interno», rifacendosi a una concezione rigidamente binaria e monolitica “dei sessi”. Ma non è di una banale questione lessicale. Almeno dagli anni ‘50 a oggi si è accumulato un consistente numero di studi multidisciplinari (dalla psichiatria alla sessuologia, dalla sociologia all’antropologia) che ha messo in luce come questi aspetti della realtà umana, pur intrecciandosi profondamente tra loro, costituiscono dimensioni in larga misura indipendenti e ricche di sfumature. Giusto per citare un esempio che può interessare il caso in questione: ormai numerosi studi dimostrano che gli stereotipi sui ruoli e l’espressione di genere, così come la percezione individuale del proprio genere, tendono a innervare e fissarsi nella psiche umana già in età prepuberale, potendo manifestarsi in modo marcato e variegato a partire dai 3-5 anni. Dunque, ben prima della maturazione puberale e indipendentemente dallo sviluppo della sessualità.
In definitiva, nell’odierno casus belli sui bloccanti puberali non si tratta della mancanza di valutazione scientifica in sé, bensì della rivendicazione di uno spazio di indagine scientifica da parte di una specifica prospettiva psicanalitica, la quale proprio negli ultimi tempi sta affrontando un riesame critico dei fondamenti.
La questione della “sperimentazione”
Rimane pur vero che non è stato ancora compreso a fondo come si sviluppi l’identità di genere. Pertanto, è cruciale proseguire gli studi e le ricerche, incluse quelle psicanalitiche. A tale proposito, però, è importante sottolineare un punto: a oggi la psicoanalisi non è in grado di offrire nessuna panacea per la salute delle persone transgender, né tanto meno di eliminare alla radice il disagio psicologico della disforia di genere. Di conseguenza, rigettare a piè pari i bloccanti puberali e accogliere l’approccio suggerito dalla SPI significherebbe, di fatto, “tornare a sperimentare” in altro modo, ignorando un gran numero di risultati e di evidenze già confermate – soprattutto quelle sulle sofferenze e le morti sproporzionate delle persone transgender. Certo, l’idea di dare farmaci a minorenni evoca molto di più l’immagine di uno scienziato di fronte alle cavie di laboratorio, che non l’idea di intraprendere un percorso di psicoanalisi. È utile però ricordare che buona parte delle conoscenze attuali sull’identità di genere, sulla sua complessa relazione con il corpo, la sessualità e la società, così come i risultati scientifici sull’efficacia di approcci farmacologici e chirurgici per trattare la disforia di genere, sono state ottenute grazie all’analisi e l’elaborazione di più di un secolo di altri trattamenti fallimentari: dalle “terapie di conversione”, più o meno brutali, agli approcci psicanalitici inadeguati.
Per evitare equivoci in un ambiente già surriscaldato: non si tratta di fare ora la guerra agli psicanalisti. La psicoanalisi in sé rimane, senza dubbio, una risorsa nel panorama delle cure della salute mentale, anche per le persone transgender, o per chi anche solo si interroghi sulla propria identità. Raccogliendo le parole dello psichiatra Manlio Converti, presidente di AMIGAY aps, che si occupa da anni di diritti sanitari, «sarebbe stato bellissimo leggere invece una loro lettera sulla Psicanalisi Affermativa delle persone LGBTI». Con la precisazione che, in questo caso, “affermativa” non vuol dire indirizzamento coatto, o automatico, a una transizione di genere, bensì riconoscimento della varietà delle esperienze identitarie delle persone e presa in carico della complessità che questa comporta.
Minorenni che s’interrogano e non intraprendono la transizione di genere
Nell’ottica di un confronto per superare le criticità, è utile guardare anche ad altri aspetti sollevati dal comunicato della SPI. La seconda controindicazione cita: «solo una parte minoritaria dei ragazzi che dichiarano di non identificarsi con il loro sesso conferma questa posizione nell’adolescenza, dopo la pubertà». Questa affermazione può essere vera, nella misura in cui ci si riferisce al complesso di dichiarazioni prima, o al di fuori, del confronto approfondito con la propria identità nel contesto di valutazione medico-clinica. Ma se si vuole intendere che in questi casi la maggior parte delle prescrizioni di bloccanti puberali si basa su diagnosi sbagliate di disforia di genere – insinuazione sbandierata da molti giornali – allora è semplicemente falsa. Le statistiche più recenti confermano che il 97-98% di chi riceve questo trattamento a causa della disforia, decide di intraprendere poi altri trattamenti affermativi di genere, a riprova che la stragrande maggioranza delle diagnosi svolte all’inizio della pubertà sono corrette.
Il fatto che esista un 2-3% che, invece, non prende questa decisione non è di per sé un indicatore dell’inadeguatezza del trattamento, e non solo per la residualità della percentuale. La possibilità di avere più tempo per sviluppare le proprie capacità emotive e cognitive e di confrontarsi a fondo con la propria identità è stato fin dall’inizio uno dei punti di forza di questo approccio medico, il quale non è pensato per indirizzare le persone in una direzione o nell’altra. A questo proposito, le nuove linee guida cliniche della WPATH (SOC8), basate sui migliori studi scientifici disponibili e l’expertise professionale, mettono in evidenza che vi sono adolescenti che interrompono questi trattamenti, ma comunque non si pentono di averli iniziati, in quanto li hanno vissuti come parte del loro processo di comprensione.
A ciò, si aggiunge il fatto che le identità trans e gender diverse (cioè, che non si riconoscono nel sesso assegnato alla nascita) presentano uno spettro di variazioni molto esteso, il quale non si riduce ai canoni binari maschio-femmina. Allo stesso modo, anche la disforia di genere non è uguale per tutte le persone e può prescindere dal disagio psicologico per determinati caratteri fisici del proprio corpo, non necessitando dunque ulteriori interventi medici o chirurgici.
In conclusione
Al netto dei singoli casi di malasanità e degli errori professionali, il ricorso ai bloccanti puberali dimostra ancora di essere uno degli approcci più sicuri ed efficaci per trattare la disforia di genere nella prima pubertà e durante l’adolescenza, a fronte di una «valutazione biopsicosociale completa» mirata sul caso e condotta da un gruppo di controllo multidisciplinare.
A conti fatti, se proprio venisse voglia di scrivere al governo, varrebbe la pena chiedere, piuttosto, un’implementazione dei programmi di formazione medica, infermieristica e psicologica sulla salute di genere e LGBTIQ.