L'uccisione dell'orsa marsicana Amarena ha scatenato una forte reazione emotiva e un'infodemia piena di contraddizioni. Al di là del gravissimo atto di bracconaggio in sé, è necessario lavorare in modo coordinato per la tutela di questa piccola popolazione, e cambiare i comportamenti di tutti per coesistere con gli orsi appenninici e salvarli dall'estinzione.
L'orsa Amarena con i cuccioli - Foto di Francesco Lemma
Il 2023 sarà ricordato come un anno nero per gli orsi in Italia, finiti sulle prime pagine di giornale e al centro di dibattiti infuocati dentro e fuori i social, e mai per buone notizie. L’ultima, è un grave atto di bracconaggio: il 31 agosto è stata infatti uccisa a fucilate F17, l’orsa Amarena, popolare per via delle sue frequenti apparizioni pubbliche nei paesi dentro e fuori il Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise (PNALM). Amarena è stata uccisa in una zona periferica del paese di San Benedetto dei Marsi, fuori dal Parco, mentre stava predando galline insieme ai suoi due cuccioli.
L’uccisione di Amarena ha scatenato una fortissima reazione emotiva, cui sta facendo seguito un acceso dibattito e una infodemia piena di contraddizioni, cacce agli untori e fantomatiche soluzioni che nulla hanno a che fare con le conoscenze scientifiche sull’ecologia della specie. Facciamo dunque un po’ di chiarezza per cercare di orientarci nel mare di informazioni che in queste ore stanno riempiendo la rete.
Orsi e paesi, un binomio da evitare
Amarena deve il suo soprannome all’abitudine di arrampicarsi sugli alberi in cerca di ciliegie e amarene. Che un orso sia attratto dalla frutta non è un mistero né una stranezza, ma il fatto è che Amarena andava in cerca di frutta nei paesi in pieno giorno, e questo invece è singolare. Le prime incursioni si sono verificate nel luglio del 2016 nei borghi di Bisegna e San Sebastiano, nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise (PNALM) quando l’orsa aveva circa due anni. Gli orsi che frequentano aree antropizzate esistono in tutte le popolazioni e occorre precisare che, di per sé, il fatto che occupino zone vicine ai paesi non significa che si trovino a loro agio con le persone; anzi, in molti casi questi animali si spostano nelle ore notturne per ridurre le occasioni di incontro e non necessariamente entrano all’interno dell’abitato. Secondo uno studio del 2014, giocano un ruolo importante sesso, età e fattori sociali: sono individui giovani, spesso femmine, che si stabiliscono in questi posti, perché la presenza di persone funziona un po’ come uno scudo protettivo dai conspecifici più grossi e dominanti, che preferiscono zone dove noi non ci siamo.
Diverso però è se un orso inizia a cercare attivamente da mangiare all’interno di paesi o case, associando la presenza umana al nutrimento. Si parla in questi casi di “orso condizionato al cibo antropico”. «In generale sono le nostre stesse azioni a generare quelli che poi definiamo come comportamenti problematici», spiega Vincenzo Penteriani, ricercatore presso il Consiglio Superiore Spagnolo per la ricerca scientifica, membro del gruppo di ricerca sull’orso cantabrico e del gruppo specialistico sull’orso della IUCN. «Gli orsi sono animali molto intelligenti e adattabili, quindi in grado di approfittare di qualsiasi fonte di cibo facile. Quello che spinge gli orsi nelle vicinanze degli umani e delle loro attività e infrastrutture è il cibo che, involontariamente nella maggior parte dei casi, lasciamo loro disponibile. Se, per fare un esempio, nelle vicinanze di un centro abitato o al suo interno vi sono frutta, cibo per animali o piccoli animali (come il pollame) mal custoditi, evidentemente questo incita gli individui più “audaci” a uscire dal bosco per approfittare di una situazione favorevole. Siamo quindi noi all'origine del problema». Quindi è fondamentale, in aree di presenza dell’orso, o in aree limitrofe, visto che è più che auspicabile una espansione della popolazione, mettere in sicurezza tutte le potenziali fonti di cibo per evitare che gli orsi vengano attirati.
Uno dei falsi miti è che il problema stia nel fatto che gli orsi in natura non trovino di che nutrirsi e che si trovino dunque costretti a sfruttare fonti di cibo antropiche per poter mettere qualcosa sotto i denti. «La presenza di cibo facile e disponibile è la prima cosa che dobbiamo evitare se vogliamo ridurre il numero di incursioni degli orsi in zone abitate. E questo non ha niente a che vedere con le disponibilità di cibo naturale, che sono comunque soggette a oscillazioni periodiche, ragion per cui parlare di scarsità di cibo per un orso non ha nessun senso. Sarebbe come affermare che tutte le faggete dell'Appennino non sono mai produttive. In definitiva, allestire punti di foraggiamento per gli orsi è una pratica inutile e molto costosa in termini di soldi, personale e attrezzature, che sarebbe meglio impiegare laddove questi realmente siano necessari alla protezione dell'orso», spiega Penteriani.
Dal cibo alla confidenza
Amarena è diventata in brevissimo tempo una attrazione, con folle di persone che volevano vederla o fotografarla, malgrado appelli dei biologi del parco e ordinanze che invitavano a non farlo. Situazione che è andata peggiorando nel tempo, e culminata nel 2019, quando l’orsa si è presentata nei paesi con ben quattro cuccioli al seguito, una cucciolata da record che ha definitivamente consacrato Amarena a diva dei social e dei media, suo malgrado. Ovviamente un orso non si mette a frequentare i paesi grandi o piccoli che siano per farsi immortalare per il suo profilo social o perché ambisce alla notorietà ma perché attirato da cibo facile (se non messo in sicurezza) ed energetico. Amarena era un'orsa “confidente”, ovvero un animale che aveva perso la naturale diffidenza verso gli umani perché andata incontro a un processo noto come abituazione: quando uno stimolo diventa molto frequente, finisce per essere ignorato. Per capirci: se ci trasferiamo in una casa vicino a una ferrovia, i primi tempi non riusciremo a chiudere occhio per il rumore e le vibrazioni, ma col tempo non ci faremo più caso. Quindi nel caso di questi orsi si mescolano vari fattori: un comportamento più intraprendente alla base (ogni individuo ha la sua personalità), l’attrattiva del cibo, la presenza di persone intorno che si avvicinano, magari per guardare sorpresi l’animale da vicino o fare foto e video. «Per un orso, ad aumentare la frequenza di contatti “neutri” (non succede niente) o positivi (c'è tanto da mangiare) con le persone, aumentano le probabilità che apprenda che in fondo questi umani non sono poi così terribili e si può anche frequentarli senza troppi rischi. È probabile che questo già stia succedendo, perché gli orsi abruzzesi si stanno dimostrando sempre più visibili a ore con luce che alcuni decenni fa, ci sono sempre più incursioni e in zone sempre più popolate. Non ricordo di casi così relativamente frequenti di orsi che passeggiano per le strade di un paese negli anni '80. Umani e orsi devono vivere separati e, eventualmente, incontrarsi casualmente e di rado in ambiente naturale. Stravolgere queste condizioni invitando gli orsi a venire a mangiare nei paesi, che è quello che stiamo facendo, non è una storia a lieto fine. Lo ha appena dimostrato Amarena», commenta Penteriani.
Amarena non è l’unico caso di orsi confidenti in Appennino. Tra gli altri casi verificatisi vi è anche quello di uno dei suoi figli: M20 o Juan Carrito, morto in un incidente stradale sulla Statale 17 all’inizio dell’anno e diventato famoso per la sua frequentazione di centri abitati e visite ai cassonetti. Esiste un protocollo che detta le azioni da compiere per fare fronte a questo fenomeno, in linea con documenti analoghi europei, ma con l'importante differenza di tenere conto che la rimozione di un orso problematico deve essere l'ultima ratio, considerata l'esiguità della popolazione. L’azione principe è la prevenzione: la messa in sicurezza delle fonti di cibo elimina il problema alla radice, evitando l’insorgenza di situazioni potenzialmente conflittuali. Nel caso in cui però si manifesti un comportamento confidente o dannoso in centri abitati, si procede con la cattura dell’animale, per applicare un radiocollare che consenta di monitorare gli spostamenti. Altra azione è la cosiddetta dissuasione: si interviene con squadre che individuano l’animale nel paese, e che cercano di metterlo in fuga con petardi, proiettili di gomma (dolorosi ma che non feriscono l’animale) e soprattutto con un atteggiamento di dominanza che cerchi di comunicargli che non è affatto una buona idea stare vicino alle persone. La dissuasione è una tecnica impiegata in diversi contesti nel mondo, ma è chiaro che la sua efficacia dipende da tantissimi fattori: tra questi l’età dell’animale (meglio se giovane) e il tempo trascorso dall’insorgenza del comportamento problematico, oltre alla presenza degli attrattivi e il comportamento di altre persone. Gli orsi imparano in fretta, e se l’unica ostilità arriva dalla squadra di intervento finiscono per allertarsi solo alla sua presenza, persino solo sentendo il bip della radio che serve per individuare il collare che portano al collo. Il PNALM e il confinante Parco Nazionale della Maiella, hanno agito sempre con un monitoraggio di questi animali, con la sorveglianza a opera di guardiaparco e carabinieri forestali. Il PNALM pubblica ogni anno il Rapporto orso, in cui sono raccolti anche i risultati del monitoraggio degli orsi confidenti, che sono liberamente scaricabili dal sito.
Nel caso di Amarena, fu catturata nel 2016, e fu assicurata una presenza costante di una squadra di dissuasione nei due paesi che all’epoca frequentava. A luglio del 2017 però, un’ordinanza sindacale ha impedito all’Ente Parco e ai carabinieri forestali di mettere in atto la dissuasione nel comune di Bisegna e nella frazione di San Sebastiano. Come si legge sul sito del PNALM «Questo ha di fatto reso vana tutta l’attività svolta nel 2016 e ha fatto sì che, nel 2017, il comportamento dell’orsa Amarena sia peggiorato: da giugno a oggi non ha mai smesso di frequentare i centri abitati». Nel 2017 l’orsa ha ampliato l’area da lei frequentata e ha iniziato a predare anche animali da cortile e ovini in strutture interne ai centri abitati.
Il futuro dell’orso è l’espansione
Amarena era una femmina di orso bruno marsicano, sottospecie endemica dell’Appennino centrale che sopravvive con una piccola e isolata popolazione, differente per morfologia, genetica e comportamento dagli altri orsi bruni europei. Secondo le ultime stime, ottenute nel 2014 con un campionamento genetico standardizzato, si contano tra i 45 e i 69 esemplari. Se già questo numero pare esiguo occorre considerare che è ancora minore il numero effettivo di individui che contribuiscono alla riproduzione, quindi alla crescita e alla differenziazione genetica nel corso delle generazioni: «Una popolazione isolata e di piccole dimensioni come quella abruzzese ha una popolazione effettiva di quindici individui nel migliore dei casi», spiega Paolo Ciucci, docente di biologia e conservazione della fauna del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie de La Sapienza Università di Roma, che da lungo tempo studia gli orsi marsicani. Secondo una ricerca pubblicata nel 2017, di cui Ciucci è coautore, l’isolamento della popolazione appenninica risale a più di 1.500 anni fa: «Un tempo di isolamento genetico così lungo comporta una drammatica perdita di variabilità genetica e l’accumulo di mutazioni deleterie, quindi una maggiore suscettibilità alle malattie, minore resistenza alle variazioni climatiche, perdita di capacità di adattamento a condizioni ambientali mutevoli». La notizia positiva è che, per fortuna, «Il genoma degli orsi marsicani, pur impoverito, ha mantenuto un’elevata variabilità nei tratti che codificano per la risposta immunitaria».
Insomma uno scenario decisamente poco roseo, che fa comprendere la necessità di impegnarsi in maniera prioritaria per la conservazione di questa sottospecie unica al mondo, e che tinge di toni ancora più cupi la perdita di una femmina prolifica e nel pieno dell’età riproduttiva come Amarena. Un impegno che deve avvenire a una scala decisamente più ampia di quella del PNALM, dove si concentra la maggiore densità di popolazione. Spiega Paolo Ciucci: «Per contrastare la perdita di variabilità genetica è necessario facilitare il più presto possibile un allargamento di areale, questo aumenterebbe la popolazione di orsi e quindi la popolazione effettiva, incrementando le probabilità di sopravvivenza nei prossimi 50-100 anni e più». Le densità e le numerosità delle specie sono condizionate dalla disponibilità delle risorse che ne garantiscono la sopravvivenza, quella che si chiama capacità portante di un ambiente. Quindi in un’area le popolazioni non possono crescere ab libitum, perché, superata la capacità portante, finiscono per scarseggiare le risorse. Ecco perché il futuro dell’orso marsicano è nell’espansione della popolazione. «Secondo i nostri modelli, tra i Sibillini e il Matese ci sono aree idonee a ospitare oltre 250 orsi. Quindi “basterebbe” favorire l’espansione, ma è più facile a dirsi che a farsi» afferma Ciucci. Da un lato le difficoltà stanno nella biologia dell’orso: le femmine tendono a restare nella zona in cui sono nate, un comportamento definito filopatria e quindi la loro espansione è molto lenta. I maschi fanno spostamenti anche molto ampi, e per esempio sui Sibillini alcuni individui ci sono già stati, ma poi, se vogliono riprodursi, devono tornare a cercare le femmine. E poi c’è il problema di creare le condizioni perché gli orsi possano espandersi: diminuendo le barriere (e mitigando quindi l’effetto di strade e autostrade), mettendo in sicurezza le fonti di cibo antropiche per evitare che vengano attirati, e lavorando sull’accettazione sociale, uno dei fattori che più condiziona la presenza di questi animali.
Trappole ecologiche
«Il posto dove Amarena è stata uccisa è antropizzato, ma è una zona industriale quindi c'era l'abitazione, ma era comunque distante dal pollaio. Amarena ha attraversato un luogo inospitale non perché fosse confidente, ma perché si è messa a frequentare una zona che è definibile come trappola ecologica: ci sono risorse di cibo antropico accessibili che li attirano, ma c’è un problema culturale molto forte per l’accettazione» racconta Roberta Latini, responsabile dell’Ufficio studi e ricerche faunistiche del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Le trappole ecologiche sono appunto luoghi in cui gli animali sono attirati per l’abbondanza di risorse, ma con un elevato rischio di mortalità accidentale o bracconaggio. Questo problema era già emerso dai primi modelli sviluppati da La Sapienza, ed è confermato da un recente studio che combina i dati ambientali a quelli sociologici, individuando la zona del Fucino, una zona molto antropizzata e destinata all’agricoltura intensiva, come tra quelle a più alto potenziale di conflitto tra umani e orsi.
Esempio di pollaio non protetto
Amarena non è la prima orsa che va a caccia di galline e conigli nei pollai della zona. A partire dal tardo autunno 2016, un giovane maschio, poi ribattezzato Mario, aveva sviluppato l’abitudine di procacciarsi il cibo nei pollai, frequentando un territorio che includeva ben 10 comuni. Il monitoraggio dei suoi spostamenti permise di evidenziare una realtà territoriale molto compromessa, fatta di abbandono di resti alimentari, di pollai, aziende e magazzini non protetti. In tutto il periodo di monitoraggio, l’orso, che non era confidente ma condizionato al cibo, si è alimentato quasi esclusivamente di cibo antropico. Per contrastare il problema vennero progettati e distribuiti gratuitamente pollai a prova d’orso. Le tracce di Mario si perdono nel giugno del 2019, con un’ultima visita a un pollaio. Nella stessa zona e negli stessi giorni, un cane morì avvelenato. Le ricerche con le unità cinofile antiveleno non hanno dato esito, ma di fatto Mario da presenza abituale è scomparso nel nulla, non più danni, non più tracce genetiche, il che rende l’idea di un lieto fine altamente improbabile.
Dove stanno le responsabilità
«Il Parco è un importante protagonista per la conservazione dell’orso, ma non può essere l’unico, in un'ottica in cui è necessario che la popolazione si espanda», afferma Paolo Ciucci. Il PNALM ha un'estensione di circa cinquantamila ettari, ed è l’unico in Italia ad avere anche una Zona di Protezione Esterna, contigua al Parco e ampia oltre ottantamila ettari, in cui sussistono alcune misure di conservazione a cura dell’Ente. «Da un punto di vista amministrativo, al di là dei confini, il Parco non ha alcuna competenza e quindi non ha alcun potere di adottare provvedimenti finalizzati alla tutela dell’orso e/o di altri specie animali», spiega Luciano Sammarone, direttore del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. «In questo quadro fa eccezione l’attività venatoria, che viene regolamentata d’intesa fra il Parco e le Regioni, con una riduzione del numero di cacciatori per ettaro. Tuttavia, pur in assenza di un quadro normativo adeguato, il Parco all’esterno dei propri confini provvede a diverse attività in favore della tutela di specie particolarmente protette, orso marsicano in primis, a partire dall’indennizzo dei danni arrecati alle attività agricole, zootecniche, che dal 2020 vengono rilevati e pagati dal Parco anche in Comuni molto lontani dall’area contigua. Oltre ai danni il Parco si è sempre fatto carico di assicurare attività finalizzate alla tutela dell’orso marsicano attraverso azioni di monitoraggio e raccolta dati che negli ultimi anni sono state codificate nella Rete di Monitoraggio Abruzzo e Molise che opera in stretta correlazione con quella del Lazio». Tra queste misure, va menzionato che, anche nella zona in cui Amarena stava predando animali da cortile, i danni venivano indennizzati dal PNALM, che aveva anche predisposto turni notturni dei guardiaparco per sorvegliare la zona e intervenire al bisogno.
Le criticità e le azioni di conservazione per affrontarle sull’intero Appennino centrale sono codificate da un documento approvato e pubblicato nel 2011, il Piano d’Azione Nazionale per la tutela dell’orso bruno marsicano, o PATOM. « I grandi carnivori mettono a dura prova la civiltà e il funzionamento di una società, perché c'è bisogno di responsabilità, ruoli compenetrati a diverse scale amministrative locali», afferma Ciucci. Ma il problema, spiega, è che quasi tutte le azioni individuate dal PATOM sono rimaste solo su carta. «Il PATOM è stato condiviso da tutti: gli assessori regionali, il Ministero, i direttori delle aree protette, i tecnici… insomma c'è stata una condivisione collettiva e se vogliamo che l'orso sia effettivamente una specie protetta, rappresenta una priorità e pensiamo che l'espansione dell'areale sia prioritaria, c'è bisogno di un'attenzione a un livello superiore». I primi lavori per il PATOM sono iniziati negli anni 2000. A distanza di vent’anni i problemi restano lì. «Tutti ci distraiamo sul singolo episodio, oggi Juan Carrito domani Amarena, ma il problema è che è una pagliuzza, ma c'è una trave molto più grossa: questo Paese non ha strategie, non ha coordinamento su larga scala, per cui gli enti locali sono lasciati a se stessi». La ricerca scientifica è fondamentale perché crea conoscenza, e fornisce strumenti solidi su cui basare le scelte gestionali, ma è chiaro che diventa un esercizio sterile se chi si occupa poi della gestione del territorio non la utilizza. Così, se i modelli di idoneità ambientale hanno individuato delle criticità in alcune aree, c’è bisogno di un lavoro di dialogo con gli abitanti, per comprendere le cause delle ostilità e capire come aumentare l’accettazione, e mettere in piedi un capillare lavoro di prevenzione che renda questi luoghi meno attrattivi per l’orso.
Un segnale incoraggiante arriva però da alcune realtà createsi dal basso: è il caso dell’associazione Salviamo l’Orso ,nata dieci anni fa e cresciuta costantemente nel tempo, che lavora in modo sinergico con Rewilding Apennines. Le due associazioni si avvalgono di una rete internazionale di volontari che li aiutano nelle loro attività. Dal 2014 hanno installato oltre 400 misure di prevenzione, tra recinti elettrificati, porte, cancelli e pollai a prova d’orso, sia dentro le aree protette ma soprattutto fuori. «L’uccisione con arma da fuoco di un orso a Pettorano sul Gizio a settembre 2014 è stata un momento di svolta e riflessione da parte delle nostre organizzazioni, perché un episodio così grave di bracconaggio nel cuore di una comunità non poteva essere accettato né tollerato» racconta Angela Tavone, segretaria generale di Salviamo l’orso e responsabile della comunicazione di Rewilding Apennines. Le associazioni, con la Riserva Naturale Monte Genzana Alto Gizio, l’Amministrazione comunale e singoli cittadini hanno iniziato a lavorare su due fronti paralleli: da un lato mettere in sicurezza piccoli allevamenti e apiari con gli strumenti di prevenzione per arginare i danni e disincentivare potenziali ulteriori fenomeni di ritorsione da parte dei residenti; dall’altro un lavoro di dialogo con le persone e di divulgazione sull’orso e sul perché fosse una buona notizia il fatto che fosse tornato in quelle zone. Il tutto è stato portato avanti con alcuni piccoli finanziamenti e molto lavoro di volontariato. «La consapevolezza che Pettorano sul Gizio fosse diventata una vera e propria Comunità a Misura d’Orso è arrivata dopo 4 anni dall’inizio delle attività, quando i danni si sono azzerati, quando le persone hanno iniziato a parlare di orso con orgoglio, quando le piccole attività commerciali hanno visto l’orso come un’opportunità economica, quando sempre più volontari hanno deciso di partecipare attivamente alle azioni di conservazione dell’orso e sempre più turisti hanno scelto questo paese come destinazione delle proprie vacanze anche per la presenza dell’orso. Uno dei riscontri più importanti ottenuti dopo anni di lavoro in questa direzione è stato vedere come la gente è passata da un atteggiamento totalmente assistenzialista rispetto alle misure di prevenzione a un impegno proattivo, occupandosi personalmente della manutenzione dei recinti elettrificati».
Dallo scorso anno le due associazioni, insieme alle aree protette abruzzesi, lavorano a un progetto europeo, LIFE BearSmart Corridors, il cui intento è quello di creare comunità a misura d’orso in altri 16 comuni, per favorire l’espansione della specie. Il dialogo resta una delle azioni fondamentali, che ha già premiato anche in altre occasioni. Nel 2001 un’orsa, Gemma, iniziò a frequentare Scanno, comune che si trova nella Zona di Protezione Esterna del Parco. Oggi l’orsa è considerata una presenza abituale e tollerata, ma non fu così all’epoca. Venne portato avanti un intenso lavoro di mediazione con gli abitanti della zona. «Abbiamo lavorato quasi tre anni e abbiamo scoperto che la maggior parte delle persone si voleva sentire coinvolta dal Parco, si sentivano per così dire un po’ ai “confini del Regno”», spiega Daniela D’Amico, responsabile dell’ufficio comunicazione e promozione del PNALM. «Lamentarsi per Gemma era la scusa per avere l’attenzione che mancava, quindi in realtà non ce l'avevano espressamente con l'orso, che in qualche modo era sia gioia che dolore. Ovviamente questo non vale per tutti quanti, ma valeva per i tre quarti della popolazione. Oggi la situazione è completamente cambiata, anche se un quarto della popolazione di Scanno è rimasta contraria nel tempo, ma oggettivamente non si convincerà mai il 100% delle persone».
La coesistenza per la conservazione dell’orso è responsabilità di tutti
Insomma, non tutto è perduto, ma serve un lavoro sinergico delle istituzioni e dei cittadini per aiutare davvero l’orso a non estinguersi e diventare solo parte della nostra memoria. Serve una presa in carico da parte di Regioni e Stato del problema, per l’attuazione di misure che permettano agli orsi di spostarsi al di fuori delle aree protette. Serve però anche una presa di coscienza generale: che la conservazione dell’orso dipende davvero da tutti noi, sia di chi abita in quelle terre e in quelle in cui si auspica il suo ritorno, sia di chi frequenta quelle zone. Possiamo davvero fare la differenza, perché il reale problema non è il singolo atto di bracconaggio, per il quale la giustizia farà il suo corso, ma quello di rendere i territori ospitali per l’orso. E paradossalmente, ospitale vuol dire che gli orsi non li ospita dappertutto, in questo caso. «La rinuncia fa parte della coesistenza, dire che l’orso è bello, che ci piace non è sinonimo di fare qualcosa per coesistere. Lo è rendere poco attrattive le zone antropizzate, perché non si sviluppino comportamenti problematici, rinunciare ad alcune attività ricreative per evitare di arrecare disturbo», afferma Roberta Latini. Anche rispettare i consigli degli esperti che ci chiedono di non avvicinarci agli orsi è di fondamentale importanza, come abbiamo visto, per evitare situazioni critiche e l’abituazione.
La ricerca sul genoma dell’orso marsicano ebbe un risvolto inaspettato: come spiega Ciucci «c'è una perdita totale di variabilità in quelle regioni dei cromosomi che mediamente nei mammiferi codificano per comportamenti aggressivi. Lo stesso profilo genetico in queste regioni cromosomiche si trova negli animali domestici, per esempio il cane. Il processo di domesticazione ha infatti reso più tolleranti e meno reattivi questi animali. Ma attenzione: questo non vuol dire assolutamente che l’orso marsicano sia un animale domestico!». La mansuetudine degli orsi marsicani viene spesso enfatizzata da una comunicazione scorretta, che elogia e ridicolizza comportamenti aberranti e lo riduce a una specie di grosso e pacioccone peluche vivente. Il che spinge a perdere una sana nostra quota di paura e diffidenza verso ciò che è selvatico e che deve appartenere al mondo selvatico.
La storia dell’orso marsicano è costellata di tragedie e di problemi, ma è anche una storia di una comunità locale che ha voluto vivere con gli orsi, protetti da cento anni, quando altrove erano considerati nocivi e sono stati eradicati. Oggi ci sono molte persone che hanno a cuore il suo futuro e che, per lavoro o per passione, dedicano il loro tempo alla sua tutela. Dobbiamo davvero imparare a metterci il nostro piccolo ma importante contributo, anche quando ci risulta scomodo, perché gli orsi continuino a vivere tra le montagne nel cuore della nostra penisola, oggi e in futuro.