Nella foto: Simon Stiell, Executive Secretary di UNFCCC (UNclimatechange, CC BY-NC-SA 2.0 DEED)
Keep 1.5 within reach, “tenere gli 1,5 gradi a portata di mano”. Questo lo slogan con cui si è aperta la COP28, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si è appena conclusa a Dubai. La fattibilità di questo obiettivo, però, oggi pare incerta più che mai, anche se molti consideravano questo proposito troppo ambizioso fin dalla prima proposta. Già nell’ambito della COP dell’anno scorso erano sorti dubbi sulla possibilità di stare sotto 1,5 gradi. Col passare del tempo un numero sempre più folto di scienziati sostiene che superare gli 1,5 gradi stia diventando inevitabile e lo dichiarava nel 2022 lo stesso IPCC.
Non si tratta più di rimanere sotto una certa temperatura, quanto di riuscire ad annullare una parte del riscaldamento: entra in gioco l’overshoot climatico, la differenza fra il picco di temperature che raggiungeremo e il punto più basso verso cui riusciremo a tornare. Johan Rockström, presidente di The Earth League e direttore del Potsdam Institute of Climate Impact Research, lo ha spiegato nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta alla COP28. “Nel migliore dei casi, in tre o quattro decenni avremo un riscaldamento di 1,8 gradi prima di tornare a 1,5 alla fine di questo secolo” ha detto. “E per tornare a 1,5 alla fine del secolo bisogna fare tutto nel modo giusto. Eliminare gradualmente i combustibili fossili, trasformare il sistema alimentare a livello globale, mantenere tutti i pozzi e i depositi di carbonio, sulla terra e negli oceani, e implementare la rimozione dell’anidride carbonica”.
Negli scenari previsti per mantenere l’aumento delle temperature globali sotto 1,5 gradi si prevede una forte riduzione nell’uso dei combustibili fossili. Entro il 2050 bisognerebbe ridurre il consumo di carbone del 95%, di petrolio del 60% e di gas del 45%, ma questi obiettivi sono in contrasto con le politiche realmente messe in atto. Come mostra l’ultimo Global Carbon Budget, il sistema energetico globale è tuttora fortemente dipendente dai combustibili fossili, e le rinnovabili, nonostante i passi avanti, non hanno ancora un ruolo sufficiente.
I tempi sono stretti. Che non ci sia tempo da perdere lo ha ricordato spesso Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. Ad aprile ha definito il clima “una bomba a orologeria pronta a esplodere” e lo hanno ricordato nello stesso periodo gli attivisti di Extinction Rebellion che a Trieste, in Piazza Unità d'Italia, hanno disegnato sul pavimento un conto alla rovescia. Tra meno di sette anni, dicevano, le temperature globali saranno aumentate di oltre 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Da quel momento non sarà più possibile tornare indietro. Numeri come questi sono fondamentali per segnare il passo della crisi climatica, per darci tempistiche su ciò che ci attende e per dare il necessario senso di urgenza. Segnano anche obiettivi che i governi possono inseguire. Nei negoziati l’obiettivo è rimasto al centro del dibattito, tanto che il presidente della COP28 Al Jaber l’ha definito “la stella polare” che doveva guidare stati e aziende negli accordi. Fino ad ora, tuttavia, queste ambizioni non sono state accompagnate dalla riduzione necessaria delle emissioni, che all’attuale stato degli impegni porterebbe ad un aumento di 2,5 gradi.
In realtà, i tempi per restare sotto un aumento di 1,5 gradi rispetto alle temperature preindustriali sono sempre stati stretti. Questo obiettivo ha fatto la sua prima comparsa nel 2009 all’interno di accordi diplomatici e secondo Mike Hulme, geografo umano dell’Università di Cambridge ed uno dei massimi esperti sugli studi sociali sull’IPCC, gli 1,5 gradi furono proposti per motivazioni politiche: “Non fu una scoperta scientifica. Nessuno ha scoperto che gli 1,5 gradi erano la soglia sotto cui stare. Fu il risultato della mobilitazione di una varietà di interessi e argomenti politici.”
Nel corso della preparazione della COP15 nel 2009, si stava già prendendo in considerazione l’obiettivo dei 2 gradi, come hanno descritto le ricercatrici Béatrice Cointe e Hélène Guillemot in uno studio uscito a gennaio 2023 per WIREs Climate Change. Ma nel corso della conferenza a Copenaghen levarono la voce le Least Developed Countries e l’organizzazione intergovernativa AOSIS, l’Alleanza dei piccoli Stati insulari – nata proprio per dare voce agli interessi di paesi vulnerabili ai cambiamenti climatici. Sostennero che raggiungere i 2 gradi era troppo rischioso. Paesi come quelli insulari corrono rischi più gravi a fronte di un maggiore aumento delle temperature.
Un documento riassuntivo, rilasciato nel giugno 2015 dopo due anni di dialoghi fra esperti, invitava le parti ad agire in via precauzionale, dal momento che la scienza non era ancora chiara sulle reali differenze fra i due obiettivi. Al tempo stesso, però, nel documento si notava che la riduzione delle emissioni non stava procedendo secondo i piani: i paesi erano in ritardo e bisognava agire in fretta. Il 2015 fu anche l’anno della COP21 e degli Accordi di Parigi, che – dopo intensi negoziati adottarono l’obiettivo degli 1,5 gradi. “1,5 o 2 gradi sono metriche precise, ma l’idea degli Accordi di Parigi è di stare ‘il più possibile vicino’: sono stati scelti anche per il loro valore simbolico. Quindi, è importante tenerli come obiettivo ed essere consapevoli che la crisi climatica non è un interruttore acceso-spento, successo-fallimento”, ci ha detto a ottobre Ferdinando Cotugno, giornalista esperto di ambiente e crisi climatica.
Subito dopo Parigi, l’obiettivo fu accolto con sorpresa e scetticismo da una parte della comunità scientifica, che considerava il target come irrealistico, soprattutto perché ad esso non corrispondeva un impegno in linea sulla riduzione delle emissioni. I politici che in prima linea spinsero per il target, invece, lo videro come un successo poiché permetteva ai paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici di tirare un respiro di sollievo.
L’esitazione e le controversie non cessarono quando dalla stessa COP21 emerse la richiesta di produrre un report per indagare la differenza degli impatti e dei percorsi fra gli 1,5 gradi e i 2. La comunità scientifica temeva che ciò rappresentasse un’invasione di campo della politica sulla scienza ed un uso strumentale dell’IPCC per sostenere obiettivi politici. Queste tensioni mostrano come l’obiettivo, suggerisce Hulme, sia un esempio di “policy-based evidence”, che è il contrario del più noto “evidence-based policy”. “Le prove scientifiche e le norme politiche si danno forma a vicenda e non esistono prove scientifiche allo stato puro, così come forse non esiste alcuna norma politica allo stato puro”.
Nel 2018 infine arrivarono le evidenze: uscì il report speciale dell’IPCC sugli impatti degli 1,5 gradi. Ebbe un’eco mediatica senza precedenti, con una copertura inedita per il lavoro del gruppo. Cambiò anche la percezione degli scienziati. Gli scienziati iniziarono a considerare legittima e scientificamente autorevole la ricerca sugli scenari degli 1,5 gradi, riportano Cointe and Guillemot. Oggi è ben noto che limitare il riscaldamento a 1,5 gradi ridurrebbe i rischi per il settore agroalimentare, per le barriere coralline, per l’innalzamento del livello dei mari e per la fusione dei ghiacci artici e antartici.
Dopo l’uscita del report del 2018, gli 1,5 gradi si sono cementati nell’immaginario come il tetto da non sfondare, lo strapiombo oltre cui non sporgersi. Lo slogan divenne “We have 12 years to limit climate change catastrophe” (adesso, secondo il Carbon clock, si è ridotto a 7 anni per il superamento). Gli scienziati hanno spesso messo in guardia da una interpretazione ristretta del target, che talvolta è considerato come una data di scadenza dopo la quale i rischi climatici diventano insostenibili. Jim Skea, allora co-chair del report speciale, lo spiegò bene nel 2019, quando disse che il report ‘‘non ha stabilito che abbiamo ancora dodici anni per salvare il mondo. Più il clima diventa caldo, peggio è, ma non c’è nessun punto di precipizio”.
Scienziati e politici non hanno mai cessato di dire che, se davvero vogliamo evitare di superare questa soglia, quello che stiamo facendo non è abbastanza e richiede una trasformazione radicale del sistema energetico globale.
Un recente articolo pubblicato su Nature Communications ha analizzato gli scenari valutati dall’IPCC compatibili con 1,5 gradi di temperatura o un lieve e temporaneo superamento della soglia. Fra il 2020 e il 2050 la fornitura di carbone, petrolio e gas dovrebbe calare in media del 95%, 62% e 42%. Stando agli Accordi di Parigi, nella seconda metà di questo secolo, per ogni molecola di CO2 emessa sarà necessario rimuoverne una dall’aria. E, dal momento che non ci è possibile rinunciare del tutto alle emissioni di gas climalteranti, si presuppone l’utilizzo di tecnologie che rimuovano il carbonio dall’atmosfera. Molti scenari però assumono una quantità di cattura e stoccaggio del carbonio e di tecnologie di rimozione superiore a ciò che potrebbe essere fattibile. Queste tecnologie negli ultimi anni sono state al centro di un acceso dibattito nella comunità scientifica. Una delle critiche più diffuse è che rimandino la mitigazione rapida e immediata di cui c’è bisogno, in nome di una promessa futura, e danno così spazio al largo consumo di combustibili fossili. Anche nello scenario migliore comunque “saranno necessari la cattura e lo stoccaggio del carbonio e la rimozione dell’anidride carbonica atmosferica per mitigare e compensare le restanti emissioni”, riporta la International Energy Agency. “Occorre realizzare progetti in grado di catturare circa 1,2 gigatonnellate di CO2 entro il 2030, contro le circa 0,3 gigatonnellate di CO2 ad oggi previste per il 2030”.
Le tecnologie esistono, funzionano e sono in corso di sviluppo. Ma la fattibilità su larga scala e l’accettabilità di un loro diffuso impiego non è certa: sarebbe un problema dipendere da esse, se poi rischiano di rivelarsi insufficienti o inefficaci. Senza la rimozione del carbonio, invece, la fornitura di combustibili fossili fra il 2020 e il 2050 le emissioni dovrebbe calare in maniera ancora più drastica: 99% per il carbone, 70% per il petrolio e 84% per il gas.
Quel che sta succedendo è che l’utilizzo dei combustibili fossili continua ad aumentare, anziché diminuire in linea con i percorsi studiati dall’IPCC, e sempre più scienziati mettono in discussione la possibilità di stare sotto gli 1,5 gradi. Invece nei negoziati rimangono ancora protagonisti delle discussioni e degli accordi siglati. “C’è un tacito accordo di continuare a parlare di questi target”, suggerisce Hulme. “Ma in realtà sappiamo che li supereremo".
Dacché l’uomo ha iniziato a misurare le temperature della Terra, giugno, luglio e agosto non sono mai stati così caldi come nel 2023. In questi tre mesi le temperature hanno superato di 1,2 gradi la media globale. Per un terzo dei giorni di quest'anno, la temperatura del pianeta superava le medie pre-industriali di oltre 1,5 gradi. E nuovi record ci attendono nel futuro. Tutto fa pensare che le temperature continueranno ad aumentare e a portarci sempre più lontano dal clima che conosciamo. Forse, nei prossimi cinque o dieci anni ve ne sarà almeno uno in cui la temperatura media globale supera di 1,5 gradi le temperature dell'era preindustriale. Se questo succede, “non dobbiamo disperare e cadere in uno stato di shock”, ha detto Jim Skea lo scorso luglio a Der Spiegel. Sarà un mondo più pericoloso, ma non sarà la fine ed è necessario continuare a percorrere le strade che ci portano ad affrontare la crisi climatica.
Per infrangere gli Accordi di Parigi non è sufficiente che la soglia di temperatura sia superata per un giorno o per una settimana: bisogna guardare le misurazioni sul lungo periodo. Tuttavia, ancora non c’è accordo su quale metrica sarebbe meglio usare per capire quando abbiamo superato gli 1,5 gradi, dato che la naturale variabilità del clima rende difficile capire con precisione quando la soglia è superata. “Superare il limite una volta non significa che il cambiamento sia definitivo. È possibile tornare sotto, l’IPCC lo dice chiaramente”, dice Ferdinando Cotugno. Per ora, alla luce delle attuali decisioni politiche e dei tassi di emissione registrati, restare sotto 1,5 sembra possibile ma non probabile.
Nonostante la crescente perdita di credibilità del target, anche alla COP28 gli 1,5 gradi sono stati al centro dei negoziati appena conclusi. In particolare, l’attenzione è sul First Global Stocktake, considerato un documento storico. Per la prima volta si dichiara che per limitare il riscaldamento globale bisogna abbandonare (transitioning away) i combustibili fossili. In parallelo, per rimanere sotto gli 1,5 gradi, servono altri sforzi: la triplicazione delle rinnovabili al 2030 e l’uso delle tecnologie di rimozione per i settori più difficili da decarbonizzare. Nei prossimi mesi sarà importante capire come questi impegni si tradurranno concretamente nei piani nazionali.
Una cosa è certa: la distanza fra le ambizioni politiche e la loro fattibilità sarà sempre più difficile da gestire per i governi, visto che il tempo è sempre più stretto. Come suggerisce la giornalista Emma Marris c’è la possibilità che gli 1,5 gradi: “cesseranno presto di essere un target e diventeranno un fatto storico”.
Se questo dovesse accadere, come una parte della comunità scientifica si aspetta, cosa accadrebbe ai negoziati? Quali conseguenze avrebbe l’abbandono di un obiettivo così cementato nell’immaginario collettivo? Quel che conta, a prescindere dalle oscillazioni delle temperature globali che ci attendono, è che i governi non perdano di vista l’obiettivo reale: lavorare per un mondo che sia il più abitabile possibile. Ha detto Ferdinando Cotugno: “Fra un decennio magari avremo di nuovo questa conversazione e sapremo di non essere riusciti a stare sotto 1,5. Ma allora diremo che possiamo ancora salvare i 2 gradi. Se arriviamo a 1,5 allora bisogna fare in modo di non arrivare a un aumento di 2, 3, 4 gradi”. Per ora, attendiamo di vedere se la COP appena conclusa segna davvero il momento in cui iniziamo a lasciarci alle spalle i combustibili fossili.