Il limite a 30km/h non è una fissazione antiautomobilistica da fricchettoni, scrive Silvia Bencivelli: a mostrarlo sono i numeri. Eppure, mentre l’Europa rallenta in nome della vivibilità e della sicurezza, sulle strade italiane il Codice della Strada permette di continuare a correre - non appena il traffico lo consente. Insomma, con il nuovo Codice, ora all'esame del Senato, abbiamo perso un'occasione per avere strade più sicure.
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Le associazioni per la sicurezza stradale hanno tutte il nome di qualcuno. Lorenzo, Michele, Sonia, Matteo: persone che avrebbero preferito intestarsi altro, semmai, e invece sono morte sulla strada. Morte, perché qualcuno alla guida di un mezzo a motore le ha investite e uccise. Eppure noi quell’evento continuiamo a chiamarlo “incidente”, come se fosse inatteso, sorprendente: come se non fosse evidente che tra un pedone e un automobilista la responsabilità dello scontro è quasi sempre dell’automobilista e a morire è quasi sempre il pedone. E continuiamo a parlarne come se si trattasse di disgrazie isolate, brutti colpi di sfortuna, e non di una strage quotidiana, prima causa di morte per i giovani in Italia e nel mondo. Ecco perché le associazioni per la sicurezza stradale hanno molte battaglie da combattere. Lorenzo, Michele, Sonia, Matteo e gli altri devono essere riconosciuti come vittime di violenza, non del caso. Soprattutto, dicono le associazioni, non lasciamo che siano morti invano e interveniamo sulle regole e sui controlli: da domani di associazioni con il nome di un figlio o di una sorella non ne vogliamo fondare più.
La prima delle battaglie, la più attuale, è politica: Ministro Salvini, abbassiamo la velocità sulle strade. Il riferimento è al nuovo Codice della Strada (che in questo momento è passato all’esame del Senato), e in primo luogo alla Direttiva sulla disciplina dei limiti di velocità nell’ambito urbano emanata il 2 febbraio scorso, che invece di sostenere il limite di 30 km/h in città, come da indicazione del Parlamento europeo e Organizzazione mondiale della sanità (OMS), nonché da Piano Nazionale della Sicurezza Stradale dello stesso Ministero dei Trasporti, lascia il vecchio limite dei 50 km/h nei centri abitati, eventualmente estensibile a 70km/h.
Ma il limite a 30km/h non è una fissazione antiautomobilistica da fricchettoni, non è cattiveria, non è nemmeno un numero magico. Il sito di Bologna Citta30 (del Comune di Bologna) riporta questi numeri: passando da 50 km/h a 30 km/h il tempo di arresto di un’automobile dimezza. Significa che fare “incidenti” è meno probabile, perché si ha più tempo per frenare. Comunque, se non si riesce a frenare, una persona investita a 50 km/h ha otto probabilità su dieci di perdere la vita, a 30 km/h si scende a una probabilità su dieci. E sette persone sono salve. Al di là della teoria, la pratica conferma: le città che hanno adottato il limite di 30km/h (che adesso sono tante e anche grandi, come Bruxelles e Parigi e molte città spagnole, o la nostra riluttante Bologna) hanno visto calare della metà o anche più il numero di “incidenti” gravi e mortali. Tra qualche anno vedranno che sono calati anche i morti per malattie da inquinamento e da rumore.
Però, mentre l’Europa rallenta in nome della vivibilità e della sicurezza, sulle strade italiane il Codice permette di continuare a correre. O meglio: corricchiare. Cioè: per via dell’insensato traffico veicolare, la velocità media di un’automobile in una delle nostre città è di circa 18km/h. Significa che per un bel po’ di tempo viaggia a passo d’uomo. Però poi appena c’è un incrocio libero o una svolta su una strada secondaria si è autorizzati a schiacciare l’acceleratore fino a 50km/h.
Altro paradosso: oggi un terzo del tempo che un automobilista di città passa seduto in macchina è dedicato alla ricerca del parcheggio. E il 40% dei tragitti in città è inferiore ai tre chilometri, che si potrebbero percorrere benissimo in autobus, a piedi (mezz’ora a passo lesto, tre quarti d’ora se si cammina più rilassati) o in bicicletta (una decina di minuti). Eppure la proposta di imporre a Bologna il limite dei 30km/h, prima grande città italiana, è stata accolta da un coro di dissenso in appello a una presunta lesione della libertà personale (dell’automobilista, si intende), e lo stesso Ministro dei trasporti è sembrato felice di unirsi in qualità di solista.
Ma è un po’ tutto il nuovo Codice a indignare le associazioni (fondazioni, federazioni) intitolate a Lorenzo, Michele, Sonia, Matteo. Stefano Guarnieri, fondatore e vicepresidente della Fondazione Lorenzo Guarnieri (Lorenzo era suo figlio, morto a diciassette anni nel 2010), riassume così le critiche: «Per me, il Ministro Salvini è un po’ come Superciuk di Alan Ford, che rubava ai poveri per dare ai ricchi. Perché il nuovo codice ruba mobilità ai ‘deboli’ della mobilità su strada (pedoni e ciclisti) per darla a quelli che occupano più spazio e hanno da sempre maggiori diritti, cioè i soliti automobilisti».
Lorenzo, Michele, Sonia, Matteo sono solo alcuni dei ‘deboli’ della strada che ci hanno rimesso la vita. In Europa infatti si calcolano circa 22700 vittime all’anno e 120mila feriti gravi (negli anni della pandemia i numeri sono migliorati, ma è durata poco). In Svezia però i morti per milione di abitanti sono 18 all’anno, in Italia 52 (dato Istat riferito al 2019). Sulle strade italiane muoiono più di 9 persone al giorno, più di 3000 all’anno (3159 nel 2023), e 40 sono bambini. Tre quarti degli “incidenti” mortali avviene in città: degli oltre 600 pedoni investiti, più di 300 stavano attraversando sulle strisce. Un quarto degli “incidenti” è chiaramente causato dall’alta velocità di chi stava guidando. Comunque, in generale, nove volte su dieci è colpa di chi stava guidando, e otto volte su dieci la vittima è un utente cosiddetto fragile: bambino, anziano, disabile. È un circolo vizioso: strade pericolose, quindi tutti in automobile, quindi strade intasate, quindi automobilisti arrabbiati e pericolosi. Poi rumore, traffico, inquinamento, malumore. E una città brutta, dove l’80% dello spazio calpestabile è occupato da automobili e dove l’automobile media sta ferma il 92% del tempo occupando 10 metri quadrati di terreno. Ciliegina: il costo economico di tutto questo, per il nostro paese, è stimato (dallo stesso Ministero, quindi probabilmente è un’ampia sottostima) in più di 18 miliardi di euro all’anno.
Oggi le associazioni intitolate a Lorenzo, Michele, Sonia, Matteo stanno rilanciando un appello al Governo in adesione a una lettera firmata da 130 esperti di viabilità (tra cui Stefano Boeri e l’intero staff tecnico della Città Metropolitana di Bologna) perché semplicemente si faccia guidare dall’unico criterio su cui si dovrebbero decidere i limiti di velocità: «la tutela della vita umana» (articolo 142, comma 1 del Codice della Strada).
Nel dettaglio, la lettera dei 130 esperti spiega che le modifiche al Codice della Strada in discussione in Commissione trasporti «depotenziano le norme sulla ciclabilità introdotte dalla legge 120/2020». E che questa è «una posizione priva di qualunque giustificazione tecnica… che dimentica che, da quando sono stati introdotti, questi dispositivi hanno consentito al nostro paese di compiere significativi progressi verso il recupero della ciclabilità come modo di trasporto alternativo». In più il nuovo Codice permette di installare meno autovelox, di disegnare ZTL subordinate solo alle necessità degli automobilisti e delle attività economiche, pone uno stop alle ciclabili e lega le mani ai Comuni a favore del Ministero. Anche se, conclude, noi avremmo l’obbligo di perseguire gli obiettivi indicati dagli organismi internazionali (ONU e OMS in primis), cioè la riduzione del 50% degli scontri stradali entro il 2030.
Ecco, molto semplicemente, sospira Stefano Guarnieri, «Abbiamo perso un’occasione storica. Con il nuovo Codice l’automobile sarà incoraggiata a sentirsi ancora di più la regina delle nostre città. Come se ne avesse avuto bisogno».
P.S.: in questo articolo la parola “incidente” è stata messa tra virgolette perché è una parola sbagliata alla quale le associazioni intitolate a Lorenzo, Michele, Sonia, Matteo propongono di rinunciare. La loro battaglia linguistica è lunga e complessa ma ne parleremo un’altra volta.