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Dal Botswana al Trentino, la difficile convivenza con la fauna selvatica

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In Botswana, il numero crescente di elefanti, dovuto a politiche di conservazione di successo, ha portato a conflitti con le popolazioni locali a causa della distruzione dei raccolti e risorse. Sembra una storia lontana dall'Italia, ma non è così: lo dimostra la difficile convivenza con gli orsi reintrodotti in Trentino. È possibile la via per la coesistenza tra umani e fauna selvatica?

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Molti quotidiani hanno recentemente riportato l’offerta alla Germania del presidente del Botswana di inviare 20.000 elefanti per far vivere ai tedeschi l’esperienza di convivere con questi animali. Il ministro dell’ambiente di quel paese ha rivolto un’analoga offerta al Regno Unito, aggiungendo: «Voglio che gli inglesi sperimentino la convivenza con animali che stanno distruggendo il mio paese: in molte zone gli elefanti calpestano bambini ed esseri umani, prosciugano le risorse idriche, devastano e mangiano i raccolti dei contadini lasciando le persone senza cibo».

Le offerte, finora non accettate, hanno fatto seguito alla proposta di legge delle organizzazioni ambientaliste dei due paesi e alla campagna condotta dall’organizzazione Humane Society International per vietare l’importazione di trofei di caccia grossa dall’Africa (già vietata nel gennaio di quest’anno dal parlamento del Belgio).

In Botswana, Tanzania e Kenya il permesso per abbattere un elefante costa 50.000 dollari. Ma il costo non spaventa i cacciatori: tra il 2005 e il 2014 sono stati importati negli Stati Uniti 32.500 trofei, mentre sono stati quasi 15.000 quelli importati dal 2014 al 2018 in Europa. Le proposte a sostegno del divieto di caccia al trofeo, seppur sostenute dall’opinione pubblica europea, non sono da tutti condivise: molti ritengono che si debba tenere conto anche dei benefici prodotti per i paesi ove la caccia è consentita, mentre da altri sono apertamente contestate, in particolare da coloro che si occupano della conservazione nei paesi africani, in quanto i proventi derivanti dalle licenze sono per la maggior parte rinvestite in progetti di sviluppo, conservazione dell’ambiente e assistenza alle comunità locali. Inoltre, la caccia al trofeo dei big five (leone, elefante, leopardo, rinoceronte, bufalo) è disciplinata da normative che prevedono l’abbattimento di esemplari di specie non a rischio di estinzione, selezionati secondo un programma di quote annuali in linea con le indicazioni formulate dal CITES.

Dalla ripresa al conflitto, gli elefanti in Botswana

Oggi gli elefanti rappresentano il caso di maggior successo, insieme ai leoni, delle politiche di conservazione dell’ambiente in Africa, sostenute dall’attività delle associazioni ambientaliste e da finanziamenti da parte dei paesi ricchi. I dati sul declino degli elefanti non sono precisi, soprattutto perché è incerto il loro numero in passato. Le stime più attendibili indicano che c’erano 10 milioni di esemplari all’inizio del secolo scorso, ridotti a poco più di 200.000 alla fine degli anni Settanta: un risultato cui hanno contribuito non solo la caccia e il commercio internazionale dell’avorio (proibito solo nel 1989), ma anche la convinzione in molti paesi africani che la natura selvaggia fosse il marchio del sottosviluppo e dell’inferiorità rispetto ai paesi ricchi: una situazione descritta da Romain Gary in uno dei primi romanzi ambientalisti, Les racines du ciel. Nel libro, gli elefanti sono visti dai movimenti di liberazione africani come un simbolo di arretratezza e inferiorità; chi vuole evitarne la caccia e l’estinzione in nome della tutela dell’ambiente è considerato come un esponente di un nuovo, più insidioso colonialismo.

Così, gli elefanti furono classificati nel 1996 in pericolo di estinzione ma già nel 2004 furono promossi al livello superiore, come specie a rischio. Sono attualmente oltre 400.000 distribuiti su un’ampia area dell’Africa meridionale.

Il Botswana è il paese che ha applicato con maggior rigore le politiche di protezione degli elefanti, con la partecipazione delle popolazioni locali che hanno tratto benefici per l’incremento del turismo. Il risultato è che lì si trova un terzo del totale degli elefanti africani: sono più di 130.000 e aumentano di circa 6.000 unità ogni anno. Tuttavia meno della metà si trova nei parchi e nelle aree protette, gli altri si sono diffusi sul territorio nazionale, distruggendo i raccolti e l’habitat: un elefante adulto consuma fino a 150 kg di vegetazione al giorno.

Per limitarne il numero, il Botswana ha regalato migliaia di elefanti a paesi vicini (Angola e Mozambico) che progettano di sviluppare il turismo, utilizzando anche la caccia ai trofei per contenerne il numero, ricavando un utile da reimpiegare nei vari progetti di tutela delle specie protette.

L’incremento del numero di elefanti preoccupa anche altri paesi, tra cui Kenya e Tanzania.

In conclusione, le reazioni del presidente e del ministro dell’ambiente del Botswana riflettono il difficile compito di molti paesi africani di conciliare le esigenze e la protezione delle popolazioni interessate con la tutela delle specie protette, spesso in aumento per la riuscita delle politiche di conservazione adottate.

E gli orsi in Italia

Sembrano problemi lontani che non ci riguardano, ma non è così. È infatti dell’aprile dello scorso anno il tragico episodio dell’uccisione di un giovane escursionista aggredito da un’orsa in un bosco della Val di Sole (preceduta da due altre aggressioni, sempre di orsi, fortunatamente senza esiti fatali) che ha occupato per molti giorni le pagine dei quotidiani e ha innescato un acceso dibattito sulle iniziative da intraprendere tra la Provincia di Trento, l’Istituto per la ricerca e la protezione ambientale (ISPRA) e le associazioni di ambientalisti, coinvolgendo anche la giustizia amministrativa. Già in passato si erano verificati nella regione due episodi, fortunatamente senza esiti fatali: nel settembre del 2014 l’orsa Daniza aveva assalito un cercatore di funghi, probabilmente ritenuto una minaccia per i suoi due cuccioli ed era deceduta a seguito di un maldestro tentativo di cattura. Nel luglio del 2017 un uomo era rimasto ferito a seguito dell’aggressione dell’orsa KJ12, poi uccisa dal Corpo forestale.

Sono rimasti sullo sfondo, ignorati o travisati, sia il quadro normativo di riferimento sia la storia dell’introduzione dell’orso in Trentino. L’orso bruno (Ursus arctos) è una specie protetta dalla Legge quadro 11 febbraio 1992, n. 157, dalla Convenzione di Berna e dalla Direttiva Habitat 92/43/CEE (recepita dall’Italia con DPR 8 settembre 1997 n. 357, modificato e integrato dal DPR 12 marzo 2003, n. 120). La normativa prevede un divieto di abbattimento, cattura, disturbo (in particolare durante le fasi del ciclo riproduttivo e l’ibernazione), detenzione e commercio di esemplari di orso bruno. La Direttiva Habitat e le relative norme nazionali di recepimento hanno, tra l’altro, imposto un obbligo, per le regioni e province autonome, di garantire il monitoraggio dello stato di conservazione delle specie sulla base di linee guida prodotte dal Ministero dell’ambiente con l’ISPRA.

Deroghe ai divieti di cattura o abbattimento possono essere concesse per finalità di prevenzione di gravi danni, nell’interesse della sicurezza pubblica a condizione che non esistano soluzioni alternative previa un’autorizzazione del Ministero dell’ambiente espressa sulla base di una valutazione tecnica dell’ISPRA.

Nel 1992, il Parco Adamello Brenta e la Provincia autonoma di Trento, usufruendo di un finanziamento dell’Unione Europea, hanno avviato un progetto per reintrodurre 40-50 orsi, da tempo estinti. Il progetto è stato preceduto da uno studio di fattibilità socio-economica ed ecologica e da un sondaggio di opinione che ha coinvolto 1.500 abitanti delle comunità locali interessate dell’area (più del 70% ha dichiarato di essere a favore del rilascio di orsi nell’area). Il Parco ha adottato linee guida che, tra l’altro hanno previsto la costituzione di una squadra d’emergenza «…nel caso in cui un orso diventi una potenziale fonte di pericolo per l’uomo, in grado di intervenire... nei casi estremi, con la ricattura o l’abbattimento. Le medesime contromisure possono essere intraprese anche quando un orso diventi fonte di tensione sociale a causa dell’eccessivo grado di danni arrecati».

Nel 1999 il progetto è divenuto operativo: dieci orsi sono trasportati dalla Slovenia al Trentino e gli orsi hanno cominciato a ripopolare l’area, altamente frequentata anche da turisti. Il progetto si è concluso nel 2004. Erano presenti 49 orsi, il numero massimo previsto dal progetto, tra l’altro per popolare un territorio assai più vasto, le Alpi centrali. La gestione degli orsi è stata assunta a questo punto direttamente dalla Provincia di Trento che dal 2007 predispone annualmente un rapporto Grandi carnivori in merito alla situazione delle popolazioni di orso bruno, lupo e lince.

Nel 2010, il Ministero per l’ambiente e ISPRA hanno predisposto un Piano d’azione interregionale, dove sono previste le procedure di controllo e monitoraggio, la formazione del personale da adibire al controllo, le strategie di comunicazione e di informazione per il pubblico. Sono inoltre previste le procedure da seguire nei confronti degli orsi problematici: il Piano, come in precedenza le linee guida, prevede l’abbattimento tra gli interventi da adottare nel caso di orso che crei problemi o sia pericoloso o «assuma atteggiamenti che possano comportare un concreto rischio per l’incolumità delle persone», dopo aver valutato la praticabilità di soluzione alternative idonee.

Nel frattempo, in vent’anni gli orsi hanno ripopolato l’area in misura maggiore di quanto inizialmente previsto: sono attualmente un centinaio, tutti concentrati nella medesima zona, e pongono problemi di coesistenza e di conflitto simili a quelli creati dagli elefanti in Botswana. Si è trattato di un successo non previsto che avrebbe richiesto iniziative volte a trasferire una parte degli orsi verso altre località alpine (così come inizialmente previsto) in modo da ridurre le possibilità di incontri tra gli animali e gli escursionisti o gli abitanti. Queste iniziative sono mancate ed è mancata anche la fondamentale attività di informazione agli abitanti e agli escursionisti in merito alla possibilità di incontri con orsi e al comportamento da mantenere per evitare incidenti.

Per ciò che riguarda l’orso che ha ucciso l’escursionista, gli esperti hanno ritenuto che l’orso dovesse essere abbattuto in conformità con le linee guida e il piano d’azione. In questo senso si è espresso Piero Genovesi, uno dei maggiori esperti mondiali di orsi e responsabile del Servizio per il coordinamento della fauna selvatica di ISPRA: dopo aver ricordato che le aggressioni di orsi sono molto rare anche in paesi dove la popolazione di orsi è assai più numerosa che in Trentino, afferma che per orsi pericolosi in modo conclamato deve essere preso in considerazione l'abbattimento.

Nello stesso modo si è espresso Luigi Boitani, presidente della Large Carnivore Initiative for Europe: dopo aver chiarito che la convivenza con l’orso è possibile se l’essere umano sa come comportarsi, ha concluso che l’orso in questione «è giusto che sia abbattuto, perché potenzialmente pericoloso. La popolazione trentina è tale per cui la perdita di un orso maschio non la intacca».

Gli elefanti del Botswana e gli orsi del Trentino pongono lo stesso problema: il coordinamento dei programmi di preservazione della fauna selvatica con la tutela delle persone e delle comunità coinvolte. Nella COP15 della Convenzione per la tutela della biodiversità svoltasi nel 2022 è stato approvato un accordo quadro, il Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework, con il fine di fermare la perdita di biodiversità entro il 2030. Il quarto obiettivo dell’accordo indica specificatamente l’obiettivo di gestire i conflitti tra esseri umani e fauna selvatica al fine di ridurre al minimo i conflitti partendo dal presupposto che essi pongono un problema di conservazione della biodiversità, ma anche una importantissima questione sociale e di sviluppo sostenibile.

Trovare la strada per la coesistenza

A questo proposito, su Scienza in rete Laura Scilitani ha ricordato che oggi ci sono «Elefanti che distruggono preziosi raccolti, leopardi che si aggirano per le strade di Mumbai, tentacolare megalopoli affollata, leoni e lupi che predano il bestiame, attacchi a esseri umani di tigri, grizzly e squali, morsi velenosi di serpenti. Animali che minano la sicurezza delle persone e delle loro attività, spesso in luoghi nel mondo in cui la vita è già complicata dalle disuguaglianze economiche e da un clima incerto. Animali che causano problemi, certo, che però sono a loro volta messi in grave pericolo di estinzione dalle azioni umane».

In un mondo in cui vivono otto miliardi di esseri umani mentre gran parte della fauna selvatica è a rischio di estinzione, è possibile trovare un modo per raggiungere situazioni di coesistenza? Per affrontare questo problema è stato costituito nell’ambito dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) un gruppo, Human Wildlife Conflicts and Coesistence. Inizialmente pensato come una task force temporanea, si è trasformato in un gruppo specialistico permanente «con lo scopo di offrire competenze e conoscenze sul tema della risoluzione dei conflitti con la fauna con un approccio basato sullo scambio tra le differenti discipline coinvolte nella gestione del problema». Il gruppo ha organizzato a Oxford nell’aprile del 2023 la prima conferenza internazionale sui conflitti e la coesistenza tra animali selvatici e umani, cui hanno partecipato più di cinquecento esperti provenienti da oltre settanta paesi.

 

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