“La carta d’identità dovrà contenere il consenso o il diniego della persona a donare i propri organi in caso di morte” è la nota diffusa dall’agenzia ANSA il 10 febbraio di quest’anno, sono le ore 20.56. L’ANSA faceva riferimento al decreto mille-proroghe. Dentro lì c’era anche una disposizione sul prelievo di organi. “Donare i propri organi in caso di morte” dice il decreto, per cominciare, non è un modo corretto di esprimersi. “Donare” si dovrebbe dire del padre che dà una parte del suo fegato al figlio perché non muoia e di tanti che donano un rene per liberare il marito o la moglie o i figli dall’essere schiavi della dialisi. Questi sono doni, davvero. Ma lasciare che i propri organi dopo la morte vengano utilizzati per il trapianto, non è “donare”, per donare ci vuole la volontà che non può essere prerogativa del cadavere.
In tanti Paesi democratici si chiede ai giovani di essere militari, ed è per legge. Capita che ci siano delle guerre e questi ragazzi muoiano “è giusto, è per proteggere il Paese” dicono tutti. Ma allo stesso modo non dovrebbe essere un dovere anche quello di lasciare i nostri organi quando a noi non servono più a chi ne ha bisogno per vivere? Oggi da noi soltanto uno su cinque di quelli che potrebbero guarire col trapianto riesce ad arrivarci. Tanti, troppi muoiono in lista d'attesa o passano il resto della loro vita legati a una macchina di dialisi. Dipende anche dal fatto che pochi dichiarano in vita di voler lasciare i propri organi. Molti semplicemente non ci pensano. Anche perché il trapianto è un problema per chi è malato o per quelli che ci lavorano, per la gente no, se ne parla poco o nulla. Se uno in vita non dice né sì né no per la nostra legge è considerato donatore (silenzio - assenso). Questo ha generato tante polemiche. La gente di leggi così non si fida. E allora per chi muore in rianimazione con gravi lesioni del cervello si finisce per dipendere dai parenti che tre volte su dieci negano il consenso al prelievo degli organi (non sanno, disposizioni in vita non ce n'erano).
Una legge come quella che aveva annunciato l’ANSA sarebbe preziosa. Al momento di rinnovare la carta d’identità ciascuno dovrà decidere se lasciare i propri organi dopo la morte a chi ne ha bisogno per vivere o se portarseli sottoterra. Otto italiani su dieci diranno sì. Al momento opportuno se ne terrà conto - dei sì e dei no - senza più polemiche. E chissà che un giorno di no non ce ne siano più.
Tutto bene allora? Purtroppo no. Non passano nemmeno 12 ore, è l’11 febbraio: “Donazione di organi, indietro tutta: non sarà obbligatorio indicarlo sul documento”. “Donazione organi: Governo frena su carta d’identità. La parola deve va sostituita con la parola può” (AGI News). Purtroppo è vero, il testo finale del decreto mille-proroghe dice “Chi lo vorrà potrà inserire nella carta d’identità l’indicazione sul consenso o il diniego a donare i propri organi in caso di morte”. Così non serve, è tutto come prima. “Chi vorrà potrà” vuol dire che tanti non diranno né sì, né no e che i familiari di chi non ha avuto occasione di esprimersi in vita potranno continuare a opporsi al prelievo degli organi per il trapianto.
E pensare che per un solo donatore in meno un grave cardiopatico muore, un adulto e un bambino ammalati di fegato perdono per sempre la possibilità di tornare a una vita normale e due malati di rene restano in dialisi. Per un “potrà” al posto che “dovrà” tanti continueranno a morire, per niente.