Sono pochi i pensatori in grado di condizionare la mentalità di un’epoca, di orientarne giudizi e pregiudizi. Emanuele Severino è senz’altro uno di questi. Da più di cinquant’anni i suoi libri sono come dei “segnavia” lungo la strada del pensiero filosofico italiano e basta forse il nome di qualche suo allievo un po’ più esposto (suo malgrado?) al sistema mediatico per testare l’impatto e l’influenza delle sue idee. Massimo Cacciari e Umberto Galimberti, tanto per fare qualche esempio, sono due severiniani di ferro e, ognuno a suo modo, ne perpetuano l’impareggiabile lezione. Galimberti, in particolare, rinnova ogni volta che se ne presenta l’occasione il punto di vista del maestro a proposito di quella Severino, e prima di lui Martin Heidegger, ama definire l’età del “dominio della tecnica”. Cosa bisogna intendere con questa altisonante espressione? Che viviamo in un’epoca in cui la tecnologia è talmente pervasiva da plasmare non solo il nostro lavoro e le nostre abitudini, ma anche i nostri sogni e i nostri desideri? Se così fosse davvero non si capirebbe l’acutezza dell’analisi filosofica. C’è forse bisogno di una particolare teoresi per rendersi conto che viviamo nella civiltà delle macchine? E infatti vivere nell’età del “dominio della tecnica” significa qualcosa di più profondo. Significa vivere nell’età in cui la volontà di potenza, che da sempre (o perlomeno a partire da Platone) anima la cultura occidentale, mostra il suo vero volto. Significa vivere nell’età in cui tutti gli scopi dell’uomo diventano i mezzi di un unico scopo che tutti li ingloba: l’indefinito potenziamento della tecnica. La tecnica, infatti, non è uno strumento di cui l’uomo dispone, ma, dice Severino, è esattamente il contrario. Che lo si voglia o no, questa è La tendenza fondamentale del nostro tempo. Pubblicato più di venti anni fa, recentemente ristampato da Adelphi, questo è forse uno dei lavori più rappresentativi di Severino, soprattutto per la riflessione sulla tecnica, sui rapporti tra scienza e filosofia, tra tradizione filosofica e modernità tecno-scientifica, tra etica e ricerca. Come tutti i grandi libri, il volume adelphiano non risente affatto del tempo che passa, anzi rileggerlo è un’operazione salutare per afferrare le linee essenziali di un pensiero profondo e, cosa non secondaria, per cogliere con la giusta consapevolezza il livello spesso tutt’altro che incoraggiante di chi oggi continua a riprodurne qualche tecnofobica eco.
“Gli strumenti di cui l’uomo dispone – scrive Severino - hanno la tendenza a trasformare la propria natura. Da mezzi tendono a diventare scopi. Oggi questo fenomeno ha raggiunto la sua forma più radicale. L’insieme degli strumenti delle società avanzate diventa lo scopo fondamentale di queste società. Nel senso che esse mirano soprattutto ad accrescere la potenza dei propri strumenti. Già gli antichi sapevano che se lo scopo della ricchezza è di vivere bene, può però anche accadere che come scopo della vita ci si proponga la ricchezza. In questo modo la ricchezza, che inizialmente funziona come mezzo, strumento, diventa scopo, fine”. La tecnica, come la ricchezza per l’uomo dissennato, perde dunque per l’uomo del XX e del XXI secolo la sua natura “strumentale” e diventa lo scopo di ogni suo agire. Ogni progetto, ogni politica, ogni speranza, dice il filosofo bresciano, può oggi acquistare un senso solo al cospetto dell’”Apparato tecnico-scientifico”, vale a dire dell’integrazione tra campi tutti i campi del sapere in nome della scienza e della tecnologia. “Capitalismo e socialismo reali (e anche il cristianesimo e la democrazia liberale) intendono certamente assegnare i propri scopi all’Apparato: e da parte sua la scienza dichiara ancora di non poter essere che neutrale rispetto ai propri fini. Ma l’efficacia dell’Apparato non è determinata dal fine assegnatogli. Qualunque possa essere il fine assegnato dall’esterno all’Apparato, quest’ultimo possiede di per sé stesso un fine supremo: quello di riprodursi e di accrescere indefinitamente la propria capacità di realizzare fini”. La tendenza del nostro tempo è quella per cui la tecnica non è più chiamata a servire l’ideologia del profitto, dell’amore cristiano, della società degli eguali, e così via, ma è quella per cui “l’organizzazione ideologica della tecnica lascia sempre di più il passo alla sua organizzazione scientifico-tecnologica”.
Purtroppo oggi c’è chi traduce i fondamentali del pensiero severiniano in inutili quanto mediatici strali contro internet e le e-mail, rei di averci fatto perdere il tempo della riflessione e della scrittura, contro i bancomat e i distributori automatici, rei di averci fatto perdere il contatto umano, e contro tutte le “diavolerie” tecnologiche. Insomma, dobbiamo registrare che oggi purtroppo c’è chi su Severino ha edificato una tecnofobica retorica del “bel tempo che fu”.