Come cambierà il clima in Italia? Con quali conseguenze per il paese? Noncuranti delle polemiche dei “negazionisti climatici”, se lo sono chiesti un centinaio di scienziati italiani che lavorano a diverso titolo sul cambiamento climatico – dalla fisica dell'atmosfera all'economia. Ne è sortito un volume di 590 pagine che è a tutti gli effetti l'equivalente del Rapporto dell'IPCC per l'Italia. “I cambiamenti climatici in Italia: evidenze, vulnerabilità e impatti”, a cura di Sergio Castellari e Vincenzo Artale (Centro euromediterraneo per i cambiamenti climatici – CMCC - Bononia University Press, 2010) è una miniera di dati e proiezioni sul presente e il futuro del clima e dei suoi numerosi e a volte imprevedibili impatti. Il bello del rapporto italiano è che “non la butta in politica”, perché non era negli intenti delineare e nemmeno suggerire risposte al fenomeno ormai assodato del cambiamento climatico.
Il Rapporto vuole più che altro dare lo stato dell'arte della ricerca climatologica nel nostro paese, con le poche luci e le molte ombre di conoscenza che ancora la caratterizzano. “Oggi i climatologi sono diventati loro malgrado quello che furono i fisici nucleari ai tempi del progetto Manhattan – ha commentato Antonio Navarra, presidente del CMCC alla presentazione del libro enutasi a Venezia il 15 aprile - Sono stati caricati di una responsabilità enorme, al centro come sono di aspettative e tensione politiche fortissime. Eppure la ricerca climatologica ancora oggi è sottofinanziata, in Italia come altrove. E fatica con queste risorse ad affrontare le grandi sfide pratiche e teoriche che le si pongono davanti”.
Il Rapporto – frutto di due anni di lavoro coordinato da Sergio Castellari del CMCC e da Vincenzo Artale dell'Enea – potrebbe essere il primo di una serie, con aggiornamenti triennali. In 19 capitoli affronta la questione climatica in tutti i suoi aspetti, procedendo ordinatamente dalle discipline di base (meteorologia, modellistica climatologica, fisica dell'atmosfera) alla disamina degli impatti (ciclo idrologico, agricoltura, desertificazione, foreste, montagna, biodiversità, sistema marino, salute, urbanistica, energia, trasporti, sistema economico). Vediamo come, spigolando fra gli abstract degli stessi ricercatori coinvolti nell'opera:
Com'è cambiato il clima negli ultimi due secoli
“È interessante soprattutto notare che tutti i primi 10 anni più caldi dal 1800 ad oggi in Italia sono successivi al 1990 e che, di questi, sei su 10 sono successivi al 2000. Si tratta di dati che confermano la tendenza positiva della temperatura. Altrettanto indicativo che ben 16 anni tra i primi 20 più caldi siano successivi al 1980. La top ten per temperature degli ultimi due secoli è infatti la seguente: 2003, 2001, 2007, 1994, 2009, 2000, 2008, 1990, 1998, 1997.” scrivono Teresa Nanni del'Istituto di scienze dell'atmosfera del CNR di Bologna e Maurizio Maugeri e Michele Brunetti dell'Università di Milano. “L’anomalia media di questi primi 10 anni è di 1,2°C in più rispetto al periodo di riferimento, mentre l’anomalia media dei sei anni successivi al 2000 è leggermente superiore, di 1,3°C. Per quanto riguarda le precipitazioni, se consideriamo il periodo novembre 2008-aprile 2009, abbiamo registrato un primato: 54% in più della media climatologica del periodo 1961-1990, mai negli ultimi due secoli era piovuto così tanto in Italia nello stesso periodo.
È interessante anche il quadro delle anomalie massime e minime della temperatura media nei 200 anni per ciascun mese dell'anno. Se si escludono gennaio, novembre e dicembre (i più caldi di questi tre mesi si ebbero rispettivamente nel 1804, 1926 e 1825) le temperature massime di tutti i mesi sono state registrate in anni recenti: il febbraio 1990 con +2,93°C, il marzo 2001 con 3,5, l’aprile 2007 con 3,13, il settembre 1987 con 2,92, l’ottobre 2001 con 2,9. C’è poi il 2003, l’anno più caldo degli ultimi duecento: un record ottenuto soprattutto a causa di una straordinaria ondata di calore tra maggio e agosto, con anomalie positive consistenti e prolungate: rispettivamente 3,05, 5,12, 2,84 e 4,45°C in più della media 1961-90 di ciascun mese. Per converso, si nota che le temperature minime di ciascun mese, da gennaio a dicembre, si sono avute tutte in anni molto distanti: dieci risalgono addirittura all’800, il settembre è del 1912 e l’ottobre del 1974”.
Il futuro del clima in Italia
#LLL# Differenza tra il valor medio
della temperatura dell’aria a
2 metri (T2m) nel periodo 2071-2100
e nel periodo 1971-2000 ottenute
da simulazioni del 20° secolo
e del 21° secolo (scenario A2
eseguite col modello SXG del CMCC,
seguendo il protocollo CMIP3
(Gualdi et al. 2008). Il pannello
superiore mostra la differenza
per il periodo invernale (Dicembre,
Gennaio e Febbraio, DJF), mentre
il pannello inferiore mostra la
differenza per il periodo estivo
(Giugno, Luglio e Agosto, JJA).
La temperatura è espressa in °C.
“Secondo le proiezioni di cambiamento climatico per la regione Euro-Mediterraneo ottenute da modelli globali, la regione potrebbe essere soggetta a un sensibile riscaldamento, che nel bacino del Mediterraneo sarebbe più pronunciato d’estate e che alla fine del XXI secolo potrebbe raggiungere i 4°-5° C di incremento della temperature superficiale media stagionale rispetto alla fine del XX secolo”. scrivono Silvio Gualdi e Antonio Navarra del CMCC, e Filippo Giorgi dell'Abdus Salam International Centre for Theoretical Physics di Trieste. “Il riscaldamento della regione sarebbe accompagnato da un incremento della precipitazione invernale a nord delle Alpi, mentre nell’Europa meridionale e nell’area del Mediterraneo la precipitazione subirebbe una drastica riduzione, più marcata d’estate (–25-30%).
Le proiezioni globali, inoltre, indicano che il segnale del cambiamento climatico è chiaramente visibile anche nella variabilità fra un anno e l'altro, la quale mostra una spiccata tendenza ad aumentare così come l’occorrenza di eventi estremi (ondate di calore) e di siccità.
Più in particolare per l'Italia, i modelli su scala regionale indicano un riscaldamento in tutte le stagioni, ma con un massimo d'estate e un minimo d'inverno. Le piogge diminuiscono molto su tutta la penisola in estate e, in maniera minore, primavera e autunno. In inverno la precipitazione aumenta sull’Italia settentrionale e diminuisce su quella meridionale. A questo si accompagnano periodi di siccità e di forti precipitazioni più frequenti.
“I segnali di cambiamento di precipitazione e temperatura mostrano una struttura fine legata all’effetto della topografia della penisola. Per questo si sta sviluppando una nuova generazione di modelli, inserendo in maniera interattiva il Mar Mediterraneo sia nei modelli globali che in quelli regionali. Questo permetterà di produrre nuovi scenari ad hoc per la regione Mediterranea per il 5° Rapporto dell’IPCC, la cui pubblicazione è prevista per l’anno 2013”. Anche di questo si sta occupando l'ambizioso progetto europeo CIRCE.
Estremi climatici in Italia
“Attualmente, sul territorio italiano è in corso un aumento delle temperature massime e minime giornaliere, collegato a una traslazione di tutta la distribuzione statistica delle temperature verso valori più caldi e quindi anche un aumento della temperatura media. Questo andamento è coerente con l'aumento di frequenza delle ondate di calore (triplicatasi negli ultimi 50 anni) e le proiezioni dei modelli climatici indicano che diventerà progressivamente più marcato durante il 21mo secolo” scrivono Piero Lionello dell'Università del Salento di Lecce e i numerosi colleghi che hanno redatto il capitolo. “Le proiezioni su scala locale dei cambiamenti climatici per le temperature e precipitazioni per il periodo 2070-2100 indicano valori notevoli di aumenti di temperatura
Infine, in Italia, è in corso una diminuzione del numero di giorni poco piovosi e un aumento di quello con precipitazioni intense in alcune regioni dell'Italia settentrionale. La forte variabilità intrinseca nei regimi di precipitazione non consente tuttavia di fare per le piogge affermazioni con un livello di confidenza alto come per le temperature. I risultati per l’Emilia-Romagna indicano che i valori minimi e massimi della temperatura saranno significativamente più caldi per tutte le stagioni. L’incremento medio per la temperatura massima raggiunge i 5°C nella stagione estiva, 3°C in primavera e 2°C nelle altre stagioni. L’aumento delle temperature minime è più intenso durante l’estate e l’autunno, con valori fino a 4°C, mentre per l’inverno l’aumento è di circa 3°C. Per quanto riguarda la Penisola Italiana le simulazioni prevedono una diminuzione del numero di giorni con precipitazioni in tutte le stagioni, più debole durante l’inverno e più intenso durante le altre stagioni”.
Chiare, fresche (poche) acque
“Secondo i modelli che hanno partecipato al Quarto Rapporto dell’IPCC, il ciclo idrologico mediterraneo sarà influenzato il maniera significativa dai cambiamenti climatici globali previsti per il XXI secolo. Infatti le proiezioni indicano una diminuzione della precipitazione media annuale nell’area Mediterranea di circa il 20% (scenario SRES A1B, anomalie nel periodo 2070-2099 rispetto al periodo 1950–2000)” affermano Michele Vurro del CNR e gli altri autori del capitolo. “In termini percentuali, le anomalie sono maggiori in estate, che è anche il periodo in cui si riscontra la massima coerenza tra i modelli. Alla diminuzione delle precipitazioni si dovrebbe accompagnare anche un aumento dell’evaporazione nella regione Mediterranea. Sul mare, questo implicherà un aumento del deficit di acqua alla superficie. Su terra, questo condurrà molto probabilmente a una diminuzione nell’umidità del suolo, che sarà particolarmente accentuata durante il periodo estivo. Infatti, considerando i cambiamenti al 2050, il Mediterraneo risulta tra le regioni con il maggiore accordo tra i modelli, con una diminuzione del 10-30% delle acque di superficie. Le implicazioni di queste proiezioni sono che la regione Mediterranea soffrirà una diminuzione nelle risorse idriche (questa proiezione è data con livello di confidenza molto alto in IPCC WG II, 2007), con la diminuzione nelle acque di superficiali esacerbata dalla diminuzione di acque sotterranee.
Queste proiezioni sono affette dalle incertezze relative alla formulazione dei modelli (inclusa l’insufficiente risoluzione spaziale delle simulazioni) e agli scenari di emissione futuri ed altre forzanti radiative. Inoltre, la variabilità decadale naturale contribuirà a determinare le anomalie del ciclo idrologico nell’area Mediterranea nei prossimi decenni”.
Come cambieranno agricoltura e foreste
“Esistono ormai prove innegabili che il sistema terrestre (foreste e coltivazioni) sta rispondendo a stimoli ambientali di cambiamento con una maggiore produttività. Le cause non sono del tutto chiare, anche se è ragionevole supporre che l’aumento di concentrazione atmosferica di CO2, l’aumento di deposizioni azotate, le variazioni del clima, la variazione nella radiazione solare e persino quella dei raggi cosmici galattici associati all’attività solare, possano spiegare il fenomeno. Ma anche i mutamenti dei sistemi di gestione possono concorrere a determinare questa straordinaria risposta. Le conseguenze possono essere molte, straordinariamente complesse e forse non interamente prevedibili” spiegano Franco Miglietta e Francesco Vaccari del CNR di Firenze, e Marco Bindi del DISAT di Firenze. “La prima, e forse la più ovvia, riguarda il ciclo del carbonio; se le piante crescono di più, fissano anche più CO2 atmosferica sottraendola all’atmosfera e sequestrandola nei tronchi e nella sostanza organica del suolo. Se le piante crescono di più, immettono anche maggiori quantità di vapor acqueo in atmosfera con possibili conseguenze sulla piovosità. Se le piante crescono di più, conservano meglio il suolo, ne favoriscono la permeabilità, riducono la quantità di acqua piovana che ritorna rapidamente al mare per ruscellamento superficiale. Infine, aumentano le risorse alimentari per una lunga catena di organismi che vivono dei prodotti del bosco: dai microorganismi, ai vermi, agli insetti e su su fino ai mammiferi. Portando ad ipotizzare che possa alla fine addirittura aumentare la biodiversità. La ricerca ha il traguardo di capire cause e conseguenze del cambiamento globale. Bisogna fare rapidi passi avanti su questo terreno, per sfruttare il grande potenziale ed i grandi servizi che la natura ed il bosco ci mettono gratuitamente a disposizione. La natura ancora una volta si rivela il nostro più importante alleato nella lotta al cambiamento climatico. Abbiamo il dovere di favorire questo alleato, e dargli il modo di difenderci dai danni che stiamo forse causando al nostro pianeta”.
D'altra parte, come notano in un altro capitolo Riccardo Valentini dell'Università della Tuscia e gli altri autori, a fronte di un possibile aumento della produttività forestale si potrebbe avere una “progressiva disgregazione degli ecosistemi forestali, dei quali solo pochi potranno migrare in aree più adatte ai mutati scenari climatici, mentre la maggior parte di esse saranno destinate all'estinzione, almeno a livello locale”. Si prevedono inoltre, soprattutto a causa dell'aumento della temperatura ma anche della siccità, un'alterazione dell'equilibrio con gli agenti patogeni (con un possibile aumento di malattie forestali) e un aumento degli incendi boschivi.
L'estinzione dei ghiacciai e degli ecosistemi montani
L'ambiente montano sembra essere uno dei più colpiti dal cambiamento climatico in atto.“I dati presentati confermano che sulle Alpi Italiane è in atto dalla metà del XIX secolo un ritiro generalizzato dei ghiacciai, con limitati episodi di riavanzata fra gli anni 1970 e 1980 del XX secolo e nei primi anni ‘20. Questo in accordo con quanto verificatosi in generale sulla catena alpina (dove la superficie glaciale è scesa da circa 4474 km2 del 1850 a 2000 km2 nel 2003 con una riduzione del 55 %) e con l’evoluzione del clima alpino degli ultimi 80 anni che ha fatto registrare un incremento di temperatura quasi doppio rispetto alla media globale” scrivono Luca Mercalli e Daniele Cat Berro della Società glaciologica italiana, Giovanni Mortara del CNR di Torino e Claudio Smiraglia dell'Università di Milano.
“Valori analoghi di riduzione areale si sono riscontrati sui massicci montuosi italiani: i ghiacciai del versante piemontese del Gran Paradiso avevano perso il 50% della loro area ottocentesca già nel 1991 e in seguito si sono ulteriormente contratti. Sul versante valsesiano del Monte Rosa la riduzione è stata del 53% tra il 1850 e il 2006. Per l’intera Valle d’Aosta la riduzione areale dalla Piccola Età Glaciale è valutata del 41,5%, mentre per altri gruppi montuosi delle Alpi Centrali, come quello dell’Ortles-Cevedale la riduzione è stata del 47%. Alla riduzione delle aree ha fatto riscontro la riduzione delle lunghezze con arretramenti delle fronti talora chilometrici rispetto alle posizioni di due secoli fa (-1,6 km ai ghiacciai del Lys sul Monte Rosa, Pré de Bar sul Monte Bianco, dei Forni sul Cevedale). Dalla metà dell’800 anche lo spessore dei ghiacciai ha subito sensibili riduzioni, quantificabili in qualche caso in oltre un centinaio di metri.
La disintegrazione dei ghiacciai alpini
Il fenomeno in corso sulle Alpi Italiane può essere definito per la sua intensità una rapida “disintegrazione dei ghiacciai”, un vero e proprio “collasso” della criosfera, che si concretizza con l’estinzione dei ghiacciai di minori dimensioni, la frammentazione dei ghiacciai maggiori (per esempio Brenva sul Monte Bianco, Lys sul Monte Rosa, Fellaria Orientale sul Bernina), l’emersione di “finestre” rocciose sempre più ampie, la formazione di numerosi laghi di contatto glaciale e l’incremento della copertura detritica superficiale con la trasformazione dei ghiacciai delle Alpi Italiane dai classici apparati “bianchi” in “ghiacciai neri”, la cui area di ablazione è completamente ricoperta da detrito con spessori superiori ad 1 metro. Quest’ultimo fenomeno è legato anche all’accresciuta dinamica dei versanti in rapporto alla fusione del permafrost e delle lenti di ghiaccio sepolto, che, insieme alle precipitazioni concentrate, determina eventi di crollo in quota (> 3000 metri) anche di cospicua volumetria, talora con esposizione di ghiaccio in nicchia, e l’imbibizione dei depositi glaciali sciolti con la conseguente formazione di colate di fango e di detriti.
Come conseguenze di questa evoluzione si hanno alterazioni dei regimi idrologici che vedranno inizialmente picchi estivi di portata maggiore seguiti, in rapporto alla riduzione delle masse glaciali, da portate sempre più ridotte e da una conseguente maggiore esposizione alle siccità estive.
Se non avverranno nei prossimi decenni sensibili cambiamenti delle tendenze climatiche (gli scenari futuri proposti dai modelli numerici indicano incrementi termici estivi dell’ordine di 3÷6 °C entro il 2100 sulle Alpi), sarà probabile l’estinzione dei ghiacciai posti al di sotto dei 3500 metri”.
A rischio anche gli ecosistemi alpini e appenninici. “L'abbassamento della falda freatica e la contrazione del periodo di innevamento sono tra le cause dirette del collasso degli ecosistemi forestali e di quelli di alta quota degli Appennini, che non appaiono in grado di recuperare, a causa della rapidità dei cambiamenti climatici in corso e della indisponibilità di adeguate risorse genetiche a breve distanza” scrive Bruno Petriccione, del Corpo Forestale dello Stato. “Già oggi i primi sintomi di questi processi sono verificabili. Studi effettuati sulle Alpi Centrali dimostrano il progressivo spostamento in aree più elevate di specie vegetali di alta quota, mentre osservazioni effettuate sugli Appennini Centrali mostrano una tendenza all’adattamento degli ecosistemi di alta quota ad un aumento dell’aridità: in questi casi, la composizione specifica ha subito cambiamenti, negli ultimi dieci anni, dell’ordine del 10-20%, con preoccupanti sintomi di un processo di degenerazione ormai in atto (aumento delle specie vegetali più adattate all'aridità ed agli stress e parallela diminuzione di quelle più adattate a maggiore disponibilità idrica, basse temperature e maggiore innevamento). Nei prossimi 100 anni è da attendersi una progressiva disgregazione degli ecosistemi forestali, dei quali solo poche componenti potranno migrare in aree più adatte ai mutati scenari climatici, mentre la maggior parte di esse saranno destinate all’estinzione, almeno a livello locale”.
Clima e biodiversità
“In risposta al riscaldamento globale, le specie potranno essere in grado di adattarsi, oppure di spostarsi per rimanere alle stesse condizioni climatiche oppure saranno destinate all’estinzione. Stime globali indicano che il rischio di estinzione al 2050 dovuto ai cambiamenti climatici sarà compreso tra il 18% e il 35%, a seconda di cambiamenti climatici contenuti o elevati. Anche se questi studi fossero sbagliati di un ordine di grandezza e la perdita di specie fosse del 1,8-3,5% invece che del 18-35%, si avrebbe comunque la perdita di centinaia di migliaia di specie” scrivono Marino Gatto e Giulia Fiorese del Politecnico di Milano, Adriana Zingone della Stazione zoologica Dohrn di Napoli e Giulio De Leo dell'Università di Parma.
Gli effetti sul Mar Mediterraneo
“Il Mediterraneo negli ultimi anni è sempre costantemente sopra la media climatologia, in particolare negli ultimi dieci anni, ed alcuni bacini come il Mar Adriatico e il Mar Tirreno sta mostrando dei picchi d’anomalie di temperatura superficiale (la differenza tra la temperatura media osservata negli ultimi trenta-quaranta anni e quella del mese o del giorno preso in considerazione) durante il periodo estivo di oltre tre-quattro gradi” scrivono Vincenzo Artale dell'Enea e gli altri autori del capitolo. “L’analisi di dati raccolti durante il corso di numerose campagne oceanografiche nell’ultimo secolo ed oltre, mostrano un graduale aumento della temperatura delle acque superficiali, intermedie (la famosa acqua levantina) e profonde. Questo aumento della temperatura è accompagnato da un contemporaneo aumento della salinità: più l’acqua è calda maggiore è la sua capacità di diluire il sale.
Tuttavia la variabilità osservata della temperatura, salinità e dell’elevazione della superficie del Mediterraneo è abbastanza complicata. Una grande variabilità spaziale, dovuta al sommarsi di effetti diversi si somma a mutamenti delle tendenze (a volte non compresi) su scale di tempo relativamente brevi e variazioni delle caratteristiche idrologiche su lunghi tempi (probabilmente dovuti al riscaldamento globale) si sommano a eventi più rapidi e più ‘drammatici’ dal punto di vista del cambiamento della circolazione”.
Il riscaldamento globale sta cambiando anche la chimica e gli ecosistemi del Mediterraneo. A causa delle minori piogge e dal minor apporto di acqua fluviale, il Mediterraneo dovrebbe diventare più povero di nutrienti, anche se altri fenomeni potrebbero contrastare questa tendenza. Questo fenomeno, unito al maggior calore, sa già determinando una tropicalizzazione del bacino, con l'arrivo di specie abituate a climi più caldi.
Si adatteranno le città all'aumento di temperatura?
Le città sono i luoghi più vulnerabili al cambiamento climatico. A rischio sono in particolare le zone costiere (per l'innalzamento del mare) con le sue infrastrutture (a partire dai porti). Il mutare di regime delle piogge avrà invece conseguenze sulle reti fognarie e i depuratori. Infine le ondate di calore (come quella orami storica del 2003), di cui è probabile una intensificazione nei prossimi decenni, colpiranno soprattutto la popolazione urbana più debole e anziana.
“Gli elementi raccolti mettono in luce l’urgenza di predisporre – come già fatto in molte realtà straniere – sia incisive politiche urbane tese al risparmio energetico (a livello di città, di quartiere, di singoli edifici) sia veri e propri piani di adattamento capaci di coinvolgere amministratori e cittadini in quella che si profila come la sfida più impegnativa che attende le realtà urbane nel XXI secolo” concludono gli urbanisti dell'Università di Roma autori di questa parte del Rapporto.
Anche il sistema dei trasporti – come notano Stefano Caserini del Politecnico di Milano e Roberta Pignatelli dell'Ispra di Roma – subirà delle conseguenze.
“L’intensificarsi dei cambiamenti climatici porterà a impatti sulle infrastrutture di trasporto, principalmente per la stabilità dei manufatti stradali, ferroviari o portuali o la tenuta di asfalti stradali e binari ferroviari, ma porterà anche a impatti più generali sulle dinamiche del settore, per la ripartizione modale in ambito urbano e per il trasporto marittimo” scrivono gli autori. “Ad esempio il mercato della navigazione commerciale nella zona del Mediterraneo risentirà della maggiore competitività delle nuove rotte che si apriranno dei decenni futuri attraverso il mare artico, rispetto alle rotte tradizionali fra l'Europa e l'Estremo Oriente, che attualmente passano dal Canale di Suez fino ai porti del Mediterraneo. Sono anche da considerare impatti indiretti, fra cui ad esempio le variazioni delle caratteristiche dispersive dell’atmosfera che possono rendere ancora più critico il contributo dei trasporti alla qualità dell’aria in ambito urbano”.
I costi del clima che cambia
“L’Italia si troverà ad affrontare dei costi a causa dei cambiamenti climatici” spiegano Carlo Carraro, Jacopo Crimi e Alessandra Sgobbi della Fondazione ENI Enrico Mattei. “Considerando gli effetti redistributivi tra i diversi settori economici italiani in uno scenario di innalzamento della temperatura di 0,93 °C nel 2050 rispetto al 2001, i settori che registrano una maggiore riduzione nella quantità fisica prodotta sono quelli dei servizi (da –0,71% a –0,87%), ed alcuni settori dell’energia (petrolio –1,88%, gas –3,72%). Questi ultimi riflettono un calo nella domanda mondiale di gas e petrolio, dovuto principalmente alle minori necessita di riscaldamento invernale, mentre aumenta la domanda e la produzione di energia elettrica (+1,8%), anche per il maggior utilizzo di condizionatori. In uno scenario in cui al cambiamento climatico si affianchi in Italia anche un aumento dei fenomeni di desertificazione, sarebbe ovviamente il settore agricolo a registrare un forte calo di produzione, soprattutto per quel che riguarda la produzione di grano (–1,45%), ma anche di frutta e verdura. Si osserva anche una significativa riduzione nella produzione di beni di investimento. Tuttavia, questo fenomeno e legato al calo degli investimenti, che avviene in Italia ma non in tutti i paesi del mondo.
Considerando dunque gli effetti redistributivi del cambiamento climatico a livello nazionale, questo potrebbe costare al sistema economico italiano tra lo 0,12 e lo 0,16% del PIL nel 2050, pari a una riduzione del reddito nazionale di circa 20/30.000 milioni di euro, l'equivalente di un'importante manovra finanziaria. Cifre che nel 2100 potrebbero sestuplicare”.