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Business e ricerca possono andare a braccetto?

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Al di là della toccante vicenda umana, Extraordinary Measures, il nuovo film con Harrison Ford in uscita oggi nelle sale italiane, pone l’accento su  una questione cruciale nell’ambito della ricerca biomedica: il vero anello debole della catena è la difficoltà di passare dall’idea geniale di uno scienziato a un prodotto concretamente a disposizione dei malati. Da un lato ci sono le grandi aziende farmaceutiche, che  non possono permettersi di investire in una ricerca di base che potrebbe non dare alcun frutto; dall’altro le istituzioni pubbliche e no profit, le università e i centri di ricerca, che non hanno né i fondi né le competenze specifiche necessarie per sviluppare e portare sul mercato un farmaco.

«Ecco perché in Italia si pubblica tanto e si brevetta poco», dice Riccardo Palmisano, amministratore delegato di Genzyme Italia, ramo della multinazionale che, nella vicenda narrata dal film, acquista la piccola azienda biotecnologica fondata da un manager dell’industria farmaceutica, ma soprattutto padre di due bambini con la malattia di Pompe, e da uno scienziato scorbutico interpretato da Harrison Ford. Il primo nella corsa contro il tempo per salvare la vita ai suoi figli, il secondo mosso dall’ambizione di dimostrare il valore della sua ricerca, arrivano a riconoscere di aver bisogno del supporto dell’industria per raggiungere il loro obiettivo. Tanto che alla fine, il primo farmaco a essere immesso sul mercato per la cura della malattia di cui si parla non sarà quello ipotizzato dal protagonista, ma uno proveniente dalla ricerca aziendale, un prodotto forse meno brillante dal punto di vista teorico, ma più facilmente realizzabile e utilizzabile come cura nella pratica clinica.

In occasione di un’anteprima del film riservata alla stampa, lo spunto cinematografico ha offerto quindi  l’occasione di parlare non solo di malattie rare, e dell’indispensabile interazione tra famiglie, ricerca e industria, ma anche di proposte concrete per superare il gap che separa i laboratori dagli scaffali delle farmacie.

Riccardo Palmisano, medico oltre che manager, ha raccontato a Scienza in rete la sua iniziativa, che ha appena lanciato, nel corso del 2009, ma che già ha avuto tanto successo da essere copiata dalla consorella giapponese.

L’idea è di centralizzare e decentralizzare insieme, in un processo in cui il ramo nazionale dell’azienda, nello specifico Genzyme Italia, si pone come un ponte tra le realtà di ricerca locali, di cui conosce l’eccellenza, e la casa madre statunitense, una delle cinque principali società di biotecnologie farmaceutiche nel mondo, con 12.000 dipendenti e 4,5 milioni di dollari di fatturato.

Una realtà enorme nata, in una vicenda analoga a quella raccontata dal film, dall’insistenza di una mamma, che pretese venisse sperimentato anche sul suo bambino, affetto da malattia di Gaucher, un prototipo di enzima che i National Institutes of Health stavano provando solo sugli adulti. Fu quella determinazione a dimostrare che la scarsa efficacia che fino ad allora il farmaco aveva dimostrato dipendeva solo dal suo sottodosaggio.

E’ evidente come ora che Genzyme è un colosso di queste dimensioni sia più difficile che abbia un contatto diretto con le intuizioni che ricercatori di ottimo livello possono avere in varie parti del mondo.

Il vostro ruolo di mediazione servirebbe quindi a finanziare progetti di ricerca in Italia?

Sì, ma non solo. Ai centri con cui abbiamo stipulato un accordo, che lavorano ancora in fase preclinica, solo a ricerche in vitro o su modelli animali, non offriamo solo denaro, che pure è ovviamente importante e non basta mai. Diamo anche la consulenza scientifica di un’azienda leader al mondo nel campo dello studio delle malattie rare, per evitare di ripercorrere strade che si sono già rivelate fallimentari: è dal 1981, infatti, quando è stata fondata a Cambridge, nel Massachusetts, che la Genzyme si occupa di queste patologie, puntando sulla possibilità, che allora sembrava insensata, di poter trarre profitto anche dai piccolissimi numeri, cioè da molecole, in particolare enzimi carenti in alcune condizioni ereditarie, che avevano un mercato nell’ordine di centinaia quando non decine di pazienti al mondo.
La produzione di questi enzimi non è facile: anche in questo possiamo appoggiare i ricercatori.
Inoltre possiamo fornire loro il supporto legale necessario per brevettare le molecole e attraversare tutte le fasi di autorizzazione richieste dalle agenzie di regolazione. Tanto per avere un’idea dei numeri in gioco, registrare il nostro ultimo farmaco orfano è costato 600 milioni di dollari. Quale università o istituzione no profit potrebbe permetterselo?

Cosa pensate di ricavarne in cambio?

Nel momento in cui la ricerca preclinica riuscisse ad arrivare al traguardo della «prova di concetto», cioè a dimostrare di avere tutte le carte in regola per poter funzionare, Genzyme Italia offrirebbe per prima alla casa madre statunitense la possibilità di acquistare il pacchetto del lavoro fino ad allora eseguito, perché ne faccia un medicinale da portare sul mercato.
Avendo lavorato fianco a fianco con i ricercatori, noi di Genzyme Italia conosceremo meglio i dettagli del prodotto e saremo più convincenti nel venderlo alla nostra capogruppo; gli scienziati, da parte loro, riceveranno dalla vendita nuovi fondi per finanziare altre ricerche, in una sola tranche o sotto forma di royalties sulle vendite.

Ci sono già progetti in corso?

Sì, abbiamo già stipulato accordi prima di tutto con Telethon, e in particolare con il Tigem di Napoli, per lo studio di una molecola per la cura della mucopolisaccaridosi di tipo III, anche detta malattia di Sanfilippo. Con il CNR invece stiamo lavorando alla caccia di un possibile approccio terapeutico alla sclerosi laterale amiotrofica. Sosteniamo poi la fondazione Toscana Life Science che, nel Parco scientifico toscano, studia una nefropatia poco conosciuta, ma molto grave, che può portare il paziente all'insufficienza renale precoce. Inoltre collaboriamo con Bint, uno spin-off dell'Università Politecnica Marchigiana che sta seguendo due filoni di ricerca di base su vettori per la terapia genica e cellulare, studi che potrebbero porre le basi per un nuovo approccio alla cura delle patologie genetiche grazie all'uso di nuove tipologie di vettori di DNA.


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