Affermando, come gli è accaduto recentemente, che una “teoria unificata dell’universo” è ormai a portata di mano, Stephen Hawking ha riproposto quello che per Einstein era un sogno irrealizzabile, ossia la riunificazione in un solo campo delle forze dell’infinitamente piccolo (forza nucleare e radioattività) e delle forze dell’infinitamente grande (elettromagnetismo e gravità). Lasciamo stare se Hawking abbia ragione o pecchi di ottimismo. Chi vivrà vedrà. Chiediamoci piuttosto da dove Hawking tragga l’idea che fa da corollario alla sua affermazione: quella per cui tale teoria metterebbe Dio definitivamente fuori gioco.
E dire che proprio Hawking solo qualche anno fa ne aveva ammesso la possibilità. Lo stesso vale per Einstein. Per non parlare di Cantor, la cui teoria degli insiemi prospetta gli infiniti (al plurale) l’uno dentro l’altro, come in un gioco di scatole cinesi, ed evoca Dio come infinito degli infiniti (ma anche come ultimo orizzonte in cui la ragione fa naufragio). Sia come sia il problema-Dio appariva aperto e invece ora non più. Se non risolto, accantonato su base fisico-matematica prima ancora che su altra base (ad esempio etica).
In altri termini, quel che viene sostenuto da Hawking è che di Dio non c’è alcun bisogno per spiegare il passaggio dallo stato assolutamente inerziale dell’inizio al big-bang. Nulla infatti vieta di pensare che lo stato inerziale contenga già, prima della sua esplosione, e dunque in un tempo solo immaginario, e non ancora reale, tutte le informazioni necessarie a produrre l’esplosione stessa. Se il successivo processo entropico viene fatto regredire fino al grado zero, dove l’entropia è nulla ma le informazioni ci sono e contengono nel tempo immaginario la totalità delle cose che poi si svilupperanno nel tempo reale, è come se ci fosse dato di giungere al limite estremo dell’universo (per non dire dell’essere) e poi fare ancora un passo. Un passo a nord del polo nord, per usare la paradossale metafora di Hawking.
Che cos’è questo? Un salto nel nulla? Un tentativo di costruire, nel cuore stesso del nulla, una postazione da cui osservare il prodursi della realtà, il suo venire alla luce, il suo meraviglioso offrirsi a uno sguardo capace di descriverne perfettamente la manifestazione? Certo è un salto nel grado zero della realtà. Diciamo pure: un salto nello zero. E allora perché stupirsi? Lo zero è un numero. Ma un numero straordinario. Simboleggia ciò che sta prima dell’uno, ma al tempo stesso contiene l’uno, se è vero che zero elevato a potenza zero dà uno. Contiene non solo quel che non è ancora ma addirittura quel che esso nega. Posto lo zero, è posto anche l’uno. E con l’uno la serie infinita dei numeri, con i numeri il prima e il dopo, vale a dire il tempo, col tempo la possibilità che le cose siano… Accade con il numero zero quel che accade con il concetto di nulla: ce ne serviamo per indicare una realtà negativa, realtà che non esiste, eppure grazie ad essi compiamo operazioni altrimenti impossibili o riusciamo a pensare ciò che diversamente resterebbe impensato (l’indeterminazione, la libertà, e così via).
E tuttavia… Se ci limitiamo a considerare lo zero un analogo del nulla, quasi che lo zero fosse in matematica quel che il nulla è in metafisica, perdiamo di vista la differenza essenziale. Lo zero è qualcosa. E’ un numero, appunto. Un simbolo. E’ qualcosa che ha pur sempre a che fare con qualcosa, anche quando questo qualcosa è una realtà puramente negativa o realtà che sta prima della realtà, come il tempo immaginario che sta prima del tempo reale. Invece il nulla non è nulla. Posto il nulla, non è posto alcunché.
Mentre lo zero ha a che fare con dei fatti e designa pur sempre uno stato di cose, per esempio lo stato inerziale dell’inizio che non ha tempo e tuttavia rappresenta la possibilità e anzi la necessità che il tempo sia, il nulla non designa nulla e soprattutto non ha a che fare con dei fatti ma semmai col senso o col non senso delle cose. Come quando dico: questo non significa nulla. Oppure: il nulla è il senso del tutto. Oppure: Dio ha tratto il mondo fuori dal nulla.
Come intendere queste affermazioni? In un solo modo, se si vuole evitare di cadere nell’assurdo: come affermazioni che non riguardano questo o quel fatto, né la totalità dei fatti, né l’essere, ma il senso dell’essere. Quando dico che Dio ha tratto il mondo fuori dal nulla, non sto affatto descrivendo il processo che ha innescato il big-bang, cioè una serie i fatti. Al contrario, sto dicendo che il mondo (magari a torto, ma questo non è qui in discussione) ha senso, visto che Dio, che poteva abbandonarlo al nulla, lo ha invece tratto fuori dal nulla e quindi lo ha “salvato”.
Due piani, dunque, da tenere ben distinti. Per gli astrofisici si tratta di spiegare com’è fatto il mondo. Per i filosofi e per i teologi, se il mondo abbia o non abbia un senso. Chiamare o non chiamare Dio quel principio di spiegazione è irrilevante, così come è fuori luogo applicare a una teoria fisica la nozione di disegno salvifico o intelligente che sia.