Dal Sole 24 Ore (domenica 10/10/1210)
Come sempre in autunno, ritornano puntuali i “ranking” delle università. Classifiche stilate da fonti diverse come, fra le più popolari, quella del Times, di Shangai e di Taiwan.
In queste classifiche, le Università italiane si piazzano male, anche se il loro posizionamento sale nei ranking basati su dati “solidi”, ossia costituiti dai parametri bibliometrici (ad esempio il numero di citazioni dei docenti di un Ateneo). In generale, comunque, dai ranking emerge una fotografia della situazione universitaria grave del nostro Paese, anche se l’immagine dominante è peggiore della realtà (come descrive molto bene in un libro Marino Regini**).
Ma che significato e impatto hanno questi ranking? Sono davvero così importanti? E perché danno risultati diversi? Ad esempio, il posizionamento dell’Università degli Studi di Milano, che in genere è la prima classificata fra le italiane, cambia sensibilmente nei vari ranking: 99 al mondo e 27 in Europa secondo il ranking di Taiwan basato solo sulla produzione scientifica qualificata (http://ranking.heeact.edu.tw/en-us/2010/Country/Italy); 136 secondo Shangai (http://www.arwu.org/ARWU2010_2.jsp); 235 secondo Times. La stessa variabilità di questi dati suggerisce una nota di cautela nella loro lettura, come viene fortemente sottolineato dalla Lega Europea delle Università ad alta intensità di Ricerca (LERU) che comprende, oltre a Milano, 20 Atenei europei quali Cambridge, Oxford, Lovanio (http://www.leru.org). La LERU sottolinea ad esempio come nessun ranking in realtà misuri la qualità del secondo prodotto degli Atenei, l’effettiva capacità formativa. Ma perché tanto interesse e tanti rankings?
Un libro pubblicato da poco* ci aiuta a capire il ruolo chiave dei ranking facendo luce sul contesto generale in cui si colloca questa “febbre”, relativamente recente, di classificare gli Atenei. Questi esercizi di valutazione delle Università si collocano all’interno di una vera e propria corsa all’oro: l’oro grigio, cioè i cervelli, come messo subito in evidenza dal titolo stesso del libro, “La grande corsa ai cervelli”.
Fin dalle origini dell’Università nel Medio Evo, gli studenti - chiamati non a caso “clerici vangantes” - sono sempre stati estremamente mobili: liberi di andare nell’Ateneo dove si crea e si trasmette meglio la conoscenza. Il libro di Ben Wildavsky dà numeri impressionanti: a metà del 1300 presso la neo-nata Università di Praga, ad esempio, su circa 4.000 studenti 2.000 erano stranieri.
Nulla di nuovo, dunque, se le stime attuali parlano di 3 milioni di ragazzi che studiano al di fuori del proprio paese. Negli ultimi 10 anni, il numero di studenti all’estero è aumentato del 57%. E chi tradizionalmente attira la quota più grande di questi studenti sono gli USA (22%), seguiti da Regno Unito e Australia.
Le grandi Università, in particolare quelle statunitensi, fanno la “parte del leone” nel reclutare ed attirare cervelli, e così sarà probabilmente per molto tempo; ma oggi sono molti i nuovi giocatori entrati in campo in questa partita ponendosi l’ambizioso obiettivo di creare università di ricerca capaci di competere in questo contesto. Singapore, ad esempio, piccolo stato-città paragonabile per dimensioni a Milano ed hinterland, intende reclutare 150mila studenti stranieri entro il 2015. La Cina, invece, che nel giro di 5 anni ha quadruplicato il proprio output di cervelli, nel 2009 ha investito 4,4 miliardi di dollari in un piccolo numero di Università selezionate, con il fine dichiarato di farle entrare nel gruppo dei migliori Atenei del mondo.
I ranking sono dunque uno dei terreni sui quali si svolge questa corsa all’oro grigio. Una corsa in cui le Università, pubbliche e private sono oggi affiancate anche dalle Università for profit nate negli Stati Uniti. E in cui, se è difficile scalare posizioni, è invece facile perdere terreno. Emblematico il caso degli USA, che detengono una leadership solida ma messa a dura prova a seguito delle restrizioni attuate dopo il crollo delle Torri Gemelle, episodio che ha mostrato chiaramente quanto possano essere negative le conseguenze di politiche di chiusura.
E quali armi utilizzano gli Atenei per vincere questa partita? Innanzitutto l’attrattività basata sulla tradizione e sulla ricerca scientifica. Una strategia nuova, poi, attuata da diverse Università statunitensi è il branching out: creare avamposti in luoghi chiave da dove poter “pescare” i cervelli (Cina, India). La terza strategia è investire in modo massiccio e focalizzato in alcuni Atenei, con l’obiettivo dichiarato di far fare loro il salto. Di qualità e di classifica.
I ranking sono dunque uno dei terreni su cui le Università e i Paesi competono per l’oro grigio del terzo millennio. Il nostro Paese partecipa a questa corsa in modo marginale, come emerge anche dal libro di Wildavski. Qualche dato. Nel contesto dell’istruzione terziaria, meno del 2% sono stranieri, contro una media OCSE di circa il 6%. La percentuale di ricercatori stranieri è di circa 1.5%, 8 volte inferiore a quella del Belgio. Per contro il Paese produce (ancora) cervelli fortemente competitivi. Ad esempio, nel programma di ricerca IDEAS di European Research Council, per la parte dedicata ai giovani, i cervelli italiani che vincono sono secondi, e di poco, solo ai tedeschi, ma il nostro Paese è fra i peggiori nell’attirare questi talenti (italiani e stranieri) a spendere la loro dote di ricerca qui. Tanti i motivi della poca attrattività, dagli scarsi finanziamenti ad un sistema opaco e scarsamente meritocratico. Fondamentale, dunque, che il nostro Paese decida di investire e di cambiare passo. In questo periodo ci sono stati segnali positivi: la distribuzione per la prima volta di una quota di fondi del finanziamento ordinario agli Atenei sulla base di parametri di valutazione; il taglio meritocratico, con enfasi sulla distribuzione delle risorse sulla base della valutazione, della riforma universitaria proposta dal Ministro Gelmini; la nascita dell’ANVUR, agenzia indipendente con il compito di valutare gli Atenei e lo stato della ricerca secondo un metodo condivisibile (search committee indipendente per l’organo direttivo). Tutti segnali positivi e premessa per partecipare seriamente alla “corsa all’oro grigio”, ma ancora lontani dal rappresentare un salto di qualità. In questo contesto suscita preoccupazione il rinvio della discussione della riforma e il conseguente possibile affossamento nella disattenzione generale.
Che cosa si può fare, allora, da subito? Fondamentale sarebbe togliere almeno lacci e lacciuoli per permettere agli Atenei e alle istituzioni di ricerca pubbliche e private di essere competitivi. Chi, come la Statale di Milano e l’Istituto Clinico Humanitas, ha fatto partire corsi di laurea internazionali con l’ambizione di competere nel contesto oggetto del libro di Wildavski, si è dovuta scontrare con difficoltà di sistema (ad esempio il test di ingresso in lingua italiana). Ancora, è essenziale prevedere un percorso dedicato di entrata (visti e permessi di soggiorno) che eviti procedure umilianti e inefficienti. In attesa di riforme di sistema e di investimenti adeguati, un appello affinché si tolga la zavorra che rende difficile alle istituzioni di formazione e ricerca competitive del nostro Paese di partecipare alla “grande corsa dei cervelli”.
Ben Wildavsky. The Great Brain Race. Ed. Princeton ($ 26.95)
Marino Regini. Malata e Denigrata. L'università italiana a confronto con l'Europa. Ed. Interventi Donzelli (14 Euro)