Sessant’anni fa, il 10 maggio 1950, il presidente Harry Truman firmava il National Science Foundation Act, la legge che dava vita all’agenzia federale che avrebbe dovuto coordinare e finanziare l’attività di ricerca di base e di formazione negli Stati Uniti d’America.
La firma giunge a conclusione di un lungo dibattito, iniziato già negli anni ’20, quando molti in America, compreso il futuro presidente Herbert Hoover, iniziarono a porsi tre domande. Come modificare la specializzazione produttiva del paese? Quale ruolo deve avere la scienza in questo cambiamento? Quale ruolo deve avere lo stato nella promozione della scienza e nel cambiamento della struttura economica del paese?
La discussione divenne accesa negli anni ’40 – in piena guerra – quando si scontrarono diverse posizioni. Da quelle tradizionalmente liberali:, secondo cui lo stato non deve entrare in alcun modo né nell’evoluzione economica del paese, lasciando che a sbrigarsela sia il mercato, né nel sistema di ricerca e formazione, perché ogni intervento del governo – come spiegava, tra gli altri, il premio Nobel Robert Millikan – avrebbe eroso il bene più prezioso della scienza e delle università: l’autonomia e il libero pensiero.
Questa posizione diventa rapidamente minoritaria, quando molti si rendono conto non solo che gli Stati Uniti assumeranno la leadership mondiale solo se cambieranno la struttura della propria economia e la fonderanno sulla conoscenza scientifica e lo sviluppo tecnologico, ma anche che il mercato da solo non è in grado di modificare la specializzazione produttiva di un paese e che, soprattutto, la scienza e l’alta formazione non avrebbero mai potuto diventare la base dello sviluppo senza un intervento dello stato significativo per risorse messe in campo e visione strategica.
Questa articolata consapevolezza è presente in molti uomini politici sia nel Congresso sia nell’entourage del Presidente, Franklin Delano Roosevelt. Nel Congresso il senatore Harley Kilgore, in piena guerra – tra il 1942 e il 1943 – propone una serie di atti legislativi che hanno l’obiettivo dichiarato di creare un vasto e stabile sistema nazionale di ricerca civile, diffuso in tutto il territorio della confederazione, e direttamente finanziato dal governo di Washington. L’idea di Kilgore è che a gestire questa politica debba essere un’istituzione scientifica – un’agenzia – che anche a guerra finita distribuisca una quantità importante di risorse a tutto il mondo delle scienze (comprese le scienze sociali) per ogni tipo di ricerca, di base e applicata, con una modalità che oggi definiremmo “a pioggia”.
Alla Casa Bianca il consigliere scientifico del Presidente, Vannevar Bush, matematico molto noto anche al grande pubblico, fa propria sia l’idea di fare della scienza, in particolare della scienza di base, la leva per lo sviluppo futuro del paese, sia l’idea di un’agenzia unica per finanziare la ricerca e l’alta formazione. Ma questa agenzia, la National Science Foundation, dovrà avere due caratteristiche diverse da quella immaginata da Kilgore: dovrà essere altamente selettiva, finanziando non tutto ma solo il meglio. E, inoltre, dovrà essere completamente autonoma: autogestita in toto dagli scienziati.
La terza posizione è quella espressa dal comitato istituito dal successore di Roosevelt, Harry Truman, e presieduta dal sociologo ed economista John R. Steelman. Gli Stati Uniti, sostiene il comitato in un documento del 1947, dovranno investire in ricerca e sviluppo tecnologico somme imponenti: almeno l’1% del Prodotto interno lordo. L’agenzia federale dovrà dispensare molti fondi, con particolare attenzione alla ricerca di base, secondo criteri di rigore e selettività. E dovrà indicare gli obiettivi strategici. Proprio per questo non potrà essere del tutto indipendente. Ma dovrà essere guidata da un presidente e da un consiglio nominati dal Presidente degli Stati Uniti.
Sarà quest’ultima posizione a prevalere, dopo una fiera lotta. Anche se, quando nascerà e, soprattutto, quando si svilupperà nel corso degli anni ’50, la National Science Foundation, non sarà l’unica agenzia federale a finanziare la ricerca. Quello che nasce è, piuttosto, una rete di agenzie (dai National Institutes of Health, che si occupano della ricerca medica, alla NASA, che si occupa dello spazio e della ricerca spaziale). Ma alla fine tre idee si concretizzano.
La ricerca scientifica (ivi inclusa la ricerca di base) e lo sviluppo tecnologico diventano la leva dell’economia americana e modificano la specializzazione produttiva del paese. È grazie all’intervento dello stato che il sistema scientifico e formativo americano si rimodella completamente, acquisendo la capacità di promuovere l’eccellenza e di attrarre cervelli dall’estero. Si trova il miglior equilibrio tra le esigenze di controllo e di indirizzo dello stato e l’autonomia della scienza.
Ecco perché ricostruire il dibattito che ha portato alla creazione della National Science Foundation (così come abbiamo fatto nel testo in allegato) non è un esercizio da lasciare solo agli storici, ma può essere utile a tutti, ancora oggi. Anche, e soprattutto, in Italia.
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Versione integrale
Il 10 maggio 1950, sessant’anni fa, il Congresso degli Stati Uniti d’America approva il National Science Foundation Act, la legge che istituisce l’agenzia federale che dovrà finanziare la ricerca di base negli Stati Uniti d’America.
È il frutto di un lungo e pubblico dibattito che risulta ancora oggi di grande interesse. Anche per l’Italia. Il dibattito inizia negli anni ’20 del secolo scorso, per rispondere a una a domanda. Perché il sistema produttivo degli Stati Uniti d’America è ancora debole rispetto a quello di alcuni paesi d’Europa?
Il Segretario al Commercio Herbert Hoover, un ingegnere minerario che sarà eletto presidente degli Stati Uniti nel 1928, sostiene che il sistema capitalistico americano è debole perché non si fonda sull’innovazione tecnologica e sulla ricerca scientifica. Il mercato e la libera attività delle imprese americane hanno finora fallito nel produrre un efficace sistema nazionale di ricerca e di innovazione tecnologica, perché è fuori dalla loro possibilità. Non riusciranno mai a costruirlo se non interviene il governo federale, con molti mezzi e una normativa conseguente. Il fatto è che tradizionalmente il governo federale degli Stati Uniti non interviene né nei fatti economici né nei fatti dell’educazione.
Non se ne fa nulla.
Arrivano il 1929, il crollo di Wall Street, il New Deal di Roosevelt. L’intervento dello stato in economia non è più un tabù. Ma i temi del cambiamento della specializzazione produttiva del sistema paese e del ruolo della scienza non riescono a imporsi. Sebbene non vengano affatto dimenticati. Tornano di stretta attualità quando ormai in Europa è scoppiata la guerra. Che, si pensa, prima o poi coinvolgerà gli Stati Uniti. Che devono attrezzarsi al meglio. Coinvolgendo anche il mondo delle università e della ricerca scientifica. In pratica sempre più scienziati iniziano a frequentare in maniera assidua non solo i politici, ma anche i militari e il mondo dell’industria.
In questo quadro il presidente Roosevelt affida a un matematico e ingegnere del MIT di Boston, Vannevar Bush, prima la presidenza del National Defense Research Committee (1940) e poi la direzione dell’Office of Scientific Research and Development (1941) con il compito di rendere fluidi ed efficaci i rapporti tra stato, mondo scientifico e imprese. La scelta si rivela felice. Bush non è solo un pioniere del calcolo informatizzato, capo della Carnegie Institution di Washington e con una popolarità, tra gli scienziati, seconda solo a quella di Albert Einstein: la rivista Time gli ha addirittura dedicato una copertina. Il matematico ha anche una spiccata attitudine per l’organizzazione e l’impresa. È quello che oggi chiameremmo un manager della ricerca. Sarà Vannevar Bush a coordinare il lavoro del Manhattan Project che, in gran segreto, mobiliterà 5.000 tra scienziati e ingegneri, un numero imprecisato di militari e quasi 500.000 tra tecnici e operai dell’industria e in appena tra anni – tra il 1942 e il 1945 – costruirà la bomba atomica.
Mentre si occupa della guerra, Vannevar Bush pensa anche alla pace di domani. E al ruolo che dovranno avere gli Stati Uniti nel nuovo ordine mondiale. Un ruolo di primaria importanza che dovrà fondarsi sulla scienza.
Vannevar Bush non è il solo a pensarlo. Tra i più determinati fautori della costruzione di una organica e importante politica federale di sviluppo scientifico degli Stati Uniti d’America c’è Harley Kilgore, un senatore del West Virginia che in piena guerra – tra il 1942 e il 1943 – propone una serie di atti legislativi che hanno l’obiettivo dichiarato di creare un vasto e stabile sistema nazionale di ricerca civile, diffuso in tutto il territorio della confederazione, e direttamente finanziato dal governo di Washington. L’idea di Kilgore è che a gestire questa politica debba essere un’istituzione scientifica – un’agenzia – che anche a guerra finita distribuisca una quantità importante di risorse a tutto il mondo delle scienze (comprese le scienze sociali) per ogni tipo di ricerca, di base e applicata, con una modalità che oggi definiremmo “a pioggia”.
Le proposte di Kilgore sono originali e pubbliche: gli scienziati americani iniziano a drizzare le orecchie. L’idea risuona anche nella mente di Vannevar Bush.
Come Kilgore, Bush è convinto che per lo sviluppo economico e civile del paese, oltre che per la sua sicurezza militare, sia assolutamente necessario creare un sistema nazionale di ricerca civile direttamente finanziato dal governo federale e gestito centralmente da un’unica agenzia. Il consigliere di Roosevelt, tuttavia, non è affatto in accordo col senatore Kilgore sull’organizzazione del sistema e sulle modalità della spesa.
Bush vuole che sia il governo federale e non il Congresso a dare la linea su questo argomento, che considera decisivo per il futuro degli Stati Uniti. E convince il capo dell’Amministrazione a intervenire ufficialmente nella questione.
L’intervento di Franklin D. Roosevelt assume la forma di una lettera inviata il 17 novembre 1944 allo stesso Bush, in cui il Presidente degli Stati Uniti, con quattro diversi quesiti, pone al suo consigliere non il problema del se, ma il problema del come il governo federale debba aiutare lo sviluppo della scienza a guerra finita.
Un atteggiamento davvero degno di nota. Perché Vannevar Bush, lo stesso Roosevelt, Kilgore e molti altri considerano ormai superati due temi fino a qualche anno prima niente affatto scontati. È a loro ben chiaro che la crescita dell’economia e del benessere sociale, oltre che la sicurezza militare, richiedono che gli Stati Uniti puntino sulla ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica. Ed è anche chiaro a Bush, a Roosevelt e allo stesso Kilgore che, per sviluppare il settore della ricerca, è necessario un intervento diretto e importante del governo federale.
La questione aperta, dunque, è come debba intervenire la mano pubblica. Si tratta, in pratica, di stabilire le linee guida della nuova politica scientifica del governo federale degli Stati Uniti d’America per i prossimi anni e, forse, decenni. È dunque con questa prospettiva, per così dire, fondazionale che Vannevar Bush nomina una commissione con l’incarico di rispondere, sotto la sua direzione, alle domande del presidente Roosevelt, che egli stesso ha indotto.
La commissione lavora alcuni mesi e il 25 luglio 1945 Vannevar Bush può rendere pubblico il suo rapporto: Science: The Endless Frontier. Contiene un’altra indicazione niente affatto scontata: la scienza accademica, di base, non necessariamente vicina alla immediata applicazione, ha un valore strategico. È la scienza di base che può e deve aiutare gli Stati Uniti a migliorare non solo la sicurezza militare, ma anche ad aumentare il benessere economico e la salute dei suoi cittadini. Per fare questo occorre creare un’unica agenzia federale che finanzi non ogni e qualsiasi tipo di ricerca, ma soltanto la migliore «ricerca di base nei colleges, nelle università e negli istituti di ricerca, sia in medicina che nelle scienze naturali».
Vannevar Bush è consigliere del democratico Roosevelt, ma è in buona sostanza un conservatore: convinto che non ci sia motore migliore per sviluppare la ricchezza della nazione che il laissez-faire. Sa, tuttavia, che le risorse dei privati non sono adeguate per creare un sistema fondato sulla scienza accademica. Un consapevolezza ormai abbastanza diffusa. Ben espressa, proprio in quei mesi, da un ufficiale della Marina: «Lo sviluppo della scienza ora richiede più ricerca di quanto le imprese private possano sopportare. Le università non possono più dipendere come nei giorni precedenti la guerra da generose donazioni. I loro staff sono inadeguati. L’industria sta finanziando sempre più la ricerca, ma i laboratori industriali saranno sempre concentrati sullo sviluppo (come io lo definisco), perché il primo compito dell’industria sarà sempre quello di produrre. Gli strumenti della ricerca stanno diventando sempre più costosi. Il governo deve dunque provvedere all’aiuto pubblico se è in gioco l’interesse nazionale, anche se il suo sostegno non deve degenerare in dominio».
Vannevar Bush condivide in pieno questa analisi. Così suggerisce che il grande passo: sia lo stato a creare il sistema nazionale di ricerca fondato sulla scienza di base. Ma intervenendo il meno possibile sul lavoro degli uomini di scienza.
L’agenzia che immagina Vannevar Bush è finanziata con soldi pubblici ma è diretta in piena libertà dagli scienziati, in modo che l’allocazione dei fondi sia indirizzata solo verso i centri e i gruppi di assoluta eccellenza, sulla base del puro merito e dei soli interessi scientifici, senza tenere in conto la loro distribuzione geografica. In pratica Bush delinea una politica di governo che riconosca non solo il valore strategico della ricerca scientifica di base, ma che ne rispetti l’integrale autonomia. La politica non deve interferire con le sue logiche nello sviluppo della scienza.
Quando il rapporto viene pubblicato, il 25 luglio 1945, Franklin D. Roosevelt è già morto (il 12 aprile 1945) e, dunque, da tre mesi gli Stati Uniti hanno un nuovo presidente, nella persona di Harry S. Truman.
Truman è stato il vice di Roosevelt, ma nonostante questo fino a metà aprile del ‘45 non è mai stato a conoscenza del Manhattan Project. Non ha avuto modo, quindi, di apprezzare tutto il contributo dato dagli scienziati accademici alla sicurezza degli Stati Uniti. E, in ogni caso, non è lui che ha eletto Vannevar Bush a suo consigliere. Non è affatto scontato, quindi, che il rapporto Science: The Endless Frontier diventi la fonte di ispirazione della politica scientifica della nuova Amministrazione. E, infatti, non lo diventa.
È forse per questo che nel medesimo giorno in cui rende pubblico il suo rapporto, Vannevar Bush ribalti la sua posizione rispetto al Congresso e prende contatti con il senatore democratico Warren Magnuson affinché proponga una legge che ne esprima le idee di fondo e vincoli la politica del nuovo Presidente.
La mossa contiene in sé un difetto e un pregio. Il difetto è che il progetto di Vannevar Bush ha ora un nemico sicuro, il senatore Kilgore, e un nemico molto probabile, il presidente Truman. Il pregio è che nasce un dibattito pubblico, che coinvolge il Congresso, la comunità scientifica e l’intera popolazione, intorno al valore strategico della scienza e alla definizione di una politica scientifica importante. È la prima volta che succede negli Stati Uniti e, probabilmente, al mondo.
Il dibattito si sviluppa intorno a diverse questioni, come: il valore strategico della scienza, la proprietà dei brevetti, la distribuzione geografica dei fondi, l’inclusione o l’esclusione dai programmi di finanziamento delle scienze sociali, il rapporto tra scienza di base e applicata e – ultimo, ma certo non ultimo – il controllo amministrativo dell’agenzia che dovrà realizzare la politica scientifica del governo federale.
Venti giorni o poco più dopo la pubblicazione di Science: The Endless Frontier e l’incontro tra Vannevar Bush e Warren Magnuson, le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki sperimentano quanto concreti possano essere gli effetti del lavoro degli scienziati accademici. Negli Stati Uniti la consapevolezza pubblica di questa potenza raggiunge l’apice.
Per estremo paradosso nei mesi successivi proprio il protagonista della nuova immagine degli scienziati e della loro attività cade in disgrazia. Vannevar Bush non perde solo il suo ruolo di consigliere del Presidente. Perde anche la sua battaglia per l’integrale autonomia della scienza.
Questi, in estrema sintesi, i fatti.
Dopo due anni di accese discussioni, nel 1947 il Congresso trova finalmente i necessari compromessi tra la visione di Kilgore e la visione di Magnuson/Bush sul come organizzare la politica federale della ricerca scientifica e crea le premesse per la nascita dell’agenzia che dovrà gestirla: la National Science Foundation. Conviene ripeterlo: mai, in nessuna fase del dibattito, viene messo in discussione se organizzare e ben remunerare una politica federale per la ricerca, se non a opera di alcuni scienziati accademici. In ogni caso, lo scontro principale si consuma sul chi: ovvero sulla questione, decisiva, del controllo di questa politica.
Il tema del potere nella nuova stagione che si apre nei rapporti tra scienza e società è ben presente in ogni ciascuna fase del dibattito. Il Congresso vota infatti una legge, il National Science Foundation Act, che, come propone Vannevar Bush, affida il controllo amministrativo della nuova agenzia a un consiglio indipendente composto essenzialmente da scienziati che eleggono un direttore che non risponde ad alcuno, se non al consiglio stesso. Ma la votazione è piuttosto contrastata. Il Congresso discute e infine rigetta la proposta alternativa di Harley Kilgore: la nuova agenzia sia guidata da un direttore nominato dal Presidente degli Stati Uniti. E lo fa dopo un’intensa discussione di un mese e dopo che la speciale commissione parlamentare ha ascoltato scienziati, come Frank Jewett e Robert Millikan, fieramente contrari a ogni intrusione dello Stato nella repubblica autonoma della scienza.
Quella che si consuma nel parlamento bicamerale del paese che ha assunto e intende rafforzare la leadership del mondo è il trionfo di un vero e proprio modello di rapporti tra scienza e politica, un modello che lo storico George T. Mazuzan definisce elitario: la ricerca d’eccellenza deve essere diretta in totale indipendenza da coloro che la conoscono meglio, gli scienziati.
In realtà, più che elitario il modello voluto da Bush e votato dal Congresso è la semplice trasposizione su scala nazionale di ciò che si verifica da decenni negli istituti accademici di ricerca: dove gli scienziati autogestiscono il proprio lavoro e le proprie (limitate) risorse, mentre lo stato si comporta come un mecenate, più o meno generoso, ma piuttosto distaccato.
Vannevar Bush non comprende che, cambiando la scala delle risorse in gioco e il luogo ove si prendono le decisioni scientifiche rilevanti (non più la comunità scientifica, ma la società nel suo complesso pur nella sua articolazione democratica), il modello non regge.
Non comprende che in sede civile vale quello che è già successo a Los Alamos: nella collaborazione strategica tra scienziati e militari l’ultima parola non ce l’ha la direzione scientifica, che risponde solo alla comunità scientifica (Robert Oppenheimer), ma la direzione militare (Leslie Groves), che risponde al Presidente eletto degli Stati Uniti d’America.
E, infatti, il 6 agosto 1947 il Presidente degli Stati Uniti d’America, Harry S. Truman, pone il veto al National Science Foundation Act. Motivandolo col fatto che un’agenzia governata in maniera del tutto indipendente dalla comunità scientifica si separa dal controllo del popolo creando una crepa nel processo democratico.
Se la scienza assume un ruolo strategico nello sviluppo economico, militare e civile di un’intera società, e la società le conferisce ampio spazio e ampie risorse, insomma se si riscrivono su basi nuove i rapporti tra scienza e società, risulta velleitaria la pretesa di totale indipendenza da parte della comunità scientifica. Se la scienza diventa un’attività con una forte proiezione sociale, deve rinunciare alle mura protettive dell’antica torre d’avorio e deve mettersi in gioco. Deve accettare che le decisioni rilevanti sulle sue stesse modalità la politica della scienza siano prese in compartecipazione con gruppi di non esperti. Deve accettare che l’ultima parola spetti alla politica.
Il discorso di Truman può apparire brutale, ma in definitiva coglie fin dall’inizio la novità nel rapporto tra scienza e società nell’era in cui la scienza assume un valore strategico per la società. La «torre d’avorio», ovvero la separazione di fatto tra scienza e società, non è più possibile e occorre trovare un nuovo punto di equilibrio.
E la soluzione proposta da Bush non è il miglior punto d’equilibrio, anche se fatta propria dal Congresso.
Science: The Endless Frontier, il celebre rapporto dell’esperto e illuminato consigliere di Roosevelt, poggia, come scrive William A. Blanpied, su un assunto piuttosto ingenuo: che un’agenzia governativa che deve finanziare la ricerca pubblica possa operare in regime «di virtuale isolamento dai normali processi politici». È un assunzione che non solo Truman, ma neppure il Bureau of the Budget (BoB) del Dipartimento del Tesoro e addirittura neanche alcuni influenti scienziati possono accettare.
Harold Smith, il presidente del Bureau of the Budget, si oppone all’idea che un’agenzia federale, quindi pubblica, possa consentire agli scienziati di decidere in totale indipendenza come spendere soldi pubblici: un ente federale che deve spendere soldi pubblici in un grande programma nazionale – sostiene l’alto funzionario in un’audizione al Congresso – non può che essere parte integrante dell’architettura di governo. Sbaglierebbe quel Presidente che dovesse delegare parte dei suoi poteri costituzionali a dei privati cittadini.
Ma non sono solo i funzionari di governo a reagire al modello Bush. La posizione di alcuni influenti scienziati non è meno netta. Anzi, da parte di alcuni c’è addirittura un rifiuto. Per esempio: il presidente uscente del California Institute of Technology (Caltech), il premio Nobel Robert Millikan, sostiene, né più e né meno, che in tempo di pace gli investimenti dello stato nella ricerca scientifica non sono che una forma di “collettivismo”. Persino un sostenitore di Bush, come Frank Jewett – a capo dei Bell Laboratories, oltre che presidente part-time della National Academy of Science – sostiene che, ove mai un’agenzia di stato per la ricerca dovesse nascere, i fondi che assegnerebbe costituirebbero una seria limitazione dell’autonomia della scienza e favorirebbero una deprecabile commistione tra ricerca civile e ricerca militare.
Non sono davvero pochi gli scienziati accademici che si dicono d’accordo con Frank Jewett o addirittura con Robert Millikan: d’altra parte molti intuiscono che la costituzione di una simile agenzia è destinata a modificare in maniera radicale il rapporto tra scienza e stato. E, quindi, il consolidato modo di lavorare degli scienziati.
Quanto a Truman, egli è tutt’altro che uno zelante nemico dello sviluppo della scienza. Ha invece idee precise e documentate sia sul ruolo della ricerca in una società moderna sia su chi debba decidere dello sviluppo del paese attraverso la scienza.
E, infatti, nell’ottobre 1946, prima dunque di giungere al clamoroso veto al National Science Foundation Act, nomina un qualificato comitato consultivo, il President's Scientific Research Board (PSRB), col mandato di studiare il sistema di ricerca degli Stati Uniti e proporne la riforma. Il comitato è presieduto dal sociologo ed economista John R. Steelman – il primo consigliere della Casa Bianca a potersi fregiare, per volontà dello stesso Truman, del titolo di Assistant to the President – e costituito dai rappresentanti dei diversi Dipartimenti dell’Amministrazione che finanziano la ricerca scientifica, nonché dai rappresentanti del National Advisory Committee on Aeronautics (il precursore della NASA), dell’Atomic Energy Committee, del Tennessee Valley Authority, della Veterans Administration e dello stesso Office of Scientific Research and Development (OSRD) di Vannevar Bush.
Il PSRB lavora in maniera celere e, il 27 agosto 1947, solo 21 giorni dopo il clamoroso veto, consegna al Presidente un rapporto in quattro volumi sullo stato della scienza nel paese e sul suo futuro ruolo. Il solo sommario, fitto di analisi e di raccomandazioni, è lungo 68 pagine ed è significativamente intitolato A Program for the Nation: un programma per la nazione. Un programma che ripropone la scienza come scelta strategica per gli Stati Uniti d’America e pianifica le azioni di governo per i prossimi 10 anni. Con un obiettivo: creare un sistema razionale di politica della scienza che consenta al governo federale sia di sviluppare un proprio programma di ricerca sia di coordinare lo sviluppo della scienza e della tecnologia nel paese, armonizzando i suoi progetti con quelli dei singoli stati, delle università e delle industrie private.
A Program for the Nation di Steelman è un rapporto molto diverso da Science: The Endless Frontier di Bush. Fonda la sua analisi su dati molto accurati: non è un manifesto politico, ma un’analisi tecnica. Si pone il problema della ricostruzione dell’economia in un paese che non è più in guerra, ma si accinge a governare il nuovo ordine mondiale in tempo di pace. E soprattutto ha ben presente qual è la posta in gioco. Il rapporto prevede infatti che entro il 1957 gli investimenti in ricerca e sviluppo raggiungano l’1% del prodotto interno lordo degli Stati Uniti – circa 2 miliardi di dollari di allora – e diventino concretamente uno dei fattori macroeconomici dello sviluppo del paese.
Steelman e la sua commissione sono convinti che la ricerca di base deve avere un ruolo da protagonista assoluta. E, infatti, il PSRB propone che la scienza fondamentale possa disporre di molti più fondi di quanto non preveda lo stesso Vannevar Bush. Il consigliere di Roosevelt aveva infatti auspicato che il budget della National Science Foundation salisse, nel giro dei primi 5 anni dopo la fondazione dell’agenzia federale, ad almeno 122,5 milioni di dollari. Il rapporto Steelman prevede che per la sola ricerca di base gli investimenti già dal primo anno della NSF ammontino a 50 milioni di dollari e raggiungano, entro il 1957, i 250 milioni di dollari.
A regime, sostiene il rapporto, i fondi per la ricerca di base devono rappresentare il 20% degli investimenti totali in R&S. Un altro 14% deve andare alla ricerca medica, il 44% allo sviluppo tecnologico di interesse non militare e il restante 22% allo sviluppo tecnologico di interesse militare.
Da un punto di vista politico, il rapporto Steelman – facendo storcere la bocca a molti liberisti – attribuisce al governo federale una funzione politica alta e attiva, non solo di indirizzo, coordinamento e di guida, ma anche di diretto protagonismo, nella migliore tradizione rooseveltiana. E dunque deve prevedere in ciascuna sua fase la guida del Presidente.
Secondo William A. Blanpied il rapporto Steelman contiene anche qualcos’altro di importante che nel rapporto Bush non c’è: la consapevolezza della dimensione internazionale dell’impresa scientifica. Steelman è convinto che la ricerca sia la nuova frontiera per tutti i paesi del mondo e che la cooperazione internazionale nello sviluppo della scienza sia un vantaggio per tutti. Per questo A Program for the Nation prevede che gli Stati Uniti aiutino la ricostruzione e lo sviluppo della ricerca scientifica in Europa e in Asia. E che gli aiuti alla R&S diventino parte non secondaria del piano Marshall per la ricostruzione nei paesi alleati.
Truman fa sostanzialmente proprio il rapporto Steelman. In un discorso tenuto il 13 settembre 1948, inaugurando i festeggiamenti per il centenario della fondazione dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS), il Presidente delinea la sua politica della ricerca in cinque punti: ruolo primario della ricerca di base e della ricerca medica; creazione della National Science Foundation; sostegni alle università sia per la formazione che per la ricerca; maggiore coordinamento e migliore finanziamento della ricerca da parte delle agenzie federali. Ma soprattutto raddoppio dei fondi che il paese nel suo complesso destina alla ricerca. Gli Usa devono investire almeno l’1% della loro ricchezza nello sviluppo della scienza e della tecnologia. Significa raddoppiare la spesa. Con un prodotto interno lordo che ha ormai raggiunto i 200 miliardi di dollari, sostiene Truman, dobbiamo investire almeno 2 miliardi di dollari. Mentre oggi la spesa non supera il miliardo di dollari.
Il Presidente che ha posto il suo veto al National Science Foundation Act non è dunque un nemico della scienza consigliato da nemici della scienza. Al contrario, non ha dubbi sul ruolo decisivo che la scienza avrà nel futuro degli Stati Uniti. Per questo intende assumerne in prima persona il governo.
Malgrado a livello di Amministrazione il dibattito intorno al ruolo della scienza sia molto avanzato, i primi anni dopo la guerra non sono nel complesso il momento politico più adatto per realizzare quelle idee. Il democratico Truman guida sì il paese, ma con una maggioranza repubblicana al Congresso. Una maggioranza che guarda con sospetto alle pianificazione e all’interventismo dello statale dell’era Roosevelt. Cosicché anche l’idea di che si realizzi un programma scientifico di lungo periodo – almeno dieci anni – e diretto da Washington è guardata con aperta ostilità.
In definitiva, la National Science Foundation potrà nascere, ma solo il 10 maggio 1950. Naturalmente, il consiglio e il presidente dell’agenzia che deve organizzare la politica di sviluppo delle scienze sono nominati dal presidente eletto degli Stati Uniti d’America.
Il progetto di Vannevar Bush è dunque stato sconfitto. Il suo modello elitario o, se si vuole, accademico ha perso il braccio di ferro con la politica. Nella nuova era, che il fisico John Ziman ha definito post-accademica, della scienza le decisioni rilevanti per lo sviluppo della scienza non sono prese solo dalla comunità scientifica, ma in compartecipazione con l’intera società, attraverso le sue articolazione democratiche.
Tuttavia sarebbe sbagliato ritenere che il passaggio dalla scienza accademica alla scienza post-accademica si consumi interamente o anche per la maggior parte nella vicenda, sia pure emblematica, della National Science Foundation. La transizione, anche nei soli Stati Uniti, è molto più ricca, articolata e complessa.
In primo luogo perché, come abbiamo detto, Truman dimostra di non voler cambiare cavallo, ma solo di volerlo guidare. Sebbene il rapporto Steelman abbia scarsa eco nel paese, il Presidente lo fa proprio. Stenta ad avviarne l’applicazione non solo a causa della maggioranza repubblicana al Congresso ma anche perché, come scrive William A. Blanpied, il paese è distratto da altri problemi impellenti: le mosse dell’Unione Sovietica in Europa e il controllo degli armamenti.
La risposta Usa al primo problema darà luogo al Piano Marshall e la risposta al secondo problema porta alla creazione dell’Atomic Energy Commission (AEC), la commissione civile che coordinerà la ricerca e lo sviluppo in campo nucleare.
Il che rende immediatamente evidente che il progetto di Vannevar Bush sarà superato in un altro punto decisivo: non c’è e non potrà esserci un solo ed esclusivo luogo di decisione sulla politica della scienza, ma una costellazione di luoghi di decisione, ciascuno con la sua fisionomia, il proprio equilibrio e il suo peso nel paese. Insomma quando nasce, la National Science Foundation si accorge di non essere affatto sola. Di non essere l’unica dispensatrice di fondi alla ricerca accademica e neppure il king-maker della politica scientifica americana.
Già all’epoca del veto di Truman, nel 1947, negli Stati Uniti iniziano cospicui i finanziamenti federali alla ricerca di base attraverso altre agenzie governative. In primo luogo da parte dei militari: nel mese di dicembre 1947, infatti, i Dipartimenti della Guerra e della Marina danno vita in maniera congiunta all’Office of Scientific Research and Development. Ma, in realtà, ciascun arma – l’esercito, l’aviazione e la marina – inizia a sviluppare un imponente programma di ricerca scientifica, ivi inclusi un imponente programma di ricerca di base.
Il Segretario alla Marina, in particolare, organizza già a partire dal maggio 1945, pochi giorni dopo la resa della Germania e la vittoria in Europa, un ufficio per la ricerca nel suo Dipartimento, che porterà 15 mesi dopo, il primo agosto 1946, all’approvazione da parte del Congresso della legge che crea l’Office of Naval Research (ONR): una struttura che deve incoraggiare e finanziare non solo la ricerca di interesse militare immediato, ma lo sviluppo di tutte le scienze – medicina inclusa – in ogni parte del paese. E che, pertanto, è destinata a svolgere un ruolo di primo piano nello sviluppo della scienza accademica americana, sia perché la direzione dei programmi scientifici viene affidata a uno scienziato civile (con la carica di vice amministratore), sia perché sarà una delle principali fonti di finanziamento per la ricerca di base: tanto che già nel 1946 può finanziare con 22 milioni di dollari ben 200 contratti di ricerca per complessivi 400 progetti che si sviluppano soprattutto nei settori del nucleare, dei materiali conduttori a bassa temperatura, della diffusione delle onde radio, delle scienze del mare, dei motori a reazione e di una disciplina che è appena nata e muove i suoi primi passi: l’informatica. Nel 1948, un giornalista inviato al meeting dell’American Physical Society, si sorprende – e sorprende I suoi lettori – scoprendo che l’80% dei lavori presentati sono finanziati dall’Office of Naval Research. Nel tempo questa capacità dell’ONR si consolida. E oggi l’Office of Naval Research può a buon diritto vantarsi di aver finanziato i programmi di ricerca di oltre un centinaio di premi Nobel.
La politica scientifica dell’Office of Naval Research è molto rigorosa e diventa addirittura un modello per le altre agenzie scientifiche federali: l’ONR non solo consente la pubblicazione sulle normali riviste dei risultati scientifici ottenuti coi programmi che sovvenziona, ma affida a eminenti scienziati sia la valutazione ex ante dei progetti da finanziare sia la valutazione ex post dei risultati ottenuti. Un sistema per l’assegnazione dei grants che sarà utilizzato dalla stessa National Science Foundation.
Il rigoroso rispetto dell’autonomia della scienza da parte delle US Navy si riflette nelle parole che il Capitano Conrad, direttore della Divisione pianificazione dell’ONR, pronuncia il 27 ottobre 1946 alla University of Illinois di Urbana: «Da ciò che ho detto dovrebbe risultare chiaro che è contraddittorio parlare di direzione e di controllo della ricerca. Non possiamo costruire una mappa di una regione inesplorata. È appropriato e necessario pianificare lo sviluppo del lavoro, ma un ricercatore deve seguire solo le sue spinte più interne. La direzione da parte di un’autorità esterna indebolisce l’oggetto stesso, perché né il percorso né l’obiettivo del lavoro di ricerca possono essere previsti».
Le parole del capitano Conrad sono utili a capire come il sistema di ricerca pubblico degli Stati Uniti riesca a trovare un equilibrio efficiente tra il primato della politica e l’autonomia della scienza nel nuova era dei rapporti tra ricerca e società.
Nel gennaio 1947 nasce un altro organismo federale, l’Atomic Energy Commission (AEC). L’AEC non solo assume sotto di sé il controllo di tutte le strutture del Progetto Manhattan, ma diventa una vera e propria agenzia governativa per la scienza, anche se concentrata soprattutto nel supporto alla fisica fondamentale. Di fatto, la ricerca scientifica di base di interesse militare passa sotto il controllo del riorganizzato Department of Defense.
Subito dopo la guerra l’Office of Naval Research e l’Atomic Energy Commission iniziano così a finanziare il lavoro degli scienziati nelle università in una maniera cospicua, molto più di quanto non avvenisse prima della guerra. E non sono le sole. Ci sono altre agenzie federali che svolgono attività analoghe. La ricerca medica pubblica, per esempio, va organizzandosi sempre più intorno ai National Institutes of Health. A partire dal 1948 è proprio questa agenzia che coordinerà quella ricerca in ambito biomedico che, secondo Bush, doveva essere una delle gambe della National Science Foundation. Più tardi nascerà l’agenzia che si occuperà della scienza e della tecnologia spaziale, la NASA. Mentre il Congresso degli Stati Uniti organizzerà potenti commissioni e centri di valutazione che non lasciano al solo governo la direzione della politica federale della ricerca.
Quando dunque nel 1950 nasce la National Science Foundation, negli Stati Uniti esiste già un esteso network di agenzie governative che finanziano la ricerca di base. Nei primi cinque anni successivi alla guerra il rapporto tra stato federale e comunità scientifica è dunque radicalmente mutato. E la NSF non può assolvere a quel ruolo monocratico che aveva immaginato per lei Vannevar Bush: di unica agenzia federale deputata allo sviluppo della ricerca scientifica.
In ogni caso, Truman firma l’atto di nascita della National Science Foundation il 10 maggio 1950. Lo statuto prevede un Direttore e 24 membri part-time del National Science Board: tutti nominate dal Presidente degli Stati Uniti. Il suo compito precipuo è sostenere la ricerca di base e la formazione in matematica, fisica, medicina, biologia, ingegneria e altre scienze, sia sostenendo direttamente progetti scientifici sia valutando i programmi di ricerca scientifica finanziati dalle altre agenzie governative.
Ma ancora una volta Truman è distratto da altre vicende. In questo caso dalla guerra di Corea, che inizia il 25 giugno 1950 quando le truppe comuniste attraversano del 38° parallelo e il confine tra due mondi. Solo a fine anno il Presidente trova il modo di nominare per intero il Board e solo nel marzo 1951 sceglie il Direttore, nella persona di Alan T. Waterman, fisico dell’università di Yale e direttore scientifico dell’Office of Naval Research.
Waterman, che guiderà la National Science Foundation per due mandati di sei anni, dunque fino al 1963, porta alla nuova agenzia gran parte del suo staff all’Office of Naval Research, compresi il suo vice, il consigliere generale, il capo del personale scientifico e il direttore della divisione di biologia. L’unico dirigente importante che non viene dalla Marina è il direttore della divisione di scienze matematiche, fisiche e ingegneristiche.
Anche se non farà mai partire la divisione medica (questa ricerca è ormai appannaggio degli NIH), Waterman non vuole che la National Science Foundation limiti i suoi interessi alle scienze fisiche. Pensa che l’agenzia federale debba essere anche spazialmente vicina alle grandi organizzazione private, come la National Academy of Sciences and il suo National Research Council. E insiste perché la NSF porti effettivamente a termine il suo missione, sia finanziando la ricerca di base e la formazione, sia stringendo forti legami con le università.
Una politica niente affatto scontata. Che ancora non trova l’approvazione di molti scienziati. E che, nei primi mesi, non trova neppure adeguate coperture. Bush aveva immaginato che nel suo primo anno di attività l’agenzia potesse contare su un budget di 33,5 milioni di dollari. Steelman aveva proposto addirittura 50 milioni di dollari. La legge fondativa assegna alla National Science Foundation un budget annuo di appena 15 milioni di dollari. Ma per l’anno fiscale 1951 il Congresso riesce a concedere solo i soldi necessari ad avviare le prime pratiche amministrative, mentre per il primo budget reale, relativo all’anno fiscale 1952, Waterman si vede assegnare non più di 3,5 milioni di dollari: appena un decimo rispetto a quanto ipotizzato da Bush, appena un quinto rispetto a quanto prevede la legge.
In ogni caso un’inezia. È vero che è in corso la guerra di Corea e il Congresso non assegna alla scienza il ruolo e quindi la copertura finanziaria immaginati da Bush e da Steelman. Ma è anche vero che il governo federale, ormai, investe complessivamente in ricerca non militare oltre 600 milioni di dollari: cui bisogna aggiungere gli oltre 1,3 miliardi di dollari investiti per la ricerca di interesse militare.
Insomma, la neonata NSF si trova a gestire meno dello 0,2% degli investimenti federali in ricerca. Perché? I motivi sono vari.
In primo luogo c’è il fatto, non previsto né da Bush né da Steelman, che la guerra fredda – di cui la guerra di Corea è un’appendice calda – tende a consolidare il rapporto tra stato e scienza intorno alla dimensione militare.
La guerra guerreggiata in Asia richiede grandi investimenti. Mentre la dottrina nucleare della «rappresaglia massiccia» varata dal Segretario di Stato John Foster Dulles chiede uno sforzo senza precedenti per l’ambizioso progetto tecnologico di sviluppo dei bombardieri B-52 e dei missili balistici intercontinentali. Mentre istituisce la NSF, Truman chiede e ottiene dal Congresso che per il 1951 il budget per la Difesa salga da 13 a 48 miliardi di dollari e che per l’anno fiscale 1952 cresca ancora, fino a raggiungere i 60 miliardi di dollari. Una quota parte di questa astronomica cifra, pari a 1,3 miliardi di dollari, servirà a finanziare la ricerca scientifica di interesse militare. Il Congresso approva. Con il plauso degli economisti keynesiani, convinti che le nuove conoscenze prodotte coi fondi dello stato avranno una ricaduta positiva anche sull’industria civile.
La Guerra di Corea e, più in generale, la competizione fredda con l’Unione Sovietica fanno svanire una speranza a lungo coltivata da Vannevar Bush e da tanti scienziati accademici reduci del Progetto Manhattan: che il rapporto tra scienza e militare potesse essere limitato a un contesto ben definito e non troppo esteso. Dalla guerra fredda, invece, il rapporto tra scienza e militare negli Stati Uniti si consolida e qualcuno parla di vero e proprio matrimonio.
Ma la guerra non è l’unico fattore che frena la partenza della National Science Foundation. Ci sono ancora conflitti di attribuzione di ruoli e risorse. Non ultimo, lo scontro che si consuma tra Waterman e il Bureau of the Budget del Dipartimento del Tesoro sulla missione stessa dell’agenzia. Il Bureau of the Budget vorrebbe che la NSF si accollasse soprattutto il compito della valutazione dei programmi scientifici finanziati dal governo federale, visto che la legge gli assegna anche un ruolo di coordinamento. Waterman vuole invece evitare che la funzione di valutazione schiacci la giovane NSF in una dimensione burocratica. Lui pensa a ben altre attività. Per esempio a come sostenere lo sviluppo della nascente “Big Science”: a iniziare da quei nuovi centri di astronomia, radio e ottica, e da quei nuovi centri di ricerca sull’atmosfera che hanno bisogno di strutture così costose che solo il governo federale può finanziare.
Quello che Waterman e il suo consiglio scientifico vogliono è un’agenzia che sia protagonista della politica della ricerca, con una linea guida precisa: promuovere il merito scientifico e l’eccellenza assoluta. Come va sostenendo James B. Conant, il primo presidente del comitato scientifico: «Nello sviluppo delle scienze e delle sue applicazioni non c’è possibilità di sostituire gli uomini di prima classe. Uno scienziato di seconda scelta non può fare il lavoro di uno scienziato di prima classe». Alla lunga Waterman e il suo consiglio scientifico, guidato da James B. Conant, affermeranno la loro linea. Ma intanto sono costretti a mordere il freno.
Tanto più che sulla strada di questi loro progetti si profila un nuovo ostacolo: Joseph McCarthy. Il senatore ha iniziato la sua caccia alle streghe e non risparmia certo il mondo della ricerca. Tra i primi scienziati a subirne le conseguenze, nel 1954, c’è addirittura Robert J. Oppenheimer, l’uomo che ha avuto la direzione scientifica del Progetto Manhattan.
Il senatore McCarthy pretende che una speciale commissione di sicurezza dica l’ultima parola sull’assegnazione dei grants del governo federale, con un’attenta selezione degli assegnatari. La pretesa riguarda, naturalmente, anche la nuova agenzia per la ricerca. Waterman al contrario vuole mantenere il principio e la prassi che i progetti presentati alla NSF siano valutati solo e unicamente per il loro merito scientifico, non per le posizioni del loro destinatari. Lo scontro sembra inevitabile. E il vincitore scontato. Waterman, tuttavia, facendo uso di grande prudenza riesce a traghettare la National Science Foundation fuori dai gorghi del maccartismo e a difenderne l’autonomia. Con un’unica concessione, dai minimi effetti pratici: l’agenzia non potrà finanziare i progetti di membri iscritti al partito comunista.
L’efficace difesa della NSF dall’eccessiva invadenza della politica tornerà utile al Presidente Dwight Eisenhower per riorientare la politica federale dopo la bufera innescata dal senatore del Wisconsin. E diventerà tanto più preziosa dopo il 1957, quando non solo le fortune della NSF, ma anche il rapporto tra stato e ricerca scientifica negli Stati Uniti subiranno una nuova, poderosa e definitiva accelerazione. Intanto, però, contribuisce a dilatare i tempi di avvio dell’agenzia. Sono passati ormai dieci anni dal rapporto di Vannevar Bush e l’agenzia che lui aveva vagheggiato non è ancora nel pieno della sua attività. La National Science Foundation stenta ad affermare la sua funzione, ma il decennio non è passato invano. Anzi, come rileva David Hart, in questi dieci anni il sistema d’innovazione degli Stati Uniti d’America ha definitivamente mutato aspetto. È diventato grande, istituzionalmente complesso, diversificato nei suoi obiettivi. Il governo federale è presente e attivo. Senza l’intervento diretto dello stato non sarebbe stato possibile finanziare né la “Big Science” degli acceleratori di particelle, né la “Big Technology” dei missili balistici. Per la verità, senza l’intervento dello stato non sarebbe stato possibile neppure sviluppare la “Little Science” e quindi la crescita dei progetti di ricerca condotti da piccoli gruppi o singoli individui nelle università. Le commesse militari favoriscono sia la crescita delle aziende sia lo sviluppo della ricerca. I laboratori federali, specie quelli allestiti dall’Atomic Energy Commission, evocano nel pubblico entusiasmo e una sensazione di misteri.
Inoltre le imprese hanno iniziato a investire in nuove tecnologie, con la direzione e spesso con la generosa assistenza di Washington. Proprio mentre nasceva la NSF, nella primavera 1950, l’Amministrazione si è mossa, infatti, per cercare di recuperare il gap tra la domanda di capitali delle piccole imprese che intendono cimentarsi nella produzioni di beni ad alta tecnologia e la reale offerta di mercato. Il gap, nel 1949, era diventato causa di una chiara caduta degli investimenti. Cosicché Leon Keyserling, membro autorevole del Council of Economic Advisers che consiglia Truman in fatto di economia, ha proposto un piano per lo sviluppo delle piccole imprese fondato sulla detassazione degli investimenti e su una marcata deregulation. Il piano ha liberato i venture capitals, ovvero capitali ad alto rischio investiti nell’avvio e nella crescita di imprese ad alto potenziale di sviluppo. E tra le imprese ad alto potenziale di sviluppo già ci sono quelle che puntano sull’alta tecnologia. È grazie anche a questo piano, infatti, che iniziano a nascere quei parchi scientifici e tecnologici e quegli incubatori di imprese che negli anni successivi diventeranno il cuore dell’economia della conoscenza.
Tre, dunque, sono le componenti che in questi anni fanno degli Stati Uniti il paese leader al mondo in campo scientifico e tecnologico: un investimento forte e diretto dello stato federale nella ricerca e nell’istruzione; grandi progetti che evocano una forte domanda di alta tecnologia (per ora si tratta di progetti militari, ma dopo il 9157 ci saranno i progetti spaziali e dopo il 1970 i progetti biomedici; norme e capitali che favoriscono la nascita ex novo di imprese con una spiccata vocazione per la produzione di alte tecnologia.
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