Dal dopoguerra ad oggi l’Italia ha attraversato tutte le principali fasi che può conoscere un sistema migratorio nazionale durante la sua evoluzione. Basti pensare che fino agli anni sessanta del secolo scorso siamo stati tra i principali paesi d’emigrazione del mondo, mentre ora siamo diventati una delle principali mete dei flussi migratori internazionali. Il cambio di segno nella bilancia migratoria italiana avvenuto negli anni settanta coincise con l’avvio di una complessiva riarticolazione dei processi migratori europei in conseguenze delle crisi petrolifere. Finita la fase di eccezionale crescita economica cominciata nel dopoguerra iniziò un processo di ristrutturazione dei sistemi produttivi che cambiò radicalmente il ruolo del lavoro immigrato. Si chiusero i canali di reclutamento ufficiale e i governi dei paesi d’immigrazione furono costretti a prendere atto che il fenomeno era diventato una realtà strutturale del panorama europeo.
Verso la fine degli anni settanta iniziarono i primi flussi di immigrazione straniera: questi flussi si trovarono davanti una sostanziale carenza legislativa tipica, in questa fase, dei paesi mediterranei dell’UE. Dietro a questi primi flussi d’immigrazione sta sicuramente il forte aumento delle cause espulsive nei paesi del terzo mondo, mentre la chiusura dell’immigrazione nei tradizionali paesi d’arrivo aveva reso l’Italia una meta possibile.
Durante gli anni ottanta l’atteggiamento verso l’immigrazione fu sostanzialmente benevolo. L'approvazione della prima legge sulla materia nel 1986 avvenne a larghissima maggioranza. Il clima cambiò decisamente nel decennio successivo, soprattutto per effetto dei processi avviatisi con la caduta del Muro di Berlino. Il problema dell'immigrazione si presentò in modo drammatico tra il marzo e l'agosto del 1991, quando sulle coste italiane arrivarono diverse ondate di profughi albanesi. La drammaticità dell'evento contribuì a mettere in luce, e anche a rafforzare, il cambiamento profondo che nel frattempo si era realizzato nell'atteggiamento complessivo della società italiana verso l'immigrazione.
Neanche la legge Martelli del 1990 permise al paese di uscire da una gestione emergenziale del fenomeno e bisognerà attendere il 1998 per avere con la Turco-Napolitano un nuovo intervento legislativo, nonostante le carenze della normativa fossero ben evidenti.
A inizio 2000 la presenza straniera regolare ha ormai superato 1,5 milioni di unità. Il cambio di maggioranza del 2001 ha riflessi importanti in tema di politica migratoria con l'approvazione della legge Bossi-Fini. In linea con il programma elettorale della Casa delle libertà, l’intervento legislativo voleva migliorare la gestione dei flussi e contrastare più efficacemente gli arrivi non regolari. Il secondo aspetto è quello sicuramente prevalente anche se i provvedimenti collegati, con circa 650 mila regolarizzati, si configurano di gran lunga come il maggior intervento di questo tipo mai effettuato nella storia del paese e hanno contribuito in maniera decisiva a portare il numero di immigrati regolari ai quasi 2,8 milioni di inizio 2006.
Nonostante i due cambi di governo successivi e le politiche tutt'altro che permissive, la crescita della presenza straniera non si è arrestata. Secondo i dati anagrafici la popolazione straniera residente sta continuando ad aumentare anche in questi anni di crisi economica. A inizio 2011 gli stranieri residenti sono, infatti, stimati in quasi 4,6 milioni di unità con un incremento di 328 mila unità nel 2010. Parallelamente è anche aumentata la presenza straniera nel mercato del lavoro. Gli stranieri nelle forze di lavoro sono, infatti, passati dagli 1,9 milioni del 2008 ai 2,3 registrati nei primi tre trimestri del 2010. Nel complesso, appare chiaro che, al di là del diverso approccio degli schieramenti politici verso l’immigrazione, il sistema economico ha mostrato in questi anni un crescente bisogno di lavoratori stranieri. La crescita straordinaria della presenza straniera regolare è stata determinata da una sempre più intensa domanda di lavoro straniero, proveniente dal sistema produttivo e dalle famiglie per l’azione di precisi fattori demografici, economici e sociali.