Giorni fa sono stato invitato a partecipare a una trasmissione della sede Rai di Trieste che verteva sulle parole della lingua italiana che rischiano di scomparire dall’uso: secondo i lessicografi è un elenco di lunghezza impressionante. Ho accettato molto volentieri: sono stato sempre animato da un grande interesse per le lingue, in particolare per l’italiano, inoltre la mia attività di scrittore mi ha sempre messo in contatto con quei segni miracolosi che ci consentono di comunicare e di esprimerci. In sala di registrazione, oltre la conduttrice e a me, c’erano quattro ragazze sui ventidue anni: tre studentesse del DAMS e un’aspirante attrice, allieva della scuola di recitazione di Trieste. In mezzo al grande tavolo rotondo, su cui pendevano dalle loro staffe i microfoni, c’era un supporto di legno che reggeva, in un bizzarro accostamento, due animaletti di peluche, una scimmia che cavalcava un porcello (sorta di ircocervo che i tecnici chiamavano “scimmiorco”) e l’ultima edizione di un diffuso vocabolario della lingua italiana (diffuso, ma forse non abbastanza, come si arguirà dal seguito). Prima della registrazione si è diffusa un’atmosfera ilare e rilassata, che tutti o quasi si sforzavano di alimentare con battute e, appunto, giochi di parole. Ma, appena aperti i microfoni, le ragazze sono apparse tese e intimidite. Effetto Rai, ho pensato, e durante la presentazione degli ospiti ho fatto del mio meglio, da partecipante di lungo corso alle trasmissioni, per rasserenare gli animi e disporli alla gaiezza.
A questo punto la conduttrice ha proposto le due parole da salvare dall’oblio: “intonso” e “ameno”. A me sembrava che ci fosse poco da salvare, sono due parole di uso comune, che tutti impieghiamo più volte al giorno, e francamente mi ero aspettato qualcosa di più esotico, tipo “guiderdone”, “soccida” o “apotropaico”, quindi sono rimasto un po’ stupito. Poi ho pensato che se non altro le ragazze avrebbero potuto fare bella figura, lanciandosi in definizioni precise e fornendo esempi appropriati dell’uso dei due aggettivi. Ma a questo punto sono cominciate le sorprese: la prima damserina ha dichiarato candidamente che non aveva mai sentito quelle parole e che non aveva idea del loro significato. La seconda ha affermato di non conoscere “ameno” ma di sapere per certo che “intonso” voleva dire “bagnato”, fornendo anche l’esempio convincente di “tavolo intonso”, cioè “tavolo bagnato”. La terza, in via complementare, ha confessato di ignorare il significato di “intonso”, ma di usare spesso “ameno” nella locuzione “a meno che”. Io ero sempre più sbalordito, anzi sbattezzato. La parola è passata all’aspirante attrice, la quale ha detto che “ameno” le ricordava qualcosa di felice e gioioso e “intonso” le faceva venire in mente qualcosa di pulito e onesto, e ha aggiunto: “per esempio una ragazza intonsa”. In me, per quella vena linceziosa che nutro, si sono subito accesi pensieri pruriginosi, poi mi è balenata l’immagine di una giovane affetta da irsutismo o ipertricosi che non volesse sottoporsi a depilazione. In ogni caso la frequentazione dei copioni teatrali aveva portato la quarta ragazza un po’ più vicino al significato corretto dei due termini.
La conduttrice reggeva bene, io invece smaniavo e mi agitavo sulla sedia e quando è toccato a me ho cominciato citando Ariosto: “Giace in Arabia una valletta amena”, ma l’effetto è stato disastroso, perché “valletta” è stato interpretato come una variante obsoleta e anche un po’ goffa di “velina”. Imperterrito, ho citato di seguito: un paesaggio ameno, un tipo ameno, una compagnia amena, un’amena brigata... finché la conduttrice mi ha interrotto disponendo: Ora consultiamo il dizionario. E davanti all’autorità del calepino, le incertezze residue dei convenuti sono svanite. Quando siamo passati a “intonso”, ho sfoggiato i miei ricordi di latino: da “tondere”, ho detto, cioè tosare, radere, tagliare con le forbici, con il prefisso “in” che indica negazione, e ho fornito alcuni esempi facili: pecora intonsa, libro intonso, cui non sono state tagliate le pagine (oggi non si usa più vendere libri intonsi, forse per non mettere in imbarazzo i possessori di volumi mai letti); e un esempio un po’ più raffinato: in antico i Romani erano detti “intonsi” perché non si tagliavano i capelli e non si radevano la barba, ma ciò fino al terzo secolo a. C. Sullo slancio ho tirato in ballo anche tonsura e barbitonsore, finché ho avuto la sensazione che le tre del DAMS non mi credessero affatto e annuissero con gli occhi sgranati solo per educazione. A questo punto ho fatto una domanda velenosa: un libro può essere allo stesso tempo ameno e intonso, ma se è intonso, come faccio a sapere se è ameno? Sgomento delle damserine.
La conduttrice, abituata a trarsi d’impaccio nelle situazioni più scabrose e a navigare perigliosamente tra Scilla e Cariddi, ha sviato il discorso, portandolo sullo scimmiorco e facendo una battuta per abbassare il tono che era diventato troppo aulico. Ma una delle ragazze ha chiesto: ma perché c’è bisogno di usare tante parole? Invece di ameno non basta dire bello? Io stavo per replicare lanciandomi in dissertazioni sulla necessità dei sinonimi per modulare e sfumare le descrizioni e le espressioni, ma mi sono limitato a dire che se visitiamo una cattedrale o qualunque altro monumento, fatichiamo molto a vedere e a distinguere le parti per le quali non abbiamo il nome, e ho cominciato una giaculatoria di nartece, pronao, navate, cappelle, transetto, colonne, pilastri, abside, pergamo, plutei, stalli, bifore e trifore... e qui la saggia conduttrice mi ha fatto gli occhiacci del Pescatore Verde o di Mangiafoco e io ho chiuso rapidamente il discorso, restando comunque persuaso che una lingua è un modo di vedere il mondo, anzi di costruirlo: al limite, le cose che non hanno un nome non esistono.
Se in tutto ciò vi è una morale, è questa: il mondo di quelle giovani è molto diverso dal mio. Il mio è affollato di libri, parole, dizionari, narrazioni, il loro è gremito di una tecnologia digitale che si estrinseca in cellulari, televisione, Facebook, videogiochi, internet... In quel mondo le parole esistono ancora, ma si smarriscono e scompaiono, inghiottite dal disuso, i sinonimi sono ridotti al minimo, è in atto una semplificazione radicale e cruenta: i vocaboli sono sostituiti da musiche, immagini e altre rappresentazioni multimediali. Ammetto che la mia impressione che in quel mondo si perda la capacità di esprimersi possa derivare da un mio tenace pregiudizio: forse, semplicemente, ci si esprime in altri modi, modi che io non capisco, e come me molti miei coetanei. In quel mondo digitale io non ci sono nato, fatico a orientarmici, uso i dispositivi a misura della necessità o utilità e sempre in modo goffo. Per i giovani, quello è il loro mondo, come per i pesci il mare, e ci nuotano con estrema naturalezza. Un’ultima riflessione: non vorrei generalizzare troppo, non credo che tutti i giovani siano come le quattro ragazze incontrate alla Rai. Forse il caso ha avuto una parte determinante nel far convergere in quella sala di registrazione quattro rappresentanti omogenee della generazione digitale. Conosco altri giovani che hanno dimestichezza con la lingua scritta e parlata e ciò, per un residuo di conservatorismo, mi conforta.