fbpx La Royal Society e la comunità scientifica globale | Scienza in rete

La Royal Society e la comunità scientifica globale

Read time: 3 mins

Sono tre gli elementi dell’evoluzione dell’attività scientifica mondiale all’inizio del nuovo secolo che la Royal Society di Londra ha voluto mettere in evidenza pubblicando, di recente, il rapporto Knowledge, Networks and Nations: Global scientific collaboration in the 21st century: la crescita, la multipolarità e l’integrazione.

L’attività scientifica è la rapida crescita. Ce lo dicono tutti i parametri. In soli 5 anni, dal 2002 al 2007, gli investimenti globali in ricerca e sviluppo (R&S) sono passati da 790,3 a 1145,7 miliardi di dollari, con un incremento del 45,0%. Nel medesimo periodo è aumentato di 1,4 milioni di unità il numero di ricercatori, passati da 5,7 a 7,1 milioni, con un incremento del 19,7%. E, infine, è aumentato il numero degli articoli scientifici su riviste con peer review: passati dagli 1,09 milioni del 2002 agli 1,58 milioni del 2007, con un incremento del 45,0%.

Il secondo elemento che caratterizza questa fase della storia della scienza è una sempre più estesa multipolarità. Non solo in termini di investimenti (ormai l’Asia investe in ricerca quanto il Nord America e molto più dell’Europa), ma anche in termini di contributi scientifici significativi. La Turchia ha aumentato di sei volte i suoi investimenti e ora spende quando Danimarca, Finlandia e Norvegia messe insieme. Nel 2002 due autori su tre, il 66%, di pubblicazioni scientifiche lavoravano in uno dei paesi di più antica industrializzazione (Usa, Europa e Giappone), nel 2007 questa percentuale era scesa al 54%. Tra le 20 maggiori città per output scientifico nel periodo 2004/2008 sette erano in Asia, sei in Europa, sei in Nord America e una in Sud America. Tra queste due città cinesi (Nanchino e Shangai) e San Paolo in Brasile hanno migliorato la loro classifica di oltre 20 posti (Nanchino ancora nel 2000 era al 66° posto al mondo, ora è tra le prime 20), e due, entrambe asiatiche (Taipei e Seul) hanno migliorato la loro posizione di almeno dieci posizioni. Tutte le città europee o nordamericane hanno o perduto o, al più, conservato le loro posizioni.

Anche se i numeri cambiano in maniera così rapida e drastica da suscitare sempre sorpresa, i due processi – la crescita dell’attività scientifica e la sua diffusione geografica – non costituiscono una novità. Chi segue Scienzainrete sa che essi sono ormai puntualmente registrati da tutti i grandi rapporti sull’evoluzione dell’attività di ricerca nel mondo, da quelli della National Science Foundation degli Stati Uniti a quelli dell’OECD a quelli dell’Unione Europea.

Il terzo fattore che la Royal Society individua è, in genere, meno enfatizzato Ma non è meno importante. È il processo di sempre maggiore integrazione della scienza mondiale. Oggi il 35% degli articoli scientifici è frutto di una collaborazione internazionale. Nel 1996, quindici anni fa, erano appena il 25%. Inoltre più cresce il numero di scienziati di paesi diversi che lavorano a un progetto comune, più aumenta l’impact factor dei loro articoli.

Questo significa che la comunità scientifica non solo è sempre più ricca e numerosa, ma è appunto sempre più transnazionale. Ha gli stessi interessi, gli stessi valori, persino la stessa lingua in tutto il mondo. Certo, molti sono i problemi da risolvere – di qualità, di autonomia. Ma è come se, su scala mondiale, si stesse ripetendo quel grande e niente affatto scontato processo che portò, nel Seicento, alla nascita di un’unica comunità scientifica in Europa, e di cui proprio la Royal Society fu tra i maggiori protagonisti, malgrado il continente fosse politicamente frammentato e squassato da conflitti armati. È come se nel XXI secolo stesse nascendo un’unica comunità scientifica globale, proprio come nel XVII secolo nacque un’unica comunità scientifica europea.

C’è, oggi, un ulteriore elemento di novità rispetto al Seicento. Che a Londra hanno colto e ampiamente sottolineato. La comunità scientifica transnazionale è chiamata ad affrontare una serie di sfide a scala planetaria. La sua esistenza – l’esistenza di una comunità scientific globale sempre più libera e autonoma – non è solo desiderabile, è necessaria.

Knowledge, Networks and Nations: Global scientific collaboration in the 21st century (pdf)


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

La COP29 delude. Ma quanti soldi servono per fermare il cambiamento climatico?

Il presidente della COP 29 di Baku, Mukhtar Babayev, chiude i lavori con applausi più di sollievo che di entusiasmo. Per fortuna è finita. Il tradizionale tour de force che come d'abitudine è terminato in ritardo, disegna un compromesso che scontenta molti. Promette 300 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione, rimandando al 2035 la "promessa" di 1.300 miliardi annui richiesti. Passi avanti si sono fatti sull'articolo 6 dell'Accordo di Parigi, che regola il mercato del carbonio, e sul tema della trasparenza. Quella di Baku si conferma come la COP della finanza. Che ha comunque un ruolo importante da giocare, come spiega un report di cui parla questo articolo.

La COP 29 di Baku si è chiusa un giorno in ritardo con un testo variamente criticato, soprattutto dai paesi in via di sviluppo che hanno poca responsabilità ma molti danni derivanti dai cambiamenti climatici in corso. I 300 miliardi di dollari all'anno invece dei 1.300 miliardi considerati necessari per affrontare la transizione sono stati commentati così da Tina Stege, inviata delle Isole Marshall per il clima: «Ce ne andiamo con una piccola parte dei finanziamenti di cui i paesi vulnerabili al clima hanno urgentemente bisogno. Non è neanche lontanamente sufficiente.