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Di terremoti e tribunali. Qualche puntino su qualche "i"

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C'è molto di discutibile, nella spinosa questione del processo alla Commissione Grandi Rischi che valutò il rischio sismico prima del terremoto de L'Aquila. Ma conviene partire da cosa non c'è. Nella richiesta di rinvio a giudizio dei PM, accolta mercoledì scorso dal Giudice per l'Udienza Preliminare, non ci sono le accuse di “mancato allarme”, “mancata evacuazione”, tantomeno mancata previsione del terremoto, nonostante queste formule continuino a venire citate dai resoconti giornalistici. Lo stesso dibattito scientifico sulla significatività di una prolungata sequenza sismica come precursore di una forte scossa, brillantemente riassunto qui su Scienza in Rete da Pietro Greco pochi giorni fa, ha tutto sommato poco a che fare con il merito dell'inchiesta, se non “al contrario”, come vedremo tra poco.

D'altronde, se fossero quelle le accuse che la procura muove ai sette partecipanti alla riunione della Grandi Rischi svoltasi il 31 marzo 2009 (una settimana prima del terremoto), l'omicidio colposo dovrebbe riguardare tutte e 309 le vittime. Riguarda invece solo 32 casi basati su denunce specifiche, per i quali il PM contesta l'omicidio colposo ipotizzando una precisa catena di eventi che è fondamentale comprendere passo per passo prima di fare qualunque commento.

Il 31 marzo i sette imputati si riuniscono per un'ora a L'Aquila, un incontro che i PM considerano frettoloso e superficiale (per la verità, lo stesso Enzo Boschi, il presidente dell'INGV che è tra gli imputati, lo ha definito tale in diverse interviste, a cominciare da quella che appare in “Draquila” di Sabina Guzzanti), che si conclude senza un comunicato stampa congiunto o una discussione su quali messaggi dare a una popolazione fortemente allarmata e provata da mesi di scosse e dalle mattane dell'improvvisato profeta di terremoti Giampaolo Giuliani (nota a margine: un grande quotidiano lo ha intervistato dopo il rinvio a giudizio parlando di “rivincita di Giuliani”, come se il processo avesse qualcosa a che vedere con lui. Non è così).

Dopo la riunione, Bernardo De Bernardinis, allora Vice Capo della Protezione Civile, e Franco Barberi, presidente Vicario della Commissione Grandi Rischi, tengono una conferenza stampa in cui, con toni incerti ma frasi esplicite, De Bernardinis rassicura la popolazione. Fa in particolare una affermazione (l'intervista televisiva si può vedere qua: http://www.youtube.com/watch?v=kLIMHe0NnW8) che rimane nella memoria di molti aquilani. “Gli scienziati continuano a dirmi che non c'è un pericolo, anzi la situazione è favorevole perché c'è un rilascio continuo di energia”. I parenti delle 32 vittime citate nel capo di accusa sostengono che siano state proprio quelle parole, a far sì che i loro cari, già spontaneamente orientati ad andare via dall'Aquila finché non fosse passato lo sciame sismico, o almeno a trascorrere le notti in macchina per evitare di essere colti nel sonno dalle scosse, si mettessero il cuore in pace e cambiassero idea. La tesi della procura è insomma che se non fosse stato per quella frase detta in quella conferenza stampa, il 6 aprile quei 32 non si sarebbero trovati nelle loro case, e quindi oggi sarebbero vivi. Non perché qualcuno dovesse evacuarli, ma perché se ne sarebbero andati loro.

Questo non basterebbe, di per sé, a formulare un'accusa, se non fosse che quella frase è considerata scientificamente inattendibile dalla maggior parte dei sismologi, ed è stata poi sostanzialmente disconosciuta dagli altri membri della commissione. Uno sciame sismico come quello in corso in Abruzzo in quei giorni non rilascia energia e non abbassa progressivamente il rischio di una grande scossa. Anzi, al limite si può sostenere che lo alza leggermente, come ricorda appunto l'articolo di Pietro Greco. Quindi, dice il PM: una negligenza professionale (una riunione frettolosa, in cui non si è discusso abbastanza di quali aree della città fossero più a rischio nel caso di una grande scossa, e in cui non si è concordato un messaggio alla popolazione, finendo per darne uno scientificamente errato) ha influito sulle scelte di alcune persone, causando indirettamente la loro morte. Nel codice penale, questo si chiama omicidio colposo.

Si diceva che c'è comunque molto di discutibile nella memoria del PM (ne consiglio comunque la lettura integrale), ed emergerà al processo.

L'impressione è che non sarà facile provare oltre ogni dubbio che quelle vittime si sarebbero salvate sicuramente e cambiarono idea solo ed esclusivamente per quanto detto a quella conferenza stampa. Si discuterà anche, e cavillosamente, del mandato dei membri della Grandi Rischi. E' un organo collegiale, in cui ognuno dei membri è corresponsabile di quanto poi viene riferito all'esterno? O è un gruppo consultivo, in cui ognuno degli esperti dà il suo contributo e poi sta solo alla Protezione Civile decidere che dire alla popolazione? E in ogni caso, da dove arrivava quella frase sulla sequenza sismica che rilasciando energia abbassava il rischio di una scossa, di cui tutti ora dicono che “nessun sismologo serio la direbbe mai”? De Bernardinis insiste nel dire di averla sentita dagli scienziati. Negli interrogatori allegati alla richiesta di rinvio a giudizio, una persona presente alla riunione come uditrice dice effettivamente di ricordare di aver sentito uno dei sismologi dirla, ma di non ricordare chi fosse.

Ciò che l'udienza preliminare ha già evidenziato, però, è che il primo anello della catena causale descritta dalla procura (il fatto che vi sia stata una negligenza professionale da qualche parte) non è sostanzialmente più contestato da nessuno. Semmai, gli imputati hanno già iniziato (e lo faranno sempre più al processo) a rimpallarsene la responsabilità. Ma nemmeno gli imputati sostengono più che in quel pomeriggio e tarda serata del 31 marzo sia stato fatto tutto correttamente.

Nessuno dovrebbe anticipare sentenze, e i processi si fanno per stabilire responsabilità puntuali e personali, non per lanciare messaggi. La valutazione politica sulla gestione dell'emergenza terremoto dovrebbe restare fuori dall'aula. Ma in una società democratica i processi che coinvolgono pubblici ufficiali hanno anche la funzione di creare precedenti che condizionano i comportamenti futuri, e di questo dovremmo discutere ora.

Per quello che vale, mi pare che manchi il punto chi legge in questa storia un “attacco alla scienza” lanciato da magistrati scientificamente incompetenti, che metterà una spada di Damocle su tutti gli esperti chiamati a valutare il rischio. Al contrario, se la Procura non sbanderà durante il dibattimento, il processo sarà un'occasione per ribadire (indipendentemente dall'esito per gli imputati) che la comunicazione in materia di rischio deve essere, prima di ogni altra cosa, scientificamente fondata: che deve essere il frutto di valutazioni approfondite e multidisciplinari, e avere come requisito minimo l'uso di formule e parole che la maggior parte della comunità scientifica sottoscriverebbe. Si può discutere se un'aula di tribunale sia il luogo adatto per affermare questi principi, ma mi pare difficile contestarli.

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