fbpx Scienziati e giornalisti: due lingue diverse | Scienza in rete

Scienziati e giornalisti: due lingue diverse

Primary tabs

Tempo di lettura: 7 mins
Quelli che li leggono i giornali, cosa leggono di più? La cronaca nera. E poi? Le notizie sulla salute e quello che c’è sui giornali ha enorme influenza sui comportamenti del pubblico e anche dei medici. Negli Stati Uniti l’impiego di ormoni per attenuare i sintomi della menopausa è calato in modo impressionante dopo che si è scoperto che possono far male al cuore. Merito dei giornali (400 articoli). Ma non è sempre così.

Il Lancet del febbraio scorso ha organizzato un convegno a Londra le cui conclusioni sono state pubblicate su BMJ, ci si chiedeva “ma i giornali aiutano a guarire o fanno peggio?” Il pubblico ha un forte desiderio di sapere di medicina ma le notizie dovrebbero essere chiare ed accurate s’è detto nel summit del Lancet. Quasi ogni giorno tanti ammalati di una certa malattia sperano di poter guarire, ma non è vero (quasi mai). Cosa si può fare?

I giornalisti tante volte ignorano le complessità e non presentano quasi mai le notizie di medicina nel loro contesto, per esempio tendono a raccontare dell’ultimo studio senza far riferimento agli studi precedenti, nemmeno a quelli più rilevanti “così il messaggio è quasi sempre inadeguato o distorto” ha scritto Susan Dentzer nel New England Journal of Medicine del gennaio di quest’anno. Ma proprio perché la gente legge soprattutto di medicina, i giornalisti hanno una grande responsabilità. Cosa dovrebbero fare per essere più credibili e soprattutto per evitare di creare negli ammalati speranze che vanno regolarmente deluse?

Tre cose almeno:

  1. non fidarsi dei dati preliminari e non basarsi su modifiche di parametri di laboratorio (per esempio che si riduce il colesterolo);
  2. far riferimento ai numeri assoluti (quante persone in meno sono morte – per esempio di infarto del cuore – se si usa il tal farmaco, e quanti devono prendere il farmaco perché uno non muoia) e non fidarsi mai delle percentuali;
  3. discutere quanto c’è di nuovo in uno studio, ma anche i limiti (tutti gli studi ne hanno).

Regole per i giornalisti che valgono, e ben di più, per ricercatori e società scientifiche. Che invece organizzano conferenze-stampa prima del tempo e danno quasi sempre i dati in percentuale. E poi dovrebbero essere loro, gli scienziati, ad anticipare i limiti della loro ricerca, “Questo farmaco è un passo avanti rispetto a quanto c’era prima, ma c’è un vecchio farmaco che fa già molto”. “Altri chirurghi utilizzano tecniche analoghe, noi abbiamo solo contribuito a perfezionarle”.

Ma medici e ricercatori non lo fanno quasi mai, i giornalisti stanno al gioco, e la gente è confusa. Se il pubblico ha “appetito” per le notizie di medicina, gli ammalati hanno “fame” di notizie e ancora di più di buone notizie. Fargli credere che guariranno, se non è vero, è come tradire la loro buona fede. L’editorial del Lancet a commento del summit del 5 febbraio 2009 finisce così “il futuro dell’informazione medica dipenderà da quanto scienziati e medici diventeranno capaci di lavorare insieme ai giornalisti per assicurare una informazione rigorosa e responsabile”. Questo potrebbe essere utilissimo per migliorare la salute di tutti. Sembra semplice. Perché allora non succede già? Perché informazione e scienza al grande pubblico hanno regole diverse.

I mezzi di informazione si pongono sempre nei confronti del pubblico in maniera tale da catturarne l’attenzione e vendere così la notizia come un prodotto commerciale. Lo stesso concetto di “verità scientifica” è concepito in modo diverso dallo scienziato e dal giornalista. Riguardo ad una determinata scoperta, lo scienziato manifesta solitamente un atteggiamento critico: “Oggi, con i dati in nostro possesso, sembra che...”.

Sul fronte giornalistico, invece, la verità è spesso “bianco o nero” e poi i tempi dei giornalisti non sono quelli della scienza. Il giornalista è sempre alla ricerca di notizie fresche da comunicare in fretta e ha scarso interesse a riprendere un argomento già trattato anche se una certa notizia magari data con grande enfasi poi nel tempo si è rivelata falsa. Ma la fretta non può dettare l’agenda degli scienziati, anzi tante volte a voler fare in fretta si fa peggio.

La conoscenza scientifica è spesso il frutto di un lavoro lungo e faticoso e non basta, giornalisti e scienziati non sono fatti per intendersi di primo acchito. Il giornalista si trova spesso a disagio per le risposte troppo tecniche dello scienziato, lo scienziato ha spesso difficoltà a sintetizzare le proprie ricerche in poche righe o in tempi brevi. Ma per comunicare al pubblico la notizia in maniera corretta bisogna trovare il modo di riconciliare queste due realtà. Un buon giornalista scientifico dovrebbe sempre partire dalla notizia per poi analizzarla criticamente e comunicarla al pubblico in maniera semplice. Il dialogo con lo scienziato è importante, ma è anche fondamentale che il giornalista mantenga la propria autonomia.

Nel dicembre '67 i giornali e le televisioni hanno parlato di un evento medico straordinario. Il primo trapianto di cuore da uomo a uomo fatto a Cape Town in Sudafrica, ne parla un libro di Ayesha Nathoo appena pubblicato da Macmillan (Hearts exposed: Transplants and the media in 1960 Britain). L'intervento è stato fatto da Christian Barnard un chirurgo che fino ad allora aveva scritto pochissimo nella letteratura medica e che nessuno conosceva fuori dal suo paese. Ma l'evidenza che i giornali hanno dato a quell'evento è stata di quelle che si danno alle guerre. La storia del trapianto cominciò con Joseph Murray a Boston. Un trapianto di rene fra gemelli identici. Per questo il ricevente non ebbe rigetto. Nel '60 Norman Shumway and Richard Lower perfezionavano la tecnica del trapianto di cuore e stavano lavorando alle cure per il rigetto utilizzando alte dosi di azatioprina e cortisone. Sarebbero stati pronti a farlo anche loro il trapianto di cuore nell'uomo ma capivano che era prematuro: quei farmaci lì non erano in grado da soli di controllare il rigetto. Barnard imparò da loro negli Stati Uniti. Tornato in Sudafrica nonostante avesse pochissime conoscenze di trapianto di rene e nessuna di trapianto di cuore decise di fare il trapianto comunque. L'ammalato visse 17 giorni soltanto.
La reazione del mondo fu senza precedenti, si parlava del donatore, del ricevente, delle loro storie, di quanto Barnard fosse affascinante e intelligente. Barnard fu idolatrato da tutti quelli che contano e dalle più belle donne del mondo. Il suo Ospedale e il governo del Sudafrica sono stati al gioco. Il successo di Barnard - che fu abilissimo a prendere vantaggio dal clamore suscitato da quell'intervento - spinse tanti altri chirurghi a farlo anche loro, inclusi tanti che sapevano poco o nulla di biologia del trapianto e meccanismi del rigetto. E gli ammalati? Pazienza, l'importante era parlare dei chirurghi e del cuore che era nell'idea della gente la sede delle emozioni e dell'amore e che adesso passava da un uomo all'altro. Per la prima volta le notizie di medicina arrivarono alle prime pagine dei giornali e alle televisioni prima che su i giornali scientifici, ma ci arrivarono in modo distorto. Nessun altro atto medico né prima né dopo ha avuto l'attenzione che i media ebbero per il primo trapianto di cuore. La strada era aperta.
Da allora e sempre di più i grandi newspapers condizionano la scienza e la medicina. I lavori scientifici più citati sono spesso quelli che hanno avuto la prima pagina del New York Times e a quest'aspetto i direttori delle grandi riviste di medicina e di scienza sono sempre più sensibili. Cosa sta succedendo? La ricerca medica (non è detto che si applichi alla fisica, alla matematica o all'astronomia) è sempre più contaminata da interessi commerciali e molti utilizzano giornali e televisione per averne vantaggi economici. Un articolo sul New York Times o su Wall Street Journal aumenta il prestigio delle riviste scientifiche e consente alle azioni di chi commercializza farmaci o presidi medici di valorizzare le azioni delle loro compagnie. Notizie ce ne sono centinaia ogni giorno, i giornalisti di scienza dei grandi giornali devono scegliere. Allora cos'è che fa di certi lavori scientifici una notizia e di certi altri no? Certe volte anche solo se un articolo potrà contribuire alla carriera di quel giornalista. Comunque le storie che non sono destinate a fare clamore nei grandi giornali non entrano ed è soprattutto vero se non si prestano ad un titolo a effetto. C'è il caso di un articolo del New York Times del '98 "Due farmaci eliminano i tumori nei topi". Parlava della ricerca di Judah Falkman sui farmaci antiangiogenetici. L'istituzione di Falkman - il Memorial Sloan-Ketterin Cancer Center di New York - nei giorni successivi ebbe migliaia di telefonate di ammalati che non volevano più fare la chemioterapia e chiedevano di avere i nuovi farmaci. Los Angeles Times, Boston Globe e Washington Post nei giorni successivi hanno smontato l'enfasi che era stata data a questa notizia ma il New York Times non ha mai voluto pubblicare nessuna rettifica. Tutto l'opposto di quello che si dovrebbe fare se chi scrive di medicina sui giornali avesse un sincero interesse per le ragioni della scienza e per le paure degli ammalati.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

La COP29 delude. Ma quanti soldi servono per fermare il cambiamento climatico?

Il presidente della COP 29 di Baku, Mukhtar Babayev, chiude i lavori con applausi più di sollievo che di entusiasmo. Per fortuna è finita. Il tradizionale tour de force che come d'abitudine è terminato in ritardo, disegna un compromesso che scontenta molti. Promette 300 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione, rimandando al 2035 la "promessa" di 1.300 miliardi annui richiesti. Passi avanti si sono fatti sull'articolo 6 dell'Accordo di Parigi, che regola il mercato del carbonio, e sul tema della trasparenza. Quella di Baku si conferma come la COP della finanza. Che ha comunque un ruolo importante da giocare, come spiega un report di cui parla questo articolo.

La COP 29 di Baku si è chiusa un giorno in ritardo con un testo variamente criticato, soprattutto dai paesi in via di sviluppo che hanno poca responsabilità ma molti danni derivanti dai cambiamenti climatici in corso. I 300 miliardi di dollari all'anno invece dei 1.300 miliardi considerati necessari per affrontare la transizione sono stati commentati così da Tina Stege, inviata delle Isole Marshall per il clima: «Ce ne andiamo con una piccola parte dei finanziamenti di cui i paesi vulnerabili al clima hanno urgentemente bisogno. Non è neanche lontanamente sufficiente.