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Come conservare un patrimonio che si sta perdendo

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Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un fenomeno di impoverimento genetico delle varietà fruttifere, cerealicole e orticole coltivate. In Italia, per esempio l’80% delle mele consumate appartiene a sole tre varietà e a livello mondiale la popolazione si nutre con sole 30 piante coltivate. Si tratta di un fenomeno di erosione genetica che coinvolge tutte le colture agricole. Dagli anni cinquanta, la produzione agricola si indirizza su un numero sempre più esiguo di specie e varietà caratterizzate da una più elevata produttività e che meglio si adattano a sistemi di lavorazione e raccolta meccanizzata. La frutta, ad esempio, deve presentare una uniformità di pezzatura, resistere alle manipolazioni e ai trasporti. Prevalgono, inoltre, le varietà in grado di garantire un piacevole effetto estetico agli occhi del consumatore.

La variabilità genetica naturale delle piante è alla base del miglioramento genetico delle colture agricole. Nel dopoguerra l’esplorazione dei geni posseduti dalle popolazioni vegetali locali o selvatiche era rivolta all’aumento della produttività, oggi a numerosi caratteri, quali la resistenza a patogeni, tolleranza alla siccità, specifici metaboliti secondari, caratteristiche nutrizionali ecc. Questa ricchezza naturale deve quindi essere protetta, solo così saremo in grado di far fronte alle esigenze future. Attualmente in Italia e nel mondo è attivo un intenso lavoro di esplorazione, collezione e conservazione della variabilità genetica presente nelle popolazioni vegetali locali.

L’obiettivo della conservazione del germoplasma ex situ è quella di mantenere costanti le caratteristiche genetiche del materiale da preservare; i metodi utilizzati sono stati studiati al fine di minimizzare possibili cambiamenti a causa di mutazione, selezione e contaminazione. Per molte specie coltivate e loro parenti selvatici vengono conservati i semi in opportuni luoghi caratterizzati da bassa temperatura e umidità per lunghi periodi (fino a centinaia di anni). Vi sono però numerose colture o propagate per via clonale, come banana e patata, o in grado di produrre semi, che risultano recalcitranti. In tal caso bisogna ricorrere alla conservazione in situ o alle colture in vitro.

Negli Stati Uniti la “National Center for Genetic Resources Preservation” (NCGRP) è la struttura adibita all’immagazzinamento e alla conservazione dei semi (vedi sito). Molti dei suoi campioni di semi provengono da piante che non esistono più allo stato selvatico e sono pertanto insostituibili. Il valore per l’agricoltura della collezione contenuta nella banca dei semi americana è inestimabile. La manutenzione delle collezioni di semi richiede di piantare periodicamente ogni campione per produrre semi freschi e vitali. Un'istituzione simile è il Millennium Seed Bank dei Kew Gardens di Londra (sito). L’Istituto del Germoplasma di Bari è l’organo di ricerca del CNR che svolge nel nostro Paese mansioni in qualche modo analoghe a quelle del NCGRP americano.

Le tecniche di biologia molecolare (marcatori molecolari, sequenziamento) sono state adottate da diverso tempo per la caratterizzazione del materiale delle collezioni. In particolare vengono utilizzate per definire la diversità genetica tra ed entro specie, la stabilità del materiale conservato in vitro, la relazione evolutiva tra piante coltivate e i loro parenti selvatici ecc.

Oggi le tecnologie di sequenziamento di seconda e terza generazione insieme all’indagine molecolare su scala genomica, le così dette tecniche OMICS, e all’informatica, hanno aumentato le potenzialità di esplorazione della variabilità naturale conservata nelle banche di semi, così amplificando le possibilità di comprensione della fisiologia della pianta e dei meccanismi di adattamento della pianta stessa a differenti ambienti (W. Weckwerth, J Prot. 2011, doi: 10.1016/j.jprot.2011.07.010).

La conservazione in situ è caratterizzata dal mantenimento di una specie coltivata o selvatica in uno specifico agroecosistema o ecosistema in cui sono presenti altre specie. Il mantenimento dell’intero ecosistema è parte della strategia di conservazione in situ. Questo metodo viene scelto principalmente per le specie forestali e per i parenti selvatici delle piante coltivate. Una volta localizzata la popolazione in uno specifico ecosistema è necessario mantenerla e monitorarla affinché rimanga in vita. In particolare deve essere valutata nel tempo la diversità genetica della popolazione.

La conservazione in situ sta diventando sempre più importante anche per le specie coltivate. Testimonianza sono i numerosi progetti avviati in Italia da diverse regioni tra cui Abruzzo, Lombardia e Toscana e nel mondo. L’idea è quella di tornare a un’azienda agricola multifunzionale, con un agricoltore custode della biodiversità e del paesaggio (la cosiddetta on farm conservation).

Appuntamenti sulla biodiversità
- "Biodiversità in azienda e a tavola" settembre (sito)
- “5° Festival della Biodiversità” al Parco Nord Milano dal 15-25 settembre (sito)
- “Biodiversità dalla Bolivia”: dal 22 al 28 settembre in Toscana si svolge la visita di due rappresentanti di AOPEB (Asociación de organizaciones de productores Ecológicos de Bolivia), all'interno di un progetto di Fratelli dell’Uomo ([email protected]) di cooperazione decentrata cofinanziato dalla Regione Toscana "Seminiamo la Biodiversità: scambio di buone pratiche in ambito agricolo".  


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Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.