Fino a qualche mese fa le strategie volte a ridurre il consumo di sodio e a incrementare quello di potassio venivano considerate di grande importanza nei vari paesi, in quanto basate su una solida evidenza scientifica che supportava i benefici effetti rispetto al costo per la riduzione delle malattie cardio e cerebrovascolari, della malattia renale cronica, e di altre malattie cronico-degenerative compresi i tumori. Questa strategia è stata recentemente messa in discussione dalla pubblicazione dei risultati di uno studio condotto in alcuni paesi europei, da tutti noi epidemiologi cardiovascolari considerato piuttosto debole per la numerosità e l’età considerata.
I risultati dello studio europeo (FLEMENGHO e EPOCH) riportano che nel campione di popolazione arruolato (4.547 persone, di cui però 3.681 avevano i dati completi per essere analizzati, seguiti per 7,9 anni) la pressione sistolica e non la diastolica è associata all’escrezione di sodio e tale associazione non si accompagna a maggior rischio verso l’ipertensione, né verso le malattie cardiovascolari. Pertanto lo studio non supporta le attuali raccomandazioni per una riduzione generalizzata e indiscriminata del consumo di sale a livello di popolazione (Vedi: Fatal and nonfatal outcomes, incidence of hypertension, and blood pressure changes in relation to urinary sodium excretion. JAMA 2011 May 4). La pubblicazione di questi risultati ha suscitato un dibattito importante da parte di istituzioni pubbliche impegnate nelle strategie di popolazione per la riduzione del sale negli alimenti, fra cui i Centres for Disease Control and Prevention-Atlanta, European Heart Network, che hanno messo in evidenza i punti deboli dello studio, in particolare la scarsa numerosità della popolazione arruolata nello studio, l’età giovane (età media alla linea base di 40 anni) e soprattutto la confusione che può essere creata nel riportare risultati della ricerca raccolti su pazienti a livello di popolazione generale (Vedi: Low salt diet ineffective. Study Finds. Disagreement abounds. The New York Times 4 May 2011; Lancet 2011 May 14]. A questi risultati è seguita la pubblicazione di una revisione Cochrane che riporta la metanalisi di sette studi su pazienti normotesi ed ipertesi e su un gruppo di pazienti con scompenso cardiaco; anche attraverso i risultati di questa metanalisi (la riduzione del sale nella alimentazione non è accompagnata ad una riduzione di mortalità totale nei normotesi e negli ipertesi, come pure nei pazienti affetti da scompenso cardiaco) gli autori dichiarano che la riduzione del sale non è da raccomandare fra le strategie di popolazione in quanto i benefici che risultano da questa modifica sono scarsi in termini di riduzione della pressione arteriosa [Vedi: Reduced dietary salt for the prevention of cardiovascular disease: a meta-analysis of randomized controller trials (Cochrane Review). American Journal of Hypertension 2011].
Il dibattito
A questa revisione hanno recentemente risposto due autorevoli sostenitori delle attività di prevenzione a livello di popolazione Inglese, Feng He e Graham MacGregor dichiarando che affermazioni quali “Ridurre il consumo di sale non apporta benefici in termini di probabilità di morire o di andare incontro ad una malattia cardiovascolare” oppure “Ridurre il consumo di sale non riduce la chance di morire” non sono corrette. Come riportato dagli autori sarebbero necessari trial randomizzati a lungo termine con raccolta degli outcome: sarebbe necessaria la numerosità di 2500 eventi cardiovascolari per ottenere una riduzione del 10%; per realizzare ciò ci vorrebbe l’arruolamento di oltre 28.000 persone da sottoporre ad alimentazione a basso e alto consumo di sale e mantenerle a due dieta separate per almeno 5 anni. Tale trial oltre ad essere impossibile per impraticabilità organizzativa, sarebbe non etico in quanto metterebbe un gruppo a elevato consumo di sale esponendolo a danni gravi per molti anni. (Vedi: Salt reduction lowers cardiovascular risk: meta-analysis of outcome trials. The Lancet 2011 July 28).
D’altra parte non bisogna dimenticare che il consumo di sale è associato non solo alle malattie cardiovascolari, ma anche ad altre malattie cronico degenerative, ai tumori del tubo digerente, in particolare a quelli dello stomaco [Vedi: Salt and salted food intake and subsequent risk of gastric cancer among middle-aged Japanese men and women. British Journal of Cancer. British Journal of Cancer (2004); Review of salt consumption and stomach cancer risk: epidemiological and biological evidence. Gastroenterol 2009 May 14]
Già nel 2003 un rapporto congiunto WHO/FAO raccomandava, ai fini della prevenzione delle malattie cardiovascolari e di altre malattie cronico-degenerative, che il consumo di sale venisse ridotto a meno di 5 g al giorno in media a persona (Vedi: World Health Organization. Diet, nutrition and the prevention of chronic diseases. Report of a Joint WHO/FAO Expert Consultation). Più recentemente l’High Level Group on Nutrition and Physical Activity della Commissione Europea ha indicato fra gli obiettivi preminenti la riduzione del consumo di sale nella misura del 16% in quattro anni iniziando dal 2008 (riduzione del 4% per anno).
Guadagnare salute
In relazione queste raccomandazioni, il Programma GUADAGNARE SALUTE annovera tra i suoi obiettivi la riduzione del consumo di sale in Italia. Il Ministero della Salute nel 2009 ha siglato un accordo di collaborazione con le associazioni dei panificatori artigianali e con l’industria per la riduzione del contenuto di sale nel pane del 15% circa in due anni. Tale attività è iniziata in molte regioni. D’altra parte, un importante limite delle campagne di salute pubblica è in genere la valutazione della loro efficacia. Sistemi di sorveglianza sono necessari per valutare che la riduzione del sale nella alimentazione raccomandata a livello di popolazione sia poi realmente realizzata su campioni rappresentativi di popolazione generale (l’unico esame valido per questa valutazione è il contenuto di sale nelle urine delle 24 ore, esame piuttosto complesso da realizzare a livello di popolazione, perché richiede da parte delle persone arruolate nel sistema di sorveglianza un impegno non indifferente, pensate solo al raccogliere le urine in un contenitore per 24 ore! Come pure i problemi per realizzare le analisi di laboratorio in un unico centro perché la variabilità della misura dovuta alle varie tecniche può portare risultati diversi) e registri di popolazione vengano impiantati (o possano seguire le attività di registrazione degli eventi) in aree rappresentative della realtà italiana. Oggi questi sistemi stanno diventando sempre più difficili da portare avanti perché necessitano di criteri diagnostici standardizzati comuni in tutte le regioni!
Minisal
Nell’ambito dello stesso programma GUADAGNARE SALUTE è anche iniziato nel 2009 il Programma MINISAL-GIRCSI (Gruppo di Lavoro Interdisciplinare per la Riduzione del Consumo di Sale in Italia) che, attraverso l’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare/Health Examination Survey e la rete pediatrica della SIGENP, ha permesso di ottenere una valutazione del consumo di sodio, potassio e iodio di un campione rappresentativo di popolazione adulta (n=4500 tra 35 e 79 anni) e pediatrica (n= 1500 tra 5 e 16 anni) stratificato per età, sesso e regione di residenza. Dei soggetti partecipanti all’indagine sono stati raccolti, attraverso un questionario, dati demografici, antropometrici e nutrizionali nonché informazioni sulle abitudini al consumo di sale; gli stessi inoltre sono stati sottoposti ad esami strumentali per la valutazione dello stato di salute. Nell’ambito dei vari esami, sono state raccolte le urine delle 24 ore per la valutazione della eliminazione di sodio, potassio, iodio e creatinina, indicatori validati del consumo di sale alimentare, del consumo di frutta e verdura e dell’introito di iodio. Nell’ambito del programma MINISAL è stata anche eseguita la valutazione del contenuto di sale in un numero rappresentativo di campioni di pane prelevati in esercizi commerciali di 12 regioni italiane. Dati preliminari del programma MINISAL sono stati già presentati in numerose riunioni scientifiche nazionali e internazionali e sono attualmente in corso di pubblicazione. Essi indicano che il consumo medio di sale pro capite degli Italiani, sia adulti che giovani, è tra i più alti tra i Paesi europei ed è rimasto sostanzialmente invariato rispetto alle stime, pur parcellari ed imprecise, fornite da precedenti osservazioni (11g al giorno negli uomini e 9g al giorno nelle donne).
In conclusione, l’esperienza scientifica e il dibattito sulla applicazione dei risultati della ricerca in salute pubblica deve basarsi sui risultati non solo dei trial più recenti, ma sulla esperienza di studi osservazionali, inclusi quelli ecologici, degli studi sperimentali sugli animali, dei trials randomizzati e dei sistemi di sorveglianza basati su metodologie standardizzate e con criteri diagnostici validati per valutare il trend dei fattori di rischio e delle malattie. Inoltre, se possibile, non limitandosi a valutare solo la singola patologia, ma a far riferimento all’insieme delle patologie cronico-degenerative, fatali e non fatali. Non dimentichiamo infatti che come epidemiologi e ricercatori interessati alla salute pubblica abbiamo l’impegno di mantenere le persone in salute più a lungo possibile, dando la conoscenza e gli strumenti per la realizzazione di una prevenzione globale (che brutto termine, con questo vorrei ricordare che non possiamo suggerire cosa mangiare a pranzo per prevenire i tumori, cosa mangiare a cena per prevenire il diabete e cosa mangiare a colazione per prevenire le malattie cardiovascolari!) e non aspettare di aiutarle quando diventano pazienti affetti da singole patologie.
Storia del sale
Le malattie cardiovascolari (CVD) rappresentano la prima causa di morte nelle persone di età superiore ai 60 anni e la seconda per quelle comprese tra 15 e 59 anni. Pressione arteriosa (PA) e colesterolo insieme al fumo di sigaretta spiegano più dell'80% delle CVD, ma, fra questi, gli elevati livelli della PA sono il fattore di rischio in assoluto più importante. Secondo il World Health Report del 2002 dell’OMS (Vedi: WHO: The World Health Report. Reducing risk, Promoting Healthy Life.World Health Organization, Geneva 2002), il 62% degli accidenti cerebrovascolari e il 49% dei casi di cardiopatia ischemica sono attribuibili agli elevati livelli della pressione arteriosa. La relazione fra PA e CVD è lineare e continua, a partire da valori di 115/75mmHg, il che significa che nella maggior parte dei paesi oltre l'80% degli adulti sono a rischio di CVD. La maggioranza degli eventi imputabili a CVD si verifica nella fascia normale-alta di PA (ossia circa 130/80) proprio perché la maggior parte della popolazione ha livelli di PA attorno a tale livello; pertanto una azione preventiva sullo stile di vita di questa fascia di popolazione potrebbe, proprio perché così numerosa, portare un notevole impatto sulla incidenza delle MCV (Vedi: Le strategie della Medicina Preventiva, di G. Rose ).
Il ruolo di un eccessivo introito di sale è stato ampiamente studiato. Studi ecologici (INTERSALT e INTERMAP) hanno messo in evidenza, in diverse popolazioni, la stretta relazione esistente tra l’abituale assunzione di sodio, la prevalenza di ipertensione arteriosa e l’aumento dei valori di PA con l’avanzare dell’età; si tratta di studi importanti condotti su oltre 10.000 uomini e donne di età 20-59 anni provenienti da 52 campioni di popolazione di arruolati in 32 paesi sparsi nel mondo. Una relazione significativa e indipendente è stata evidenziata fra l’escrezione di sodio nelle urine delle 24 ore (è questo l’esame più attendibile per valutare il consumo di sale) e la pressione arteriosa sistolica; analoga relazione indipendente è stata evidenziata fra BMI (indice di massa corporea, indicatore che considera peso e altezza contemporaneamente) ed escrezione di sodio e potassio nelle urine, come pure consumo di alcool e pressione arteriosa sistolica e diastolica (Vedi: Intersalt Cooperative Research Group. Intersalt revisited: further analyses of 24 hour sodium excretion and blood pressure within and across populations BMJ 1996).
Studi su modelli animali hanno chiaramente dimostrato il nesso di causalità fra assunzione di sale ed elevati valori pressori (Vedi: The effect of increased salt intake on BP in chimpanzees. Nature Medicine).
Due trial clinici (DASH) hanno dimostrato che modificando le abitudini alimentari dalla normale alimentazione statunitense ad una alimentazione più vicina a quella nostra mediterranea, si riduce sostanzialmente la pressione sistolica e diastolica sia nei soggetti normotesi che in quelli ipertesi. Una sostanziale riduzione è stata osservata nel gruppo di persone che oltre alla alimentazione avevano anche ridotto molto il consumo di sale. La dieta DASH è basata su un alto consumo di frutta e verdura, sul consumo di prodotti a basso (o nessun) contenuto di grassi, ridotto consumo di carni rosse o altri prodotti di origine animale, e limitato consumo di dolci e bevande zuccherine. Purtroppo questi trials, nonostante abbiano indicato che molti di questi nutrienti possono influenzare la pressione arteriosa, tuttavia non hanno prodotto una conclusione definitiva sul ruolo dei singoli nutrienti nei riguardi della pressione arteriosa.
Una metanalisi di 20 studi clinici controllati, sia in pazienti ipertesi che in soggetti normotesi, hanno dimostrato la capacità che una moderata riduzione del consumo di sale (5g) riduce significativamente la PA, abbassando di 5,1mmHg la pressione arteriosa sistolica e di 2.7 mmHg la pressione diastolica (Vedi: Effect of longer-term modest salt reduction on blood pressure. Cochrane Database of Systematic Reviews 2004).
Una metanalisi di 14 studi prospettici che ha incluso oltre 155.000 partecipanti di 6 differenti paesi e ha raccolto 5350 ictus e 5160 eventi coronarici, che avevano la disponibilità di dati sul consumo di sale: il più alto consumo di sale è associato a più alto rischio di ictus e per ogni consumo medio di 5g di sale al giorno è associata ad una differenza statisticamente significativa del 23% di rischio in più per ictus; valutando le analisi sui singoli studi un trend diretto di associazione è stato osservato in 9 coorti, solo in tre coorti il trend era inverso, ma non significativo. I dati sulla associazione con la cardiopatia coronarica vanno nella stessa direzione anche se meno evidenti (14% in meno per variazioni di 5g di sale al giorno). In realtà ho sottolineato i risultati sull’ictus perrchè in Italia, paese considerato a basso rischio coronarico, il rischio di ictus è molto elevato, proprio per la elevata prevalenza di ipertensione arteiosa, di abitudine al fumo di sigarette e di obesità, soprattutto nelle regioni meridionali. [Vedi: Salt intake, stroke and cardiovascular disease: metaanalysis of prospective studies. BMJ 2009 Nov 24).