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Un poligrafo avrebbe salvato Troy Davis?

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La notizia della morte di Troy Davis, condannato in Georgia (USA) alla pena capitale per omicidio, ha fatto il giro del mondo. Il fatto risale a una calda notte di agosto del 1989. Mark MacPhail, guardia notturna in servizio, si dirigeva verso un gruppo di persone (tra cui Troy Davis, giovane di colore) che stavano malmenando un uomo, colpito poi da uno sparo mortale.

Nel primo processo, svoltosi nel 1991, svariati testimoni affermavano di aver visto Troy Davis premere il grilletto, ma nei successivi venti anni non è mai stata ritrovata l’arma del delitto nè alcuna prova fisica contro di lui. Recentemente la maggior parte dei testimoni oculari ha ritrattato la propria versione, giustificandosi per lo più con le forti pressioni ricevute dalla polizia investigativa all’epoca dei fatti o con errori di memoria.  Dopo anni di battaglia contro la pena di morte e richieste di clemenza per Davis, sostenute da numerose associazioni internazionali e personaggi di rilievo (tra cui l’ex presidente Jimmy Carter e Papa Benedetto XVI), la difesa ha richiesto in extremis alla polizia carceraria di poter sottoporre Troy Davis a un test poligrafico per dimostrare la verità. La richiesta è stata respinta e Davis è stato giustiziato con un’iniezione letale il 21 settembre scorso.

Ma cosa si intende quando si parla di “poligrafo”?  Sarebbe potuto effettivamente essere uno strumento utile in questo o in altri casi giudiziari per dimostrare l’estraneità ai fatti dell’imputato?

Attualmente sono presenti sul mercato diverse tecnologie di lie detection (letteralmente: accertamento della verità). La più diffusa è il poligrafo basato sul Control Question Test o sul Guilty Knowledge Test. La macchina registra le risposte fisiologiche del soggetto, come la pressione sanguigna o la respirazione. Nel primo caso (CQT), al soggetto vengono proposte domande che prevedono risposte di tipo si/no (ad esempio: “hai sparato a tua moglie?”), e si comparano quelle rilevanti per il caso concreto ad altre domande marginali di cui la risposta è certa (ad esempio: “hai i capelli rossi?”). Il secondo paradigma (GKT), invece, mira a valutare la rilevanza di un’informazione comparando le sue diverse risposte fisiologiche del soggetto a domande rilevanti e neutre. Nel caso di furto di un gioiello in oro bianco, ad esempio, la sequenza di domande potrebbe essere “Era l’anello di oro giallo? Era l’anello di oro bianco?” Il ladro, a conoscenza della risposta, dovrebbe avere una reazione fisiologica più accentuata in corrispondenza della seconda domanda.

Le neuroscienze hanno consentito lo sviluppo di nuovi e più sofisticati metodi di lie detection: uno dei più studiati prevede l’applicazione del paradigma del Guilty Knowledge Test alla risonanza magnetica funzionale, per “vedere” direttamente cosa accade nel cervello quando una determinata immagine o domanda viene proposta al soggetto. A un iniziale entusiasmo per questa nuova tecnica, tuttavia, è seguito il monito di un gruppo di ricercatori guidati da Giorgio Ganis, della Medical School di Harvard, i quali hanno segnalato l’estrema facilità di “imbrogliare” la macchina con semplici contromisure, quali il movimento di un dito, un piede o il pensiero di qualcosa di completamente diverso. La affidabilità dei risultati crollerebbe addirittura da un iniziale 100% al 33%.

A oggi non esiste ancora una vera “macchina della verita”, anche se alcune compagnie statunitensi hanno già commercializzato nuove versioni di lie detection basate sulla risonanza magnetica (CEPHOS, NoLie fMRI). La percentuale di affidabilità delle diverse tecniche nei vari studi oscilla tra il 60% al 95%, ma nessun test,  ad oggi, ha mai superato il vaglio di ammissibilità delle corti penali.

Rivolgendo uno sguardo al caso di Troy Davis, ci si chiede se davvero la testimonianza oculare sia più affidabile di qualunque altra scienza. Un recentissimo report proposto dall’esperto Geoffrey Gaulkin alla Corte Suprema del New Jersey ha dimostrato che la scienza forense può certamente essere imprecisa, ma la testimonianza comporta i rischi maggiori. Brandon Garret, professore all’Università della Virginia (USA) ha riportato nel suo libro “Convicting the Innocent” che gli errori di identificazione dei testi oculari hanno causato ben 190 dei primi 250 casi di errore giudiziario scoperti grazie ai test del DNA.  

Forse, come sosteneva l’avvocato di Davis, “il poligrafo non avrebbe provato la verità al di là di ogni dubbio, ma avrebbe potuto fornire qualche indizio in più sulla sua innocenza”. Al momento la tecnologia di lie detection non è da considerarsi affidabile e ammissibile in giudizio, ma una riflessione in più sul presente grado di esattezza e affidabilità delle testimonianze è inevitabile. Soprattutto nei casi di condanna alla pena di morte.

Ganis, G., et al. (2011). Lying in the scanner: Covert countermeasures disrupt deception detection by functional magnetic resonance imaging. Neuroimage, 55, pp. 312-319.
Wolpe P. et al. (2005). Emerging Neurotechnologies for Lie Detection: Promises and Perils,  American Journal of Bioethics, 5, pp. 39-49.
Garret B., (2011). Convicting the Innocent: Where Criminal Prosecution Go Wrong, Harvard University Press.


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