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I giudici europei e le staminali embrionali

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Dopo l'articolo di Alessandro Blasimme, Giovanni Boniolo riprende la discussione sulla sentenza UE appena approvata sulle cellule staminali per cercare di definire e chiarire la situazione.

Nei giorni scorsi c’è stata una, per certi versi sorprendente, sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Essa riguardava il caso (Judgment in Case C-34/10) di Oliver Brüstle contro Greenpeace e, dove il primo è uno scienziato tedesco che aveva brevettato un procedimento in cui staminali embrionali umane erano usate anche in una potenziale terapia per il morbo di Parkinson, la seconda, è una ben nota organizzazione che voleva opporsi a tale passo. Ebbene, la Corte di Giustizia ha deciso che: “A process which involves removal of a stem cell from a human embryo at the blastocyst stage, entailing the destruction of that embryo, cannot be patented”, con la specificazione che “The use of human embryos for therapeutic or diagnostic purposes which are applied to the human embryo and are useful to it is patentable, but their use for purposes of scientific research is not patentable”.

Questa sentenza ha scatenato emozioni (più che ragionamenti) a favore e contro, soprattutto a partire dalle emozioni (più che dai ragionamenti) che si avevano nei confronti dell’uso delle staminali embrionali umane. In realtà la questione dovrebbe essere esaminata separando quello che c’è da separare, in modo da poterla così valutare meglio e in modo da imparare qualcosa da essa.

Prima di tutto la sentenza esplicita non vuole essere un giudizio etico ma solo una valutazione giuridica. Questo, come in generale il rapporto fra etica e diritto, è un punto importante sul quale vale la pena riflettere. Molte volte chiamiamo giudici o avvocati a esprimere pareri etici su questioni legate alla biomedicina e loro rispondono in termini di leggi. Ma questo è un madornale errore categoriale. Come ben si sa, vi sono leggi e sentenze che sono eticamente sostenibili e altre che sono eticamente insostenibile, mentre vi sono azioni che valutiamo come eticamente sostenibili e che sono anche legali, ma ve ne sono altre che sono illegali (secondo una data giurisprudenza). Insomma, legge ed etica sono due cose da tenere ben distinte. Questo significa che la sentenza della Corte di Giustizia può essere valutata (positivamente o negativamente) sia dal punto di vista giuridico che da quello etico, ma utilizzando tecniche diverse, come la diversità degli approcci lo richiede, e senza mai mescolare indebitamente i due campi.

Il secondo punto riguarda il fatto che è in oggetto la brevettabilità di procedimenti coinvolgenti staminali embrionali umane e non solo l’usabilità di quest’ultime. Questo significa che ci possono essere coloro che pur essendo favorevoli alla possibilità del loro utilizzo, sono tuttavia contrari alla brevettabilità del procedimento che le vede coinvolte, magari perché sono contrari a qualunque forma di brevettabilità di processi aventi a che fare con tratti della vita (specie se umana). Perciò, se si vuole un buon dibattito (etico e giuridico) sulla sentenza, bisogna tenere ben distinta la questione della brevettabilità da quella dell’uso di staminali embrionali umane e solo dopo averle esaminate separatamente si dovrebbe riflettere sulla prima in relazione alla seconda.

Il terzo punto riguarda alcuni aspetti della sentenza che sono problematici non tanto dalla prospettiva etica o giuridica, quanto da quella metodologica ed epistemologica. Andiamo a vederli. Uno è contenuto in un passo che ho già ricordato, ossia: “The use of human embryos for therapeutic or diagnostic purposes which are applied to the human embryo and are useful to it is patentable, but their use for purposes of scientific research is not patentable”. In pratica si sostiene che mentre la ricerca sugli embrioni umani e i risultati ottenuti non possono essere brevettabili, lo può essere il loro uso terapeutico o diagnostico (almeno quello finalizzato, come sembra, agli embrioni stessi). Questo è interessante perché si sostiene che esista una differenza fra ricerca e sua applicazione. Ma come appare evidente non sempre è possibile tracciare una differenza netta e la generalizzazione di questo aspetto della sentenza diventa assai problematico e difficilmente giustificabile (anche una legge o una sentenza dovrebbero essere giustificate, o almeno si lo auspicherebbe! Nel caso in esame, sfortunatamente, la giustificazione è talmente vaga da essere imbarazzante per qualunque cittadino non confonda un pregiudizio etico con una posizione etica: “[we] intended to exclude any possibility of patentability where respect for human dignity could thereby be affected”). D’altro canto, la non brevettabilità di procedimenti di ricerca (nello specifico di procedimenti di ricerca coinvolgenti embrioni umani), come già accennato sopra, è un argomento assai controverso per le conseguenze negative e positive (anche per la ricerca stessa) che sia la brevettabilità sia la non brevettabilità comportano. Conseguenze che dovrebbero essere valutate e discusse con spirito meno ideologico possibile tenendo in gran considerazione come la scienza contemporanea funzioni dal punto di vista economico e quale sia lo stato attuale dell’economia mondiale.

La seconda questione epistemologica che vorrei sottolineare è l’uso un po’ troppo disinvolto che nella sentenza si fa della definizione. Come tutti sappiamo, la definizione di un termine è un atto stipulativo attuato dentro una certa comunità (a meno che qualcuno non pensi che sia possibile afferrare veramente con un termine ciò che c’è in “natura”, ma spero che in ambito scientifico ci siano meno metafisici ingenui di quanti ce ne sono in ambito filosofico). Per cui che la sentenza allarghi la definizione di ‘embrione umano’ come fa non dovrebbe essere tanto sorprendente (“[It is] in the view of the Court, that the concept of ‘human embryo’ must be understood in a wide sense. Accordingly, the Court considers that any human ovum must, as soon as fertilised, be regarded as a ‘human embryo’ if that fertilisation is such as to commence the process of development of a human being. A non-fertilised human ovum into which the cell nucleus from a mature human cell has been transplanted and a non-fertilised human ovum whose division and further development have been stimulated by parthenogenesis must also be classified as a ‘human embryo’. Although those organisms have not, strictly speaking, been the object of fertilisation, due to the effect of the technique used to obtain them they are capable of commencing the process of development of a human being just as an embryo created by fertilisation of an ovum can do so.”). All’interno della comunità di coloro che hanno steso la sentenza si è deciso di fornire quella definizione, e così sia. Fin qui nulla di male (né dal punto di vista epistemologico, né dal punto di vista etico o sociale). Quello che però sorprende (e fa un venire più di una mosca al naso, e non solo dal punto di vista epistemologico) è che una comunità estremamente piccola come quella che ha scritto la sentenza si arroghi il diritto di far valere la sua definizione a una comunità estremamente più grande (come quella dei cittadini dell’Unione Europea) e in forte contrasto con la definizione dello stesso termine accettata in ambito dell’unica comunità che probabilmente è legittimata a proporla, ossia quella scientifica. Insomma, non mi pare così bello che un giudice si alzi in piedi e dica: “Io sono la legge, e la definizione di questo termine è quella che io ho deciso!”.

Come si intuisce da quanto sopra, la sentenza andrebbe discussa e valutata (e criticata), anche per imparare da essa, ma forse avrebbe senso che nel farlo si distinguessero i piani, si evitasse di ricorrere a ideologie dogmatiche o a credenze religiose certe di essere depositarie della verità, ossia si evitasse di proporre i propri pregiudizi morali ma che, invece, si prospettassero le proprie posizioni morali.


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