Siamo abituati a pensare al Medioevo come all’epoca in cui la ragione era offuscata da leziose dispute teologiche, avulse da qualunque tentativo di conoscenza della natura. Ma chi si occupa di scienza e si imbatte nel percorso della Divina Commedia scopre che Dante dimostra una sorprendente attenzione alla descrizione dei fenomeni naturali, dal movimento degli astri alle macchie della luna, dai fenomeni geologici al comportamento degli animali, dal moto relativo alle molteplici manifestazioni associate alla luce. Proprio la luce, per il suo valore simbolico e al tempo stesso per la varietà e la bellezza delle sue manifestazioni fisiche, finisce per giocare un ruolo centrale nella scenografia della Commedia. Così, ad esempio, uno dei fenomeni più spettacolari che ha per protagonista la luce, l’arcobaleno, viene descritto nel Purgatorio:
E come l’aere, quand’è ben pïorno,
per l’altrui raggio che ‘n sé si reflette,
di diversi color diventa addorno.
[Pur XXV (91-93)]
Troviamo qui dipinta con mirabile sintesi poetica l’immagine dell’aria che si adorna dei diversi colori. Ma soprattutto colpisce il fatto che, nella stessa terzina, Dante senta il bisogno di accennare anche al meccanismo fisico che causa il fenomeno: l’arcobaleno appare allorché la luce del sole (l’altrui raggio) si riflette nell’aria (in sé si riflette) quando essa è densa di umidità (ben pïorno). L’espressione in chiave estetica è tutt’uno con il principio fisico, descritto così come poteva esserlo nel 1300, che sta alla base del fenomeno osservato. Ancora nel Purgatorio Dante ha questo notevole passaggio:
Come quando da l’acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l’opposita parte,
salendo su per lo modo parecchio
a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperïenza e arte;
[Pur XV (16-21)]
Si tratta di una descrizione accurata di quella che oggi chiamiamo “legge della riflessione”: il raggio riflesso viene deviato rispetto alla verticale (dal cader de la pietra) di un angolo che è pari all’angolo di incidenza. La definizione rigorosa espressa in versi mostra come Dante non senta alcuna estraneità o diffidenza nei confronti al meccanismo fisico, anzi, se ne serve per dare forza e sostanza alla sua analogia. Lo sguardo di Dante al mondo naturale è ben diverso dalla nostra mentalità moderna: per noi la descrizione quantitativa del fenomeno fisico è rigidamente separata da qualunque forma espressiva della sua bellezza ed eventualmente del suo significato. Oggi non ci verrebbe mai in mente, scrivendo un articolo scientifico, di concederci un cenno alla bellezza dell’oggetto di indagine, né in un testo poetico di dare una descrizione rigorosa di un fenomeno fisico in questione.
Questi esempi, appena accennati, sono sufficienti a far sorgere la domanda: da dove viene l’affezione profonda e l’attenzione che Dante dimostra di avere nei confronti del mondo naturale? Qual è l’origine del suo sguardo unitario, curioso del dettaglio e, al tempo stesso, teso alla totalità dell’oggetto, fino al suo significato? Più avanti, nel I Canto del Paradiso, egli scrive:
…Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante
Qui veggion l'alte creature l'orma
de l'etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Nell’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro ve men vicine.
[Par I (103-111)]
Per Dante le cose, tutte le cose, hanno ordine tra loro. Questo è un principio ardito, profondo, generativo; la luna, le stelle, gli alberi, gli animali, le pietre, ogni creatura è voluta in un ordine cosmico: la natura è compaginata in funzione di uno scopo. E quest’ordine è forma che l’universo a Dio fa simigliante. La sapienza con cui le cose sono fatte porta in sé il segno del Creatore. Questo dev’essere stato il cuore di Dante mentre guardava quell’arcobaleno o quel raggio di luce riflesso nello specchio dell’acqua. Ogni cosa, ogni particolare è significativo in quanto in esso risplende l’etterno valore, e per questo è degno di essere osservato e conosciuto. Si tratta di un pensiero potente, un pensiero necessario al sorgere e al primo sviluppo della scienza moderna. Ma anche per noi oggi credere che le cose tutte quante abbiano ordine tra loro è un presupposto essenziale alla ricerca. Possiamo studiare i confini dell’universo osservabile, o cercare la particella di Higgs, e fare grossi investimenti in queste direzioni, solo se siamo pronti a scommettere sul fatto che anche in quei remoti lembi della realtà ci sia un ordine a noi in qualche modo accessibile.
Ma è forse nella sua visione cosmologica che Dante tocca il vertice di quell’aspetto della sua genialità che potremmo chiamare “pre-scientifico”. Per la verità l’universo di Dante, come normalmente viene raffigurato, si presenta come una struttura piuttosto strana e disunita. La Terra naturalmente è al centro, con i gironi infernali al suo interno, ed è circondata dalle sfere dei pianeti, seguite dal cielo delle stelle fisse, poi dal Primo Mobile e infine dall’Empireo, sede esclusiva del divino. Ma nello schema dantesco c’è anche una struttura aggiuntiva, che si trova separata, al di fuori del Primo Mobile, composta dai nove cerchi angelici, e la “candida rosa” che appare normalmente in una zona intermedia dello schema. Insomma, l’immagine del cosmo dantesco è a prima vista alquanto sconnessa, fatto singolare per un autore che ha mostrato una così grande tensione all’armonia e all’unità.
Nel Canto XXVII del Paradiso Dante sembra far sua la classica impostazione geocentrica medievale, ereditata dalla scuola aristotelica. Dopo averci descritto nei canti precedenti l’ascesa attraverso tutti i cieli, quando giunge con Beatrice alle soglie del Primo Mobile afferma:
Luce e amor d'un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
Colui che 'l cinge solamente intende
[Par XXVII (112-114)]
In piena coerenza con l’immagine classica, l’Empireo è qui descritto come un cerchio di luce ed amore che circonda l’universo sensibile. E ancora, riferito al Primo Mobile:
Le parti sue vivissime ed eccelse
sì uniforme son, ch'i' non so dire
qual Beatrice per loco mi scelse
[Par XXVII (100-102)]
Il maggior corpo è luminosissimo e talmente uniforme che Dante non riesce a identificare il punto della sfera che Beatrice ha scelto per passare oltre, per entrare nell’Empireo. Ma quando nel canto XXVIII Dante e Beatrice si affacciano al ciel ch'è pura luce Dante ci racconta qualcosa di inaspettato: egli si trova davanti un altro universo (XXVIII, 71), fatto anch’esso di nove cerchi concentrici, la sede delle schiere angeliche che ruotano intorno a un punto: Da quel punto depende il cielo e tutta la natura (XXVIII, 41-42). Dio è dunque un punto infinitesimo e luminosissimo attorno al quale ruota una festa cosmica, l’Empireo strutturato in cerchi di fuoco. Quindi, si direbbe, in questa scena l’Empireo non è più posto intorno al Primo Mobile, come vuole la tradizione, ma sembra comporre un secondo universo esterno a quello sensibile. Insomma, una descrizione che appare palesemente contraddittoria. Inoltre, in questo schema il passaggio attraverso il Primo Mobile deve avvenire in un punto ben preciso, una “soglia” che conduce all’Empireo, contrariamente a quanto affermato in XXVII, 100-102.
Possibile che dopo tanta geniale e accurata narrazione, giunto al culmine del suo viaggio umano e cosmico Dante ci proponga un’architettura tanto precaria per l’universo? Ebbene, la considerazione attenta delle parole del Poeta induce a ipotizzare una lettura diversa, ardita ma a mio parere convincente, che fu proposta per la prima volta dal matematico tedesco Andreas Speiser nel 1925 e poi argomentata da vari autori. La contraddizione presuppone che noi stiamo immaginando di inserire l’universo descritto nelle terzine di Dante in uno spazio Euclideo. Supponiamo di disegnare lo schema dei cerchi concentrici non su un foglio piano, ma su un foglio sferico, a forma di mappamondo. Raffiguriamo la Terra come un polo, circondata dai cieli dei pianeti che tracciamo come cerchi che si allargano via via. Il più grande è il Primo Mobile, che corrisponde all’equatore della nostra mappa sferica. Andiamo avanti, attraversando l’equatore, e ci troviamo nell’altro emisfero. Qui troviamo i nove cerchi dell’Empireo, che convergono in un punto, “il Punto” dal quale depende il il cielo e tutta la natura.
In questo modo ogni contraddizione è risolta. Inoltre non c’è bisogno di alcuna “soglia” particolare che ci faccia passare dall’universo terreno a quello divino: ogni punto del Primo Mobile è equivalente a tutti gli altri. Naturalmente i cerchi tracciati sulle mappe, sia su quella piana che su quella curva, corrispondono nella realtà a delle serie di sfere concentriche. Nel primo caso, che corrisponde al classico schema aristotelico, i cerchi rappresentano le sfere di dimensione crescente dei pianeti, delle stelle fisse, del Primo Mobile e infine dell’Empireo. Non abbiamo alcun problema a immaginare questa geometria nelle tre dimensioni. Lo schema disegnato sul mappamondo, invece, tradotto nello spazio tridimensionale pone un problema di immaginazione. Via via che ci allontaniamo dal punto centrale (la Terra), le sfere aumentano di dimensioni fino al Primo Mobile. Andando ancora oltre si passa alle sfere dell’Empireo, le quali diminuiscono sempre di più fino a stringersi attorno al Punto divino. Eppure queste sfere più piccole circondano le sfere più grandi! Il Punto divino, pur essendo una sfera infinitesima, viene a comprendere tutte le sfere dell’universo. In questa visione il punto che rappresenta Dio risulta essere il centro dell’universo, e al tempo stesso lo circonda in ogni direzione, come Dante esplicitamente afferma nel Canto XXX (11-12): parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude.
Non è possibile visualizzare in modo diretto questa situazione, ma per noi oggi è facile descriverla dal punto di vista matematico: si tratta di aggiungere una quarta coordinata all’equazione della sfera, ottenendo così quella che nel linguaggio della geometria moderna chiamiamo una “3-sfera” o “ipersfera”. Ma per Dante, privo dello strumento matematico, l’intuizione di uno spazio curvo non-Euclideo fu certamente una intuizione straordinaria. D’altra parte, come ha notato William Egginton (On Dante, hypersphere, and the curvature of the medieval cosmos, J. Hist. Ideas – V. 60, N.2, pp. 195-216, 1999), nel Medioevo vi era probabilmente una maggiore libertà immaginativa nei confronti del paradigma Euclideo, così forte per noi moderni.
E’ sorprendente il fatto che l’universo non-Euclideo di Dante presenti forti analogie con la geometria dello spazio-tempo secondo la cosmologia scientifica attuale, descritta nell’ambito della Relatività Generale di Einstein e sostenuta da molteplici e sempre più accurate osservazioni. I dati astrofisici ci mostrano che l’universo è altamente omogeneo su grandi scale. Quanto più gli oggetti che osserviamo sono lontani dalla Terra, tanto più ci appaiono come essi erano nel passato, perché la luce impiega un tempo sempre più lungo per arrivare fino a noi. Ma poiché l’universo è in espansione, le informazioni che noi riceviamo dal lontano passato ci mostrano un universo molto più piccolo di quello attuale. Quindi ovunque noi guardiamo nel cielo verso l’ultima sfera che circonda l’universo osservabile stiamo guardando verso un singolo punto dello spazio-tempo, il punto dal quale ha avuto origine l’universo: “Da quel punto depende il cielo e tutta la natura”.
Naturalmente Dante non era uno scienziato moderno. Grazie ai progressi della scienza la nostra conoscenza del cosmo e della natura oggi è immensamente più vasta e dettagliata di quella dei medievali (chissà quanto avrebbe goduto Dante a conoscere anche solo una piccola parte di quello che abbiamo compreso oggi sulla struttura dell’universo e sulla simmetria delle leggi della fisica!). Ma forse noi moderni rischiamo di perdere la cosa più preziosa: quella gratitudine, quell’ampiezza della ragione, quella tensione all’unità, quel “senso del mistero” che doveva ardere nello sguardo e nel cuore di Dante Alighieri e che, come diceva Einstein, “è il seme di ogni arte e di ogni vera scienza".