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Il colonialismo mascherato del mercato delle terre

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Cronache e riflessioni degli ultimi tempi si interessano sempre più a fenomeni legati allo sfruttamento e alla svendita dei beni comuni. È accaduto, prima, con l'acqua – soprattutto in occasione del referendum di giugno – e, ultimamente, con il territorio, minacciato dal crescente consumo di suolo. Media e cittadini tendono però a considerare il territorio collegandolo al paesaggio, mentre le dinamiche vincolate all'agricoltura faticano a essere rappresentate e percepite.

Differente è il caso dell'ultima indagine di Stefano Liberti, il primo reportage interamente dedicato all'analisi dell'“accaparramento della terra”, espressione con cui si potrebbe tradurre quel land grabbing contenuto nel titolo dell'opera. L'attenzione del giornalista, collaboratore di diverse testate e vincitore del premio Indro Montanelli nel 2009 per A sud di Lampedusa, si concentra infatti sulla vendita e il leasing di rilevanti porzioni di suolo fertile, che nella loro globalità ammontano a circa 60 milioni di ettari, una superficie prossima a quella della Francia, e i cui effetti hanno giocato un ruolo importante anche per l'inizio della primavera araba.

Gli attori coinvolti in questo fenomeno - le cui origini appaiono profondamente intrecciate con la crisi economica iniziata nel 2007-08 - sono molteplici ed eterogenei. Da una parte i paesi in via di sviluppo, e in particolare del continente africano, che mettono a disposizione le loro terre per cifre irrisorie, come ad esempio l'Etiopia, dove un ettaro può arrivare a essere ceduto per un dollaro all'anno, secondo accordi la cui durata sfiora il secolo (99 anni). Dall'altra parte, quella della domanda, incontriamo multinazionali dell'agribusiness, istituzioni finanziarie e, infine, paesi con elevate disponibilità economiche ma con gravi difficoltà di sovranità alimentare. Tra quest'ultimi è emblematica la strategia adottata dall'Arabia Saudita, che nel 2009 ha creato un fondo di investimento per stimolare l'acquisto di terre all'estero e, più in generale, azioni volte a garantire l'approvvigionamento di beni alimentari.

Liberti ricostruisce le relazioni che si stabiliscono tra venditori e acquirenti senza limitarsi all'esposizione degli interessi e delle motivazioni su cui si fondano simili rapporti, ma riesce a  descriverne la loro natura; una natura che il più delle volte sembra assumere la fisionomia di nuovo colonialismo, in cui la terra smette di essere un bene comune, per trasformarsi in una commodity di mercato. Ricostruzione e descrizione del land grabbing che non ricadono in posizioni moralistiche o semplificatorie, ma che piuttosto prendono la forma di una narrazione ricca di dettagli e sensazioni, restituendo, con lucidità e passione, gli scenari e i personaggi incontrati dall'autore nei tre anni di ricerca che lo hanno portato a esplorare l'“accaparramento delle terre” in quattro continenti.


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La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.