“Il miglior metodo che abbiamo per ridurre il rischio di cancro al seno è interrompere i programmi di screening. Così facendo il rischio di cancro al seno potrebbe diminuire di un terzo nelle fasce di età soggette a screening mentre il livello di sovradiagnosi di circa il 50 per cento nei Paesi in cui sono attivi programmi di screening”. Questa è quanto afferma Peter C. Gøtzsche del Nordic Cochrane Centre di Copenhagen, nell’editoriale che lo scorso 22 novembre ha accompagnato la pubblicazione, sul Canadian Medical Association Journal, dell’aggiornamento delle raccomandazioni canadesi sullo screening per il cancro al seno.
La sentenza restituisce il clima che negli ultimi anni aleggia intorno allo screening per il cancro al seno e che nelle scorse settimane ha portato i responsabili dei programmi di screening attivi in tutta Europa a pubblicare una lettera senza precedenti sulle pagine di the Lancet attraverso cui hanno lanciato un messaggio chiaro: “È in corso un’attiva campagna anti-screening […], basata su interpretazioni errate dei registri tumori e di articoli scientifici peer-reviewed”.
I toni possono parere sopra le righe e per niente confacenti a quelli che dovrebbero caratterizzare il confronto tra scienziati. E nei fatti lo sono. Tuttavia è proprio questa la china su cui sta declinando la riflessione sul tema, da quando, nel 2000, una revisione sistematica rimetteva in discussione i dati positivi delle metanalisi che avevano portato all’avvio dei programmi di screening in Europa nei primi anni Novanta.
Da allora al dibattito scientifico è venuta a mancare la precondizione essenziale: l’accordo sul metodo. Il risultato è stato quello di rendere legittima e sostenibile qualsiasi causa. Fino ad arrivare dal confronto allo scontro, perfino personale.
Così, se da una parte i programmi europei continuavano a produrre risultati che confermavano l’utilità dello screening mammografico eseguito secondo regole dettate dalle prove di efficacia, dall’altra quegli stessi studi erano contestati perché ritenuti di scarsa qualità oppure i dati venivano riletti sortendo risultati completamente diversi: più deboli e comunque sempre peggiori rispetto a quanto riscontrato dagli autori originali. La sovradiagnosi, cioè quella quota di tumori che non sarebbero diventati clinicamente rilevanti se non si fosse eseguito lo screening, è diventata uno spettro la cui ombra si è andata via via ampliando. E la riduzione della mortalità ottenuta attraverso l’applicazione degli screening è un’entità sempre più esile. Come dire, enormi rischi e minimi benefici. Se così fosse, non sarebbe campata in aria l’affermazione con cui Gøtzsche conclude il suo editoriale: “se gli screening fossero stati un farmaco, sarebbero già stati ritirati dal mercato”.
Ma nella realtà è così? I dati derivanti dai programmi di screening europei dicono tutt’altro. E gli screening sono ancora attivi proprio perché hanno saputo dimostrare la loro efficacia a fronte di rischi accettabili. Un’ulteriore forte conferma di ciò dovrebbe giungere, nei prossimi mesi, dalla pubblicazione dei risultati degli studi condotti su tutti i programmi di screening mammografico attivi in Europa.
Intanto, però, a preoccupare sono gli effetti che un dibattito uscito dai binari del rigore scientifico rischia di produrre sulle donne. E ancor più sui decisori politici che in tempi di risorse particolarmente scarse potrebbero dare maggior credito ai detrattori degli screening che a quanti li difendono. Chi contesta l’errore di metodo con argomentazioni che ai più possono parere astruse ha minor presa di chi smentisce grossolanamente la validità degli screening di popolazione. E le notizie “scandalistiche” sono più affascinanti di quelle banalmente buone. A questa logica dei media, almeno le riviste scientifiche dovrebbero sottrarsi.