I paradossi sono affermazioni che apparentemente esprimono una contraddizione logica tra premesse e conclusioni. Sollecitano il nostro intelletto fin dall’antichità: basti pensare ai paradossi di Zenone (il più popolare è comunemente conosciuto come paradosso di Achille e la tartaruga) o al micidiale paradosso di Epimenide – o paradosso del mentitore – e sono spesso di stimolo allo sviluppo del pensiero. Vi sono anche famosi paradossi moderni come il paradosso del barbiere, formulato da Bertrand Russel, ad esempio, che pone il problema di chi rade l’unico barbiere (che è un uomo ben sbarbato) in un villaggio dove “il barbiere rade tutti – e unicamente – coloro che non si radono da soli”.
Anche l’astronomia ha i suoi paradossi, il più celebre dei quali è senz’altro il paradosso di Olbers che si chiedeva come fosse possibile, in un Universo popolato da infinite stelle, che il cielo notturno fosse buio. Il problema era stato in realtà già sollevato da Keplero duecento anni prima che Olbers lo proponesse esplicitamente. Le premesse: che l’Universo avesse estensione infinita, che esistesse da sempre e fosse immutabile, e che fosse popolato da stelle distribuite uniformemente. La conclusione, cui si arrivava con un semplice ragionamento geometrico, era che il cielo avrebbe dovuto brillare in ogni suo punto con la stessa intensità delle stelle. Le ipotesi, all’epoca, erano senz’altro ragionevoli e consistenti con quanto si pensava e si sapeva, eppure... il cielo notturno era indubbiamente buio!
In prima battuta si cercò di risolvere il paradosso suggerendo che buona parte della radiazione emessa dalle stelle venisse assorbita da gas e polveri cosmiche. Lo stesso Olbers propendeva per questa soluzione (ricordiamo che all’epoca, non solo non era ancora noto il meccanismo che faceva brillare le stelle, ma nemmeno si sapeva che esistevano agglomerati di stelle – le galassie – al di fuori della Via Lattea). Questa spiegazione, tuttavia, si dimostrò presto fallace, giusto il tempo di realizzare che polveri e gas, assorbendo la luce delle stelle, si sarebbero dovuti scaldare sino a diventare luminosi essi stessi.
Successivamente, con la scoperta dell’espansione dell’Universo e del redshift cosmologico, si è pensato che questo desse ragione del paradosso di Olbers. In realtà calcoli successivi (si veda ad esempio: http://adsabs.harvard.edu/abs/ 1989JBAA...99...10W) pur riconoscendo un contributo dell’espansione dell’Universo alla soluzione del paradosso, stimano come ben più rilevante (e determinante) il fatto che la vita delle stelle è finita e limitata a meno di 13 miliardi di anni circa. Ecco quindi che la ragione del cielo buio è il poco tempo che ha avuto la luce per brillare.
Si può quindi dire che all’inizio non vi fosse un’adeguata conoscenza per poter realizzare che le ipotesi del paradosso non erano corrette. Man mano che questa conoscenza è andata aumentando si sono trovati dunque argomenti sempre più stringenti per risolvere il problema. “Se l’Universo brulica di alieni, dove sono tutti quanti?” È il titolo di un libro uscito qualche anno fa in cui l’autore, Stephen Webb, propone un certo numero di soluzioni al cosiddetto “paradosso di Fermi”, un altro famoso paradosso in ambito astronomico, che sottolinea l’apparente contraddizione tra l’immensità dell’Universo e il suo “silenzio”, contraddizione resa più acuta e attuale dalla quantità e varietà di pianeti extrasolari che vengono continuamente scoperti.
Per poco probabile che un evento sia, i grandi numeri che caratterizzano il Cosmo solitamente cospirano per far sì che l’evento diventi comune. Basti pensare alla transizione iperfine dell’atomo di idrogeno, che pur avendo una probabilità infima di accadere (2,6 x 1015 al secondo, che è come dire che mediamente si ha da aspettare circa 13 milioni di anni prima che in un atomo di idrogeno avvenga questa transizione), è talmente comune, grazie all’abbondanza dell’idrogeno, da essere uno strumento formidabile per l’osservazione radioastronomica delle galassie (si manifesta con l’emissione di una onda radio di lunghezza pari a 21 cm). E così pure deve essere per l’origine della vita e della sua successiva evoluzione e sviluppo in civiltà. Se è successo una volta (con noi) deve essere successo molte, molte altre volte.
Ma allora, dove sono tutti quanti? Ovviamente, perché il silenzio sia significativo, bisogna supporre che “gli altri” siano ben più avanti di noi (tecnologicamente parlando e non solo). Noi infatti siamo stati sino ad ora estremamente riservati e “silenziosi” e l’intervallo di tempo e di spazio in cui è avvertibile la nostra esistenza è talmente piccolo da essere cosmologicamente insignificante. D’altra parte, la nostra curva di sviluppo tecnologico è talmente ripida che non è difficile pensare che esistano civilizzazioni ben più avanzate della nostra. Tuttavia, non dobbiamo nemmeno credere che la crescita debba necessariamente continuare a essere esponenziale. E se invece seguisse un modello di crescita descritto da una curva logistica o a S? Non è difficile rendersi conto che le nostre conoscenze sullo sviluppo tecnologico, sulla possibilità e velocità di un’eventuale colonizzazione galattica con macchine auto-replicanti come quelle pensate da John von Neumann, sui comportamenti sociali e sulle priorità di altre civiltà e così via, sono alquanto limitate e primitive.
Le ipotesi alla base del paradosso di Fermi sono molte e certamente non verificate. Sono il risultato tanto di estrapolazioni delle nostre conoscenze (unico vincolo: non violare le leggi della fisica) e dei nostri modelli socioculturali, quanto della nostra fantasia. Si suppone, solo per fare un esempio, che eventuali civiltà aliene possano dar seguito – liberamente – all’eventuale tecnologia sviluppata e che non si debbano confrontare con vincoli di sorta (economici, energetici, etc.). Ma sarà veramente così? Se guardiamo in casa nostra vediamo, infatti, che noi non stiamo liberamente dando seguito a quanto, in campo spaziale ad esempio, siamo in grado di fare. Siamo capaci di portare l’uomo sulla Luna, di inviare sonde su altri pianeti del Sistema Solare e di costruire grandi radiotelescopi per l’ascolto dell’Universo (assumendo che la banda radio sia quella “giusta” per trasmettere e ascoltare segnali cosmici). Ma lo facciamo con grandissima parsimonia e difficoltà. Perché? Soprattutto per ragioni economiche e sociali.
I costi, sociali e materiali, non per portare l’uomo su Marte ma semplicemente per continuare con sonde l’esplorazione planetaria (e immaginare quella interplanetaria) sono il vero limite alla nostra attuale capacità di esplorazione spaziale. Nel 1800, prima della scoperta dell’espansione dell’Universo e della sua “breve” vita, e soprattutto prima di scoprire che le stelle si accendono, e anche si spengono, il paradosso di Olbers stimolava l’intelletto non trovando soluzione all’interno delle conoscenze dell’epoca. Oggi ci interroghiamo su quello di Fermi con la consapevolezza che una soluzione esiste, ma con un’incertezza in più: il problema sta nelle premesse, oppure nelle conclusioni?
Pubblicato su Le Stelle, n. 97, luglio 2011.