Le catastrofi naturali che negli ultimi anni si sono abbattute con sempre maggiore frequenza sulla terra stanno a ricordarci che gli interventi richiesti per ridurre gli effetti del cambiamento climatico non possono più attendere. E’ questo un dato che dovrebbe far parte dell’agenda politica di ogni governo e che dovrebbe oltretutto essere tra i punti di massima priorità. Il quadro che ci perviene dai summit internazionali sul clima, sembra invece restituirci una realtà profondamente diversa.
L’ultima conferenza sul clima svoltasi a Durban (COP17) nel dicembre scorso è apparsa una volta di più la conferma che l’accordo sulle misure che i paesi debbono intraprendere per stabilizzare l’innalzamento della temperatura del pianeta entro i 2°C è in realtà un percorso irto di difficoltà, accentuate dalle disparità presenti nei livelli di sviluppo delle economie e dalla generale incertezza causata dalla crisi internazionale. D’altra parte, il nuovo vertice segna anche un passo in avanti rispetto ai precedenti appuntamenti poiché, sul piano formale, vede per la prima volta i governi di tutto il mondo impegnati a redigere un articolato trattato globale sul clima da negoziare entro il 2015 e che dovrebbe essere applicato da tutti dal 2020 (con norme vincolanti).
Ma il 2020 è troppo lontano e non è nemmeno chiaro quali saranno realmente le risorse destinate agli interventi per il risanamento climatico: tra le novità di Durban, vi è infatti l’istituzione di un “fondo verde” sul quale però è mancato un accordo sul dove reperire i fondi. Quale, dunque, il senso dell’ultima conferenza sul clima e quali soprattutto le prospettive per il risanamento climatico che da essa possono essere tratte?
Questi interrogativi sono stati al centro del dibattito che si è sviluppato in seno al seminario svoltosi a Roma il 19 gennaio scorso, promosso dal Dipartimento Ambiente della Cgil insieme a Legambiente e FAIR, al quale ha preso parte anche il Ministro per l’Ambiente Corrado Clini. L’evento ha inteso riunire i partecipanti per l’Italia alla conferenza di Durban (oltre ai promotori del seminario, anche il WWF e l’ENEA), per un confronto “a caldo” sui temi della conferenza e per valutare le criticità che più da vicino riguardano la situazione italiana, non ultimo in relazione ai gravi problemi economici che il paese sta incontrando anche nel contesto europeo.
Acquisiti quelli che obiettivamente sono gli esiti formali di Durban di cui si è detto, il dibattito ha aperto uno squarcio di grande rilievo sulla situazione italiana, tessendo un legame assai fitto tra le possibilità del paese di superare la crisi ed il passaggio ad un sistema produttivo ambientalmente sostenibile. La vera novità non è stata tuttavia quella di aver manifestato un ampio consenso verso le prodigiose virtù della cosiddetta “green economy”. Su quest’ultima, è stato infatti rimarcato, si è spesa infatti molta retorica, entro certi limiti giusta in principio per creare una sorta di “sensibilizzazione culturale”, che deve essere abbandonata al più presto per entrare nel vivo dei problemi di una profonda trasformazione industriale di cui il paese necessita.
La vera novità è stata dunque quella di richiamare la necessità di processi di innovazione che nel nostro paese mancano o che manifestano un significativo ritardo rispetto ai maggiori paesi europei, o persino rispetto al resto del resto del mondo, che ha intrapreso la corsa dell’industrializzazione (si pensi ai Brics) e che sta viaggiando su traiettorie di crescita caratterizzate da forti avanzamenti nella capacità di competere sulle tecnologie avanzate.
Combattere il ritardo dell’Italia nell’innovazione, e correggere la specializzazione del suo sistema produttivo nella direzione di produzioni a più elevata “intensità tecnologica”, diventa così l’obiettivo sul quale dovrebbe convergere l’azione del Governo per lo sviluppo, finora, purtroppo, assente su questi temi. E’ così che la “green economy” può riempirsi di contenuti. Gli esiti di Durban, apparentemente fragili e “a lunga scadenza”, non debbono e neppure possono costituire un comodo alibi per continuare a rimandare sine die le politiche industriali di cui il paese ha da tempo bisogno. A livello mondiale i sistemi di innovazione di maggior successo, sono infatti anche quelli che stanno producendo le migliori “risposte tecnologiche” in difesa dell’ambiente e che, pur nelle difficoltà della attuale crisi – specie quando si parla di economie mature -, stanno producendo effetti di una qualche significatività sulla crescita economica contrastando la perdita di posti di lavoro.
La retorica “green” sembra invece tenere ancora in ostaggio le potenzialità di uno sviluppo “verde” dell’Italia nella direzione auspicata. E basta, a dimostrazione di ciò, citare solo l’enfasi che è stata posta sulla scalata compiuta recentemente dal paese in cima alla classifica della più alta produzione di energia da fotovoltaico. Senza ricordare che quella tecnologia che ci pone in cima alla classifica è il prodotto di importazioni e non di produzione nazionale e che, contribuendo al peggioramento del saldo con l’estero, determina un vincolo alla crescita che frena la creazione di posti di lavoro.
Vogliamo allora iniziare a parlare di sviluppo utilizzando correttamente la “leva ambientale”? Questo il messaggio che in definitiva ci consegnano il Ministro dell’Ambiente e tutti i nostri esperti a Durban. Una presa di coscienza non da poco - se si considerano i limiti del dibattito in materia ancora troppo presenti nel paese - che deve però diventare dominio comune. Da qui alla “riscoperta” del valore culturale ed economico della ricerca il passo, sulla carta, è breve. Nella realtà del nostro paese è, invece, il vero problema irrisolto e da risolvere. Al più presto.