Quella che segue è la sintesi del discorso che Sir Leszek Borysiewicz - Rettore dell’Università di Cambridge - pronuncerà il 10 Maggio in occasione della Conferenza che si terrà a Barcellona per il primo decennale della LERU, la Lega delle Università di Ricerca Europee che raggruppa 21 Atenei, fra cui l’Università Statale di Milano. "...Separare la ricerca applicata da quella 'non ancora applicata' non sarebbe certamente saggio, e forse neanche possibile. E’ quindi importante che le Università siano la sede per la ricerca di ogni tipo – se non altro perché restano le uniche strutture capaci di integrare la conoscenza proveniente da molte fonti e discipline differenti..."
La crescita economica è una vera e urgente priorità per ogni governo europeo. Come possono le Università dare il proprio contributo? Le Università di ricerca europee danno un contributo economico molto importante, e questo è per molti versi ovvio. Noi formiamo il capitale umano, svolgiamo ricerca per conto dei governi e del mondo economico, dalle nostre Università escono scoperte e invenzioni che generano un importante ritorno economico. Nel 1960 due nostri laureati hanno fondato una azienda dando avvio allo sviluppo di un cluster di aziende high-tech tutto intorno alla nostra Università. E’ ciò che negli anni successivi è stato descritto come “il fenomeno Cambridge”. Intorno a Cambridge si contano oggi oltre 1.400 imprese high-tech e bio-tech. Undici di queste sono oggi valutate più di 1 miliardo di euro.
Ma ciò che è meno ovvio – e in verità contro-intuitivo – è che il contributo delle università allo sviluppo economico è così efficace proprio perché non è il nostro obiettivo primario, bensì l’effetto secondario di un insegnamento e di una ricerca scientifica che svolgiamo per altre ragioni. Se divenisse il nostro obiettivo primario - se le università diventassero il ramo Ricerca&Sviluppo della grande industria - il nostro contributo originale andrebbe perso. Il “Fenomeno Cambridge” non fu pianificato, fu anzi per molti versi inaspettato: è difficile pensare che avrebbe potuto avere più successo se l’Università avesse deliberatamente perseguito l’obiettivo del ritorno economico. Una delle ragioni di ciò è che le scoperte che producono le ricadute maggiori dal punto di vista economico sono quelle derivanti dalla ricerca di base – la cosiddetta blue-skies research - non da quella applicata, vicina al mercato.
Se una azienda farmaceutica assegna alle università il compito di migliorare l’effetto di un determinato farmaco, ad esempio, il risultato può essere utile da un punto di vista economico e sociale, ma limitato, e forse uno migliore si raggiungerebbe all’interno dell’azienda. Tuttavia, un problema più complesso, come identificare un nuovo target molecolare trova senza dubbio in una grande università multidisciplinare ad alta intensità di ricerca il proprio scenario ideale. Un ricercatore che lavora in università in primo luogo procede, spinto da pura curiosità, a scoprire come funziona il meccanismo biologico che sta alla base: e il risultato potrà così essere ben più esteso, e più profondamente rivoluzionario.
E’ ciò che hanno fatto Francis Crick e James Watson nei Cavendish Laboratories di Cambridge nel 1952: la loro scoperta della struttura del DNA ha avuto un effetto fondamentale per la vita di tutti noi (e, come esempio di ricaduta economica non attesa, ha generato un numero imprecisato di miliardi di euro). L’Europa possiede università di ricerca forti, in grado di raccogliere queste sfide. Molte di esse fanno parte della LERU, la Lega delle Università di Ricerca Europee, che oggi, alla Conferenza per il suo decennale, si interroga sul futuro di queste università.
E’ una domanda che giunge al momento giusto, visto che l’Unione Europea sta completando il prossimo Programma Quadro, Horizon 2020 – che vedrà oltre 80 miliardi di euro da destinare in 7 anni alla ricerca e all’innovazione in Europa. Si tratta di somme in grado di plasmare il tipo di sviluppo delle Università Europee. Dovranno le nostre Università concentrarsi solo sulla ricerca di base, lasciando la ricerca applicata e l’innovazione agli istituti di ricerca e ai laboratori di R&S del settore privato?
Separare la ricerca applicata da quella “non ancora applicata” non sarebbe certamente saggio, e forse neanche possibile. E’ quindi importante che le Università siano la sede per la ricerca di ogni tipo – se non altro perché restano le uniche strutture capaci di integrare la conoscenza proveniente da molte fonti e discipline differenti. Le Università possono individuare sviluppi interessanti in settori imprevedibili ed elaborarli per ottenere soluzioni pratiche ai grandi problemi.
Noi siamo in grado di fare questo grazie all’ampio spettro di discipline che coltiviamo, alla nostra autonomia, alla libertà che concediamo ad ogni ricercatore perché segua sentieri di ricerca promettenti. Nel definire Horizon2020, l’Unione Europea dovrebbe riconoscere che è la ricerca condotta dalle università, che sia applicata o non-ancora-applicata, che può produrre quella crescita a lungo termine di cui l’Europa ha così disperatamente bisogno.
Vale la pena di chiedersi per quale motivo le università vogliano delle responsabilità così grandi. La risposta sta nella nostra mission: servire la società. Se mai c’è stato un tempo nel quale l’”Accademia” è stata scollata dalla realtà, quel tempo è definitivamente tramontato. Servire la società è proprio al centro del nostro operato.