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Scienza, scienziati e natura nel cinema di Herzog

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La verità estatica        

Dei quarantatré lungometraggi cinematografici realizzati finora da Werner Herzog, solo diciotto sono catalogabili come film di fiction. Quel che resta, la maggioranza, sono documentari. Certo, la definizione stessa di documentario è aleatoria e su dove porre la linea di demarcazione tra realtà e finzione narrativa si sono scritte le pagine più belle e intense di critica e filosofia del cinema. Ma se è difficile in assoluto discernere tra verità documentaristica (qualsiasi cosa essa sia) e fiction, è ingiusto (oltre che spesso quasi impossibile) farlo per le pellicole di Herzog: la commistione tra vero e adulterato è infatti non solo uno dei temi ricorrenti della poetica del regista, ma anche lo strumento principale che egli utilizza nella costruzione di film ibridi, inclassificabili, in bilico tra i due mondi. Basti pensare ad un’opera di piena fantascienza come L’ignoto Spazio Profondo (2005). Le immagini mostrate nel film sono quelle, fedeli, delle riprese dell’universo tratte dagli archivi NASA, integrate poi da filmati subacquei raccolti dalla troupe di Herzog al di sotto della calotta glaciale antartica. Immagini che andrebbero bene per un documentario divulgativo della BBC. Il compito di plasmarle in una storia di fantascienza è lasciato al contesto e a un uso mirato di voce narrante, colonna sonora e montaggio.

Simile compresenza di realtà ed artificio la si può ritrovare anche in una pellicola completamente diversa come Fitzcarraldo (1982), suo film di maggiore successo. La storia narrata (di fantasia ma ispirata a fatti realmente accaduti) è quella dell'avventuriero Carlos Firmin Fitzgerald, interpretato da Klaus Kinski. Tormentato dal sogno/ossessione di costruire un teatro d’opera lirica nel cuore della foresta amazzonica, Fitzgerald cerca di risalire il corso dei fiumi a bordo di un battello. Quando l’impetuosità delle rapide del Rio mette in serio dubbio il proseguimento del viaggio, nella scena più nota del film, Fitzgerald trascina il battello fuori dall’acqua e lo trasporta oltre una montagna, sfruttando la forza-lavoro di un gruppo di indios. Nessun effetto speciale è stato utilizzato per la realizzazione del film, le cui  riprese sono risultate in uno sforzo di produzione senza pari. Cast e troupe erano calati nei panni di Fitzgerald: con gli stessi esigui mezzi hanno vissuto la sua sfida, correndo i suoi stessi rischi. Non è allora solo per provocazione che Herzog si riferisce a Fitzcarraldo come al suo miglior documentario.

In poche parole, come lo stesso Herzog sottolinea in un’intervista a Norman Hill nei contenuti extra de L’ignoto Spazio Profondo, non c’è distinzione di genere tra le sue opere: “It’s all just movies”. D’altra parte a sgomberare il campo da possibili equivoci ci aveva già pensato la cosiddetta Dichiarazione del Minnesota (presentata in occasione di una conferenza al Walker Art Center di Minneapolis nell'aprile del 1999), una sorta di manifesto programmatico per punti redatto dal regista tedesco, dove, tra ironie e toni assolutistici, Herzog si abbatte contro il Cinéma Vérité. Reo di “confondere i fatti con la realtà”, esso “sfiora una verità di pura superficie, la verità dei contabili”. Il passaggio più incisivo del testo è però un altro:  “al cinema” si legge al punto 5 della dichiarazione “ci sono livelli più profondi di verità e c’è una sorta di verità poetica, estatica. È misteriosa e sfuggente e può essere raggiunta solo attraverso l’invenzione e l’immaginazione e la stilizzazione”. Il raggiungimento di quella che egli chiama verità estatica è la stella polare che guida ogni opera del regista tedesco.

Dai due esempi di film già illustrati (e se ne potrebbero fare molti altri) dovrebbe a questo punto essere facile capire come la Dichiarazione del Minnesota vesta a pennello le opere di finzione del regista. Ma come si concilia una così forte visione artistica con la realizzazione di film dal taglio  più puramente documentaristico come tanti nella filmografia di Herzog? La risposta è semplice: così come la realtà irrompe invariabilmente negli artifici narrativi della fiction, la stessa cosa succede, a ruoli invertiti, nei documentari. Herzog infatti non si preoccupa mai di nascondere la propria impronta autoriale e anzi, anche in film composti per lo più da interviste a scienziati come Encounters at the End of the World [trad. lett: Incontri alla fine del mondo], riesce in qualche modo a fare emergere ed imporre la propria visione delle cose. D’altro canto, e sono di nuovo parole sue, “fa tutto parte della pura gioia di narrare una storia”.

La scienza e la natura         

Per sua stessa ammissione Herzog rifiuta di considerarsi in alcun modo un comunicatore scientifico e avversa esplicitamente qualsiasi lettura didattica dei suoi lavori. Tuttavia, nelle produzioni degli ultimi anni, ha finito per affrontare sempre più spesso e sempre più nello specifico temi di argomento scientifico.

Ne Il diamante bianco, del 2004, Herzog segue il Dottor Graham Dorrington, ingegnere aerospaziale della Queen’s University di Londra, nella costruzione di un pallone aerostatico leggero e maneggevole di cui ha ideato il prototipo. L’interesse scientifico non sta solo nella mera sfida alla realizzazione del mezzo: il pallone è infatti pensato per sorvolare la foresta pluviale della Guyana e permettere così di studiare la fauna ancora poco conosciuta che abita le cime più alte e inaccessibili degli alberi.

Nel 2005 esce Grizzly Man, che riscuote un discreto successo di pubblico. Qui Herzog ricostruisce la storia dell’esploratore ambientalista Timothy Treadwell, che morì per mano degli orsi grizzly del Parco nazionale di Katmai (Alaska), con i quali si era convinto di aver stabilito un legame di amicizia. La vicenda è raccontata tramite interviste a familiari e conoscenti, integrate da filmati dello stesso Treadwell. In Encounters at the End of the World, del 2007, Herzog viene ammesso nella stazione McMurdo, base statunitense al Polo Sud, importante centro scientifico. Come già accennato, e come d’altra parte suggerisce anche il titolo, il film si articola in una serie di incontri e brevi interviste di Herzog ai vari scienziati e tecnici che popolano la base antartica. Tra i tanti Douglas MacAyeal, glaciologo, Sam Bowser, biologo marino e Peter Gorham, fisico delle particelle. La varietà di specializzazioni dei vari ricercatori è tanto ampia quanto è diversa l’umanità che rappresentano, ognuno con la propria particolare storia personale.

Un’ulteriore rassegna delle vite di alcuni scienziati viene offerta in Cave of Forgotten Dreams [trad. lett. La grotta dei sogni dimenticati] del 2010, girato in 3D, dove Herzog ha il privilegio di filmare la grotta Chauvet, uno dei più noti e importanti siti preistorici, normalmente interdetto al pubblico, che ospita pitture e incisioni rupestri risalenti anche a 32000 anni fa.

La natura ha, per Herzog, un cuore tenebroso. Come egli stesso dice in Grizzly Man, “il comun denominatore dell’universo non è l’armonia, ma il disordine, lo scontro, l’assassinio”. La natura è raffigurata come sede di un eterno contrasto tra inferno e magnificenza, e la scienza come una delle armi (da sola insufficiente ed illusoria) con la quale l’uomo cerca di capirla e dominarla.

Herzog assume spesso una posizione antiscientista. Se è vero, infatti, che analizza e studia la scienza con vivo interesse, non ne abbraccia tuttavia mai appieno le tesi. Le integra, anzi, con considerazioni di altra natura, nella convinzione che le risposte alle domande che l’esistenza pone non siano rintracciabili con il solo uso della ragione. In Grizzly Man, ad esempio, per illustrare la natura violenta e ostile degli orsi grizzly, Herzog non esita ad affiancare il racconto di un nativo d’America alla testimonianza di un biologo. Lo scrittore Emmanuel Carrère ha scritto di Herzog: “Ignora la sociologia e la psicologia moderne. È indifferente agli affari della Città e le preoccupazioni politiche potrebbero tutt’al più condurlo verso l’ecologia. Superficialmente, lo si potrebbe dire passatista (…). Profondamente, è un uomo del passato che vive e opera oggi. (…) In Herzog non c’è malinconia, né rimpianto di un’epoca tramontata. Poiché, vivendo e operando come fa, quest’epoca vive attraverso di lui". Secondo Guido Vitiello proprio “in questo risiede la grandezza di Herzog: nell’appartenere in tutto e per tutto a un’altra epoca, senza bisogno di quegli strali antimoderni che hanno avvelenato Syberberg o il tardo Tarkovskij (...) È un medievale piombato nel cuore della nostra epoca come un uccello abbattuto da chissà quale cacciatore”.

Gli scienziati, e come analizzarli        

Se, secondo Herzog, documentare qualcosa significa inevitabilmente prima immaginarla e quindi fingerla, è interessante allora vedere che rappresentazione egli dà (o meglio fa emergere) degli scienziati e dei ricercatori presenti nei suoi film. Per prima cosa è bene sottolineare come Herzog si liberi di tutte le  categorie archetipiche utilizzate di solito per raffigurarli al cinema. Gli scienziati non appaiono mai come persone puramente obiettive, o fredde, ad esempio. Essi assumono anzi le caratteristiche tipiche dei protagonisti dei film del regista tedesco. Mossi da motivazioni a volte anche irrazionali o puramente estetiche, sono personalità complesse, animate (quando non ossessioniate) da sogni e visioni strettamente personali.

Privilegiare ed indagare il singolo, o meglio ancora l’unico, piuttosto che la categoria, è d’altra parte l’ennesimo tratto distintivo del cinema di Herzog. Nelle sue interviste egli cerca quindi di esplorare le storie personali degli scienziati, farne emergere il vissuto. Per arrivare a questo obiettivo spesso li spiazza, con domande inopportune. Oppure crea scene surreali e suggestive come quando, in Encounters at the End of the World, chiede ai biologi del Polo Sud che studiano le foche nel loro habitat, di sdraiarsi e di posare l’orecchio sul ghiaccio, come ad ascoltare il suono degli animali proveniente da sotto la calotta.

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Tutto questo fa parte del metodo di indagine del regista, che potremmo a sua volta definire in qualche modo “scientifico”. E non deve sembrare un paradosso. Per descrivere il suo cinema, Herzog stesso usa spesso analogie con la scienza. Nel bel libro-intervista curato da Paul Cronin gli esempi a riguardo si sprecano. Uno su tutti: i film di Herzog vengono notoriamente realizzati in poco tempo, lasciando spazio all’improvvisazione e al flusso creativo in divenire. Il regista lo spiega così:

I fisici, quando fanno esperimenti sui materiali, scoprono qualcosa in relazione a una particolare lega metallica esponendola a un calore estremo o a una pressione estrema oppure a radiazioni estreme, e così via. Credo che le persone, se sottoposte a una grande pressione, mostrino in misura maggiore la loro indole più intima e ci aiutino a capire chi siamo veramente.

È fuori dubbio, poi, che Herzog veda i propri film come forme di sperimentazione, tentativi sempre nuovi nella sua personale ricerca di verità. Nel fare ciò il suo modus operandi è simile a quello dello scienziato. Nel documentario classico, da manuale, c’è la pretesa di registrare una realtà obiettiva: ci si propone di modificarla il meno possibile, con la presunzione di restituirne così una riproduzione fedele, fattuale. Le procedure di indagine nei documentari di Herzog sono agli antipodi di questo  tipo di approccio. Egli, similmente allo scienziato che misura un sistema in termini di risposta ad una sollecitazione, stimola la realtà nei modi che crede opportuni,  modificandola se necessario, nel tentativo di ottenerne la risposta cercata. Scrive Francesco Cattaneo, nell’appendice alla versione italiana del libro di Cronin : “Herzog non si limita a far violenza sui materiali rendendoli mere funzioni del suo racconto. Le forzature, le manipolazioni, le stilizzazioni entrano in una singolare consonanza con i materiali stessi, facendo sì che essi sprigionino quella poesia latente destinata a essere soffocata da qualsiasi approccio meramente realistico”.

soffici pinguini e approcci differenti

Sul metodo di lavoro e la poetica di Herzog, più illuminante di qualsiasi critico è  la madre del regista:

Quando era a scuola, Werner non imparava niente. Non leggeva i libri che gli venivano assegnati, non studiava e non sapeva ciò che ci si aspettava da lui. O almeno così pareva. In realtà, Werner sapeva sempre tutto. I suoi sensi erano incredibilmente acuti. Se sentiva un rumore, dieci anni dopo lo ricordava con precisione, ne parlava e magari lo usava in qualche modo. Ma è del tutto incapace di fornire spiegazioni. Lui sa, vede, capisce, ma non riesce a spiegare. Non è la sua natura. Ogni cosa gli penetra dentro. Se poi viene fuori di nuovo, ne esce completamente trasformata 

Qual è dunque il messaggio del cinema di Herzog? Viene in mente la caustica risposta che si narra David Lynch (con il quale Herzog ha collaborato per My Son, My Son, What Have Ye Done?) diede ad uno sventurato giornalista: “Se volessi mandare un messaggio andrei alle poste, non farei un film”.

All’inizio di Encounters at the End of the World, Herzog lancia una non troppo velata critica ad un film che qualche anno prima aveva sbancato il botteghino: La marcia dei pinguini. Girato dal biologo francese Luc Jacquet e accompagnato dalla voce narrante di Morgan Freeman (Fiorello nella versione italiana), il film documenta ed illustra le migrazioni dei pinguini imperiali all’interno delle zone antartiche. Scritto e diretto da uno scienziato, La marcia dei pinguini è un esempio concreto di documentario divulgativo, ideato seguendo quello che in teoria della comunicazione viene chiamato deficit model. La conoscenza genuina dello studioso viene cioè tradotta, semplificata, ad uso e consumo dello spettatore. In questo caso l’effetto desiderato è ottenuto attribuendo ai pinguini comportamenti umani e costruendo l’intera storia attorno a tre esemplari in particolare: la mamma pinguino, il papà pinguino e il pinguino cucciolo. Ad ognuno viene poi assegnato  il relativo doppiatore che ne interpreta i pensieri. Nell’adattamento italiano si è scelto di accentuare ancora di più la semplificazione, fino quasi alla banalità, lasciando Fiorello come unica voce narrante e concedendogli carta bianca nel modificare il copione. Come ricorda Wikipedia: “in diversi casi Fiorello ha infarcito di battute personali il doppiaggio, anche quando l'atmosfera era drammatica, con apprezzamenti come "forti sti pinguini!"”.

Sospendendo il giudizio circa una valutazione artistica del film (che ad ogni modo ha vinto il premio Oscar come miglio documentario nel 2006), ci si può comunque chiedere quanto sia efficace un approccio di questo tipo nel trasportare temi scientifici al cinema. Probabilmente poco, se si pensa agli entusiasmi che la pellicola ha provocato negli ambienti creazionisti  americani. Questo proprio a causa del taglio che si è deciso di dare alla storia. Come ricorda Mattia Feltri nella sua recensione al film, infatti, "Rich Lowry,  direttore di National Review,  ha definito [La marcia dei pinguini] «un film affascinante. I pinguini sono un esempio davvero ideale di monogamia»". Mentre "secondo un prete dell’Ohio, i pinguini che ritrovano ogni anno la strada fra i ghiacci sono come i credenti guidati dallo Spirito Santo e i pinguini che crollano e restano indietro, come i credenti smarrita la retta via".

In poche parole: il messaggio del film, che tanto chiaro doveva sembrare nella testa del regista, non solo si è perso ma è stato completamente snaturato.

In una delle prime scene di Encounters at the End of the World, Herzog racconta come, nell’accettare il finanziamento della National Science Foundation, egli abbia subito fatto loro presente che non avrebbe realizzato “un altro film su soffici pinguini”. Era diverso il tipo di domande sulla natura che voleva porre.

Quando nel film si finisce poi davvero a parlare di pinguini (inevitabilmente, vista l’ambientazione antartica), Herzog sceglie di analizzare gli aspetti comportamentali più oscuri (o meno edificanti) di questi animali: l’omosessualità, la presenza di dinamiche simili alla prostituzione da parte delle femmine e l’insanità mentale di alcuni esemplari che si allontano volontariamente dal gruppo condannandosi a morte certa. Certo, ci sono anche documentari di divulgazione seri, rigorosi, fatti bene. Che svolgono il loro compito egregiamente all’intero del deficit model, veicolando le informazioni in maniera attenta e precisa. Uno di questi (per rimanere al Polo Sud) è il documentario per la TV Ice Worlds (in Italia: Maestà del ghiaccio) della serie Planet Earth, realizzato in collaborazione tra BBC e Discovery Channel e che contiene alcune delle più sorprendenti   e sbalorditive riprese dell’Antartide e della sua fauna.

Mettendo a confronto questo film con Encounters at the End of the World, non sarebbe però totalmente peregrino affermare che, al di là del peso artistico, la scienza sia comunque comunicata in maniera più efficace nel film di Herzog. Quest’ultimo ha infatti il grande pregio di coinvolgere lo spettatore emotivamente, oltre che intellettualmente, riuscendo tra l’altro a non abbandonare mai una certa accuratezza scientifica.  Il risultato è quello di un’esposizione più autentica e coraggiosa rispetto a quella della documentaristica tradizionale, che soffre la zavorra di una narrazione troppo spesso didascalica, di una certa sterilità di esposizione e di una pedanteria a volte troppo didattica. Sollevare invece, come fa Herzog, delle domande piuttosto che cercare di affastellare delle risposte, e illustrare i risvolti sociali ed umani della scienza cercando di capire perché ci appassiona, è forse il modo più sincero possibile di fare divulgazione al cinema.

 


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