La Reggia di Carditello, con circa 15 ettari circostanti, è quanto resta dell’ex tenuta borbonica, prestigiosa testimonianza delle tradizioni agrarie del territorio casertano e dell’antica Terra di lavoro. Si trova nel comune di San Tammaro (CE), a metà strada tra Napoli e Caserta, in un’area circondata da discariche legali e illegali, in un drammatico stato di degrado e di abbandono, oggetto di atti vandalici e furti. Ci sarebbero tutti gli elementi per considerare la Reggia di Carditello uno scandalo internazionale simile alla Villa Adriana insidiata dalla nuova discarica di Roma.
Un gioiello dei Borboni
Il Carditello è una delle testimonianze più significative dell'azione riformatrice di Carlo di Borbone (1734-1759) salito sul trono di Napoli nel 1734, interessato ad una politica di sviluppo economico e di potenza, che non tralasciava di confrontarsi con la necessità di uno sviluppo innovativo in agricoltura per evitare contrasti sociali ed azioni disgreganti tra le popolazioni rurali. Purtroppo ogni tentativo riformatore andava a scontrarsi con la particolare arretratezza feudale e la grande proprietà agraria, interessata a mantenere le rendite e i profitti legati allo statu quo.
Pianta storica della perimetrazione dell'antica tenuta agricola di Carditello.
Lo stesso economista Lodovico Bianchini (1803-18719, che non era certamente un rivoluzionario, non poté fare a meno di notare come la situazione economico-politica del regno fosse gravemente danneggiata dal fatto che i tre quarti della proprietà terriera fossero soggetti alla feudalità nonstante l'impegno del governo ad alleggerirne il peso e denunciava le condizioni disumane in cui erano tenute le plebi rurali.
Tuttavia il sovrano non rinunciò a introdurre innovazioni nel campo agronomico soprattutto nelle terre di sua proprietà e nei cosiddetti Siti Reali. Qui si sperimentarono nuove coltivazioni, si introdussero macchine agricole, diverse razze di bestiame, si eseguirono opere idrauliche per le irrigazioni dei campi come la “tromba a fuoco della maggiore possibile forza per elevare le acque del fiume Volturno, e condurle per mezzo di un canale ad irrigare la reale tenuta di Carditello” (L. Bianchini, p.367).
Le "Fattorie"
La “difesa di Cardito seu Carditello” vasto territorio pianeggiante appartenente alla famiglia del conte dell’Acerra fin dal 1628, sito in Terra di Lavoro, poco lontano dal comune di S. Tammaro, fu ritenuto da Carlo di Borbone particolarmente adatto al perfezionamento della razza dei cavalli e dal 1744 lo prese in fitto per 2.800 ducati annui. L'area prescelta si rivelò in seguito perfettamente integrata nei programmi di pianificazione territoriale che avrebbero portato alla progettazione di "una città nuova (Caserta) collegata oltre che a Napoli a Capua e agli altri sobborghi limitrofi” (R. De Fusco, p. 400). Ferdinando IV proseguì il progetto paterno ampliando la tenuta con diversi territori. Nella pianta redatta nel 1834 dall'Ufficio Topografico di Guerra erano indicati ben quattordici fondi, suddivisi in 69 parchi, che comprendevano complessivamente 6058 moggia di territorio boschivo, seminativo o a pascolo.
Questi erano delimitati da fossi, argini e siepi e all'interno ancora divisi in più parti che assumevano particolari denominazioni. La tenuta di Cardito, la più antica, di circa 1167 moggia era suddivisa in tredici aree destinate a pascolo o a bosco. Quest'ultimo ricopriva l'area più estesa, circa 722 moggia, dove secondo il Giustiniani vivevano “cinghiali, caprj, lepri, per la caccia del re”. Nella tenuta si coltivavano anche cereali, foraggi, legumi, canapa e lino.
Ma tutta la strutturazione dell'azienda era in funzione degli allevamenti di cavalli, bufali e vacche la cui presenza incentivava l'applicazione dei nuovi sistemi agronomici che prevedevano l'integrazione tra allevamento e agricoltura come già accadeva nel resto della penisola.
Ferdinando IV si preoccupò di costruire tutti i comodi rurali necessari al bestiame, alla lavorazione dei prodotti nonché le abitazioni ed i ricoveri per il personale: lo “stallone” della scuderia, l'abitazione dei “vaccari”, la stalla delle bufale, la torre dove avveniva la manipola dei latticini, il granile sopra la scuderia dei cavalli, ecc. Questi edifici, tutti descritti nella Platea di Carditello e Calvi, danno una misura della consistenza degli allevamenti del resto ampiamente documentati fin dal 1780.
Nel giugno del 1787 si scavavano infine le fondamenta del Casino Reale realizzato dall'architetto Francesco Collecini (1723-1804), già allievo e collaboratore di Luigi Vanvitelli (1700-1773). La costruzione sorge quasi al centro della tenuta, all'incrocio dei quattro stradoni principali che l'attraversavano: comprendeva al centro la parte destinata a residenza reale e lateralmente i corpi di fabbrica destinati alle necessità di una azienda agricola. Fu lasciato uno spazio antistante il casino per la pista dei cavalli e uno retrostante diviso in cinque cortili, quattro dei quali servivano alle attività agricole.
Una terra di vacche, bufale e cavalli
Riguardo alle razze allevate, il Giustiniani parla di “vacche lodigiane” introdotte forse perché si ritenevano più idonee alla produzione casearia che il re intendeva incrementare. Dall'inventario dei prodotti della “Masseria delle vacche” del 31 agosto 1780 risulta che si manipolava per “la prima volta cacio ad uso di Lodi”e negli anni successivi si iniziò la produzione del “parmeggiano”, insieme naturalmente ai formaggi e latticini locali (mozzarelle, provole, ricotte, burro, “butirri”).
Durante il regno di Ferdinando II (1830-1859) Carditello perse quelle caratteristiche che ne facevano anche un luogo di delizie: furono sospese le cacce e vennero proscritte le corse dei cavalli che si tenevano nel giorno dell’Ascensione alla presenza del sovrano. Furono apportate ulteriori innovazioni in agricoltura e fu introdotto l’allevamento bovino delle vacche provenienti dalle Alpi “Elvetie”.
Particolare attenzione fu posta al miglioramento delle razze equine che pure nel passato erano state un vanto delle regioni meridionali. Nel suo Trattato delle razze dei cavalli, pubblicato a Torino nel 1781, Giovanni Brugnone (chirurgo collegiato, direttore della Regia Scuola di veterinaria e accademia di Belluno) descrivendo i cavalli italiani afferma che “i napoletani portano in generale tra tutti il vanto tanto quei da carrozza, che da sella. Sono di alta taglia, fermi di testa, piacevoli di bocca, destri, coraggiosi, e forti. Buona parte hanno la testa molto grossa, e quadrata; il collo carico di molta carne, e il guidalesco molto grasso. Alla loro robustezza, e forza devesi attribuire l’indocilità, vizio di cui vengono comunemente accusati”.
Ma nei primi decenni dell’Ottocento si assisteva invece ad un invilimento delle razze indigene che andavano degenerando sempre più da quelle caratteristiche di brio ed agilità che ne proverebbero l’origine araba.
Il governo cercò di rimediare emanando un decreto il 2 maggio 1831 in cui si proibiva l’importazione di cavalli stranieri mentre si acquistavano stalloni di razze pure per migliorare le razze napoletane: proprio a Carditello il re intendeva realizzare “un Ippotrofio, ossia una razza modello”. Nonostante che per l’esecuzione del decreto fosse istituita un’apposita commissione non si ottennero grandi miglioramenti tanto che nel 1852 e nel 1853 furono emanati altri decreti che rendevano libera l’importazione di cavalli dietro pagamento di un dazio.
L’allevamento delle razze bufaline era abbastanza consistente nella tenuta reale e sicuramente preesistente alla sua stessa costituzione considerando la natura del territorio – l’estesa “difesa” a pascolo in un territorio acquitrinoso – e le caratteristiche del bestiame “il cui allevamento è meno oneroso di quello della vacca sia nei confronti dei ricoveri che dell’alimentazione essendo un ottimo trasformatore dei foraggi più grossolani”. Perciò numerosi fondi erano destinati al pascolo di questi animali come i 1185 moggia del “parco” denominato del “Conte” e in diversi fabbricati si provvedeva alla “manipola” dei latticini bufalini come nella Torretta costruita nel “parco” detta il “lagno di S. Lorenzo”, che serviva anche da abitazione per il massaro e i bufalari.
La reggia oggi: fra le discariche e “digestori”
Attualmente in quella che era una delle terre più fertili e coltivate d’Italia, la Reggia di Carditello contende la sua esistenza a discariche e siti di stoccaggio di eco balle ubicate nel comune di San Tammaro (sito Maruzzella per complessivi 194.000 mq comprendenti i 35.000 mq per l’impianto di compostaggio non ancora completato, sito Casone 7.400 mq) e nel comune limitrofo di S. Maria la Fossa (sito Parco Saurino 73.612 mq, sito Ferrandelle 300.000 mq, sito Pozzo Bianco 44.000 mq. Fonte: Provincia di Caserta, Assessorato all’ambiente, 2008).
Si sta inoltre progettando la costruzione di un impianto di digestione anaerobica per il trattamento dei rifiuti organici (volumetria di 80.000 tonnellate annue) sempre nel comune di San Tammaro in prossimità dell’impianto di compostaggio non completato. Con questo ultimo intervento, la cui collocazione sarebbe più adatta in zona industriale che in area agricola, si porterà a compimento la distruzione del suolo agricolo iniziata in piena emergenza rifiuti, alla faccia di tutte le dichiarazioni di intenti di riqualificazione della Reggia di Carditello e delle aree agricole circostanti da parte di tutte le autorità politiche e amministrative di tutti i livelli decisionali, (comune, provincia, regione, stato) chiamate in causa dalle popolazioni locali e dai media anche nazionali.
Immagine del satellitare della localizzazione delle discariche rispetto alla Reggia di Carditello (rettangolo rosso vuoto sulla linea gialla) entro i perimetro dei suoi possedimenti (linea blu).
Fonti documentarie
- Inventario della masseria di bufale che sono in Cardietllo fatto dal massaro Pasquale Favicchia il 3 ottobre 1780 suddiviso in buffale figliate a mascoli, femmine, gravide, sterpe, tori, vitelli maschi e femmine risultano in tutto 400 animali (Archivio della Reggia di Caserta - in seguito A.R.C.) serie: Carditello e Calvi, B.ta 8,, fasc.3); a questi sono da aggiungere gli inventari delle vacche e dei cavalli che venivano redatti periodicamente e che permettono di considerare anche le variazioni della quantità dei capi.
- Inventari dei prodotti delle diverse masserie delle vacche dal 1780 al 1793 A.R.C., serie: Carditello e Calvi. B.ta 2, fasc. 1-33
- Festa dell'Ascensione, A.R.C., serie: Carditello e Calvi. B.ta 74
- Reali Siti di Carditello e Calvi. Platea, s.d. (ma redatta dopo il 1834; cfr. p. 48 della Platea stessa). A.R.C., s.n.
- La reale difesa di Carditello. A.R.C., Planimetrie; 5/H
Note bibliografiche
G.Alisio, I siti reali dei Borbone. Napoli. 1976. p. 48.
L.Bianchini, Storia delle finanze del Regno di Napoli. Napoli, 1859, p.295.
R. De Fusco, "L'architettura della seconda metà del '700", in Storia di Napoli. Napoli, ESI, 1978, v. VIII, p. 400.
L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli. Napoli, 1797; l'autore così descrive la tenuta: "Cardito, sito reale in Terra di Lavoro e in diocesi di Capua, distante da Napoli miglia otto e sette da Caserta. Si vede in un'ampia pianura di aria però niente salubre. Il re nostro Signore Ferdinando II vi chiamò una peraltro non troppo numerosa popolazione per attendere la mandre di vacche, buffale e mandre di cavalli, che volle introdurvi, e per mantenervi de' buoni formaggi nel gusto del Lodigiano, essendo le dette vacche e bufale appunto di quella razza. Vi si ammira una bella casina con otto torri, e molto decorosa di pitture, di arazzi, e di altri eleganti mobili, che serve per abitazione del Re, quando va a trattenersi nel detto luogo. Vi sono due ben fatte fontane nella sua piazza, e due piramidi con un tempietto da cui suole esso sovrano guardare la corsa dei barbari nel dì dell'Ascensione ed è molto elegante la cappella sotto lo stesso titolo. Vi si vedono pure otto ben costrutti stalloni pel ricovero degli animali, e più altre abitazioni per la gente addetta al mestiere (...). Tutto questo sito reale, incluso già il bosco, è cinto di un muro di circa sedici miglia".
C.Tassinari, Manuale dell'agronomo. Roma, REDA, 1968, p. 1963).
Fino alla prima guerra mondiale nell'ex circondario di Lodi si produceva un tipo di grana particolarmente pregiato, denominato appunto lodigiane.
E. Sereni, "Agricoltura e mondo rurale", in Storia d'Italia. Torino, Einaudi, 1976, p. 21.