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Domani ci berremo un iceberg

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Acqua!

Bere l'acqua degli Iceberg per dare sollievo alla sete del Pianeta è l'ultima trovata dell'ecomanager Georges Mougin. Ecco di cosa si tratta: ogni anno circa 15.000 iceberg si staccano dalla costa della Groenlandia, complice anche il cambiamento climatico. E allora perché non trainarli con rimorchiatori fino ai tropici per immetterli nelle reti idriche dei paesi più assetati? Finora il progetto si scontrava col fatto che l'iceberg si scioglieva durante il lungo viaggio. Tuttavia, ricoprendo la parte emersa delle masse di ghiaccio con un nuovo materiale isolante geotessile e sfruttando il gioco delle correnti, la cosa è diventata possibile, addirittura conveniente. Secondo i calcoli effettuati dalla società Dassault, per trasportare un iceberg di 6,5 milioni di tonnellate da Newfoundland alle Canarie alla velocità media di un nodo si impiegano 141 giorni, e solo il 38% del ghiaccio si scioglie lungo il tragitto. Il resto si può bere. Acqua pura, quella dell'iceberg, formatasi nell'arco di 10mila anni. Un po' povera di sali, d'accordo. Ma vuoi mettere rispetto agli scoli di fogna che si beve metà Africa? La società di Mougin – la WPI (Water and Power from Iceberg) - tenterà il primo viaggio verso la fine dell'anno (2011 n.d.r.).

I numeri dell'emergenza

In attesa degli iceberg, le idee per dar da bere al miliardo di assetati della Terra non mancano, dai dissalatori al riciclo dei reflui urbani, ai sistemi di raccolta dell'acqua piovana. Il paradosso è che viviamo circondati dall'acqua, che costituisce il 70% del Pianeta. Ma solo il 3% è acqua dolce, e solo l'1% è potabile. Pochina, ma sufficiente in teoria per garantire a ciascuno la sua razione giornaliera di sopravvivenza, pari a 50 litri.

Lo scorso 28 luglio l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato che l'accesso all'acqua è il diritto umano per eccellenza. Eppure di questo diritto ancora non beneficia un sesto della popolazione mondiale, perché l'acqua ha il difetto di essere distribuita in modo molto capriccioso. Se si compila un bilancio dello “stress idrico”, fra i paesi più a corto d'acqua figurano lo Yemen, la Somalia, Gibuti e in generale i paesi dell'Africa subsahariana, dove in questi giorni l'allarme siccità sta spingendo migliaia di profughi a concentrarsi in campi come quello di Dadaaab, in Kenya. Seguono nella classica della sete il Medioriente e i più ricchi paesi del Golfo, che spendono un quinto dei proventi della vendita del greggio per produrre acqua pura con i dissalatori o succhiando l'acqua fossile dalle riserve sotterranee. Per bere, ma soprattutto per sostenere l'agricoltura locale e anche per irrigare campi da golf e giardini. Infatti, se il 10% dell'acqua va per i consumi domestici, il 60% serve per irrigare i campi e il 30% per turismo, energia e produzioni industriali. Quanto a stress idrico (che si ha quando la domanda supera almeno del 40% le riserve naturali d'acqua di un paese) non stanno bene nemmeno la Cina, l'India, la costa Ovest degli Stati Uniti, l'Australia e l'Europa meridionale. “In questo secolo il cambiamento climatico potrebbe portare a un aumento della temperatura media dei paesi del Sud Europa e del Nord Africa da 2 a 4°C, e a una diminuzione delle piogge dal 10 al 30%” spiega Anna Iglesias, economista agraria della Università Politecnica di Madrid. “In questo modo il fabbisogno di acqua di paesi con l'Italia e la Spagna potrebbe intaccare il patrimonio di risorse idriche, come già adesso succede in paesi come Egitto, Libano e Israele”.

Senza fogne

Ancora più problematica è poi l'altra faccia della medaglia della crisi idrica mondiale, l'accesso ai servizi igienici: 2,6 miliardi di persone, infatti, continuano a non poter contare su fogne e toilette. “Forse il più grande scandalo è che miliardi di persone non riescano a vivere separate dalle proprie feci, ragione per cui ancora oggi quasi due milioni di persone, soprattutto bambini,  muoiono ogni anno per malattie gastrointestinali legate alla cattiva qualità dell'acqua. Più di AIDS, tubercolosi e malaria messi insieme” commenta la responsabile del Programma Acqua della Banca Mondiale Julia Bucknall.

I Millennium Development Goals delle Nazioni Unite prevedevano di dimezzare entro il 2015 il numero di persone senza latrine. Ma l'obiettivo è lontano dall'essere raggiunto: la riduzione infatti si assesterà al massimo a un quarto per quella data. Questo fallimento dipende anche dal fatto che nell'ultimo decennio gli aiuti internazionali sulla sicurezza idrica sono passati, secondo i dati diffusi da AidWater, dall'8 al 5% del totale delle donazioni. Piace investire in scuole, farmaci e ospedali, meno in rubinetti e WC.

Ma le conseguenze si pagano in termini di salute, crisi agricole che portano a pericolose fluttuazioni dei prezzi delle derrate alimentari, emergenze umanitarie ed ecologiche. Come quelle del Lago d'Aral, prosciugato dall'impiego pressoché esclusivo dei fiumi che lo alimentavano per la coltivazione del cotone; del lago Ciad e del Mar Morto, che dal 1960 a oggi è sceso di 30 metri per la maggiore evaporazione ma anche per i prelievi. Mentre in India e in Cina le falde sotterranee supersfruttate scendono a livelli allarmanti. Che fare allora?

Bere il mare

La soluzione preferita dai paesi ricchi è quella dei dissalatori, impianti in grado di filtrare l'acqua del mare togliendo ad essa il sale e rendendola così disponibile per i consumi domestici e agricoli. Nel mondo i dissalatori sono più di 15.000, distribuiti in 150 paesi. Più di un migliaio sono collocati sulle coste dei Paesi del Golfo e del Mediterraneo. Uno dei più grandi si trova negli Emirati Arabi, in grado di produrre 300 milioni di metri cubi di acqua dolce all'anno, così come quello di Jubail, in Arabia Saudita, che convoglia l'acqua fino alla capitale Rijadh. Anche la Cina sta puntando molto su questi impianti: nei prossimi cinque anni Pechino ha programmato di installare impianti per una produzione complessiva di acqua dolce pari a due milioni di metri cubi al giorno, insufficiente peraltro per i soli consumi idrici della capitale.

Un altro Paese che si affida molto ai dissalatori è l'Australia, che ha attraversato negli scorsi anni terribili crisi idriche, tanto da far temere l'abbandono della città di Perth da parte dei suoi abitanti per esaurimento delle forniture d'acqua. Peccato però che quella dei dissalatori sia una via high tech estremamente costosa, energivora e potenzialmente inquinante: il sale e gli altri residui del filtraggio, infatti, se vengono scaricati in mare aumentano a dismisura la salinità delle acque e provocano vere stragi della vita marina. C'è poi anche un argomento più politico, utilizzato ad esempio dall'ex sindaco di Londra Neil Kinnock contro il grande dissalatore realizzato alle foci del Tamigi: “Che senso ha spendere 270 milioni di sterline per costruire un impianto di questo genere, quando la rete idrica londinese perde il 26% dell'acqua?”. Anche da un punto di vista psicologico – osservano altri critici – produrre acqua dolce in questo modo distoglie l'attenzione dalla crescente depauperizzazione delle riserve idiche sotterranee e superficiali e non fa adottare le necessarie misure di conservazione e risparmio.

Deviare i fiumi

Un'altra soluzione piuttosto brutale consiste nel deviare il corso dei fiumi. Accade per esempio in Cina, dove il South-North Water Diversion Project intende convogliare parte delle acque dello Yangtze, il terzo fiume al mondo che nasce in Tibet e sfocia a Shangai, verso le sorgenti del Fiume Giallo che attraversa l'arida Cina settentrionale. Si tratta di un vero e proprio by-pass fluviale che riguarda un fiume già devastato da grandi opere come la Diga delle tre Gole, la più grande centrale idroelettrica del mondo.

L'India a sua volta vorrebbe deviare parte delle acque del Gange, preoccupando non poco il Bangladesh che vedrebbe così ridursi l'immensa portata del Delta. Lo stesso accade in California, dove il fiume Colorado è stato deviato per dare da bere alla parte più meridionae dello stato, o in Austrialia con la colossale deviazione del Murray-Darling per irrigare una vasta area agricola. Il risultato è stato una catastrofe ecologica che ha impoverito il fiume del 41% del suo flusso, prosciugando uno dei più importanti sistemi di zone umide le Pianeta.  Ora il governo australiano sta correndo ai ripari con un nuovo Water Act, approvato nel 2007, che cerca di salvare le paludi austrialiane riallocando le acque del fiume. Un compito quasi impossibile, che ha innescato le proteste degli agricoltori che ora si vedono sottrarre parte delle acque conquistate. “Questa ossessione tecnologica ha prodotto migliaia di dighe e deviazioni di fiumi con esiti drammatici” commenta Fred Pearce, autore di Un Pianeta senz'acqua. Viaggio nella desertificazione contemporanea. Le acque sempre più scarse di fiumi e laghi vengono contese fra Stati diversi, come quelle del Tigri e dell'Eufrate disputate fra Turchia, Siria e Iraq, o le magre acque del Giordano che bagna – diciamo così - Israele, Siria, Giordania e territori palestinesi.
In parte queste grandi opere di canalizzazione e sbarramento vengono ritenute indispensabili per non lasciar morire di siccità intere regioni, ma su di esse è in corso anche un ripensamento. La Banca Mondiale, per esempio, che per anni le ha finanziate, sta riconvertendo parte delle risorse (1,1 miliardi di dollari l'anno) verso progetti di ecosotenibilità e maggiore efficienza nella gestione delle acque. La stessa Cina ha riconosciuto nel nuovo piano quinquennale la priorità assoluta alla conservazione delle risorse idriche attraverso la riduzione degli sprechi e il miglioramento delle tecniche di irrigazione, a cui ha destinato investimenti per 400 miliardi di dollari.

Raccogliere la pioggia

Ma allora perché non farsi ispirare dai bushmen del deserto del Kalahari? La proposta arriva dall'ecologista statunitense Jackson Workman, che l'anno scorso si è aggiudicato il premio ambientale “Rachel Carson” con il besteseller Heart of Dryness. Nel libro si descrive come le popolazioni autoctone del deserto sudafricano riescano a vivere in un ambiente praticamente privo d'acqua. “Dal Mekong al Columbia, dall'Indo al Volta al Limpopo, i grandi cambiamenti nel modo di gestire l'acqua dei fiumi scaturiscono dalle esperienze di pescatori analfabeti, di poveri agricoltori delle piane alluvionali e di profughi ambientali che non avendo più nulla da perdere si inventano soluzioni innovative per adoperare l'acqua senza far collassare interi ecosistemi” spiega Workman.

Un po' alla volta, nelle pieghe dei progetti di aiuto internazionale, si diffondono nelle periferie del Pianeta semplici metodi di raccolta dell'acqua piovana. Ogni giorno cadono dal cielo mille chilometri cubi d'acqua, perché non sfruttarla meglio? “Raccogliere la pioggia è diventato vitale per il futuro dell'agricoltura. Ogni contadino dovrebbe farlo attraverso pozze e cisterne” spiega David Molden del'International Water Mangement Institute.
Anche l'irrigazione – che interessa il 18% delle colture agricole nel mondo – può essere resa più efficiente con sistemi a goccia. Nel Punjab del Sud (Pakistan), ad esempio, la Better Cotton Initiative promossa da WWF, Ikea e H&M ha consentito di ridurre del 15-30% l'uso d'acqua per l'irrigazione nelle colture di cotone, fra le più avide d'acqua.

Riciclare gli scarichi

Riciclare l'acqua è un altro obiettivo importante. In quasi tutti i paesi in via di sviluppo l'uso di scarichi per irrigare i campi sta aumentando, talvolta anche con rischi per la salubrità dei raccolti. Meglio sarebbe impiegare le acque reflue per colture non alimentari. Oppure, come suggerisce l'Organizzazione mondiale della sanità, prevedere semplici metodi di filtraggio delle acque con sabbie e ghiaie, oppure con il tessuto del sari, come ha proposto Rita Calwell dell'Università John Hopkins, vincitrice del Water Prize di Stoccolma nel 2010, una sorta di Nobel dell'acqua. Con questo semplice sistema di filtraggio è possibile secondo la Calwell ripulire le acque contaminate dal batterio del colera e da altri microrganismi.

Più difficilmente accettata è invece la clorinazionazione delle acque, che se da un lato elimina alla radice buona parte del rischio di trasmissione di malattie infettive, dall'altra viene respinta per via del sapore sgradevole del cloro. Un altro sistema che sta prendendo piede in molte campagne africane e asiatiche è la “disinfezione solare”, messa a punto nel 1991 dall'Istituto federale svizzero di tecnologia e scienze ambientali. Basta infatti esporre al sole l'acqua in bottiglie di plastica per 48 ore per ridurre in modo consistente la carica batterica. A monte delle pratiche di riciclo c'è il problema dei servizi igienici, che spesso vengono rifiutati dalle popolazioni rurali africane per motivi rituali (defecando al chiuso si pensa di perdere energia vitale). Per questo le ONG che lavorano in questo settore propongono di accompagnare la costruzione di servizi igienici con un lavoro di educazione e condivisione delle scelte da parte della comunità. Riuscire a dotare le scuole di bagni è una grande conquista, soprattutto per le donne, visto che il primo motivo di abbandono scolare da parte delle ragazze africane dopo la pubertà è proprio l'assenza di toilette. “Ogni dollaro investito in latrine e punti di approvigionamento dell'acqua genera 9 dollari in benefici misurabili in meno malattie e più tempo da dedicare ad attività produttive. Liberare dal bisogno soprattutto le donne rappresenta poi un volano straordinario per lo sviluppo delle comunità nei paesi più poveri” spiega Bucknall.

Redistribuire l'acqua virtuale

Contro la penuria d'acqua tutto serve: dal bric-a-brac di villaggio al dissalatore ipertecnologico. Ma secondo Tony Allan, economista dell'acqua del King's College di Londra, la partita cruciale si gioca nel campo dell'”acqua virtuale”. Con questo termine, impiegato per la prima volta proprio da Allan, si intende il contenuto di acqua necessario a produrre qualsiasi merce considerando l'intero processo, dalla maglietta di cotone (2.000 litri) alla bistecca di manzo (10mila litri per un chilo). Il segreto starebbe nel far sì che ogni Paese produca ciò che riesce in base alle proprie riserve. Spiega Allan: “I paesi a bassa efficienza, o poveri d'acqua, devono importare acqua virtuale sotto forma di beni che a loro richiederebbero un dispendio eccessivo di risorse idriche interne”. Perché, ad esempio, l'arida Giordania si ostina sprecare tonnellate di acqua per coltivare banane quando potrebbe importarle da paesi tropicali? Alcuni paesi come la Cina, l'India, la Corea del Sud e gli emirati del Golfo hanno imparato la lezione e già oggi non solo importano parte delle derrate, ma acquistano terreni agricoli in altri paesi più ricchi d'acqua per coltivare oltre confine cereali e ortaggi. E' il cosidetto “Land grabbing”, che ha portato per esempio compagnie straniere ad acquistare già il 10% delle terre fertili del neonato Stato del Sudan del Sud.

Certo la nuova corsa all'oro blu e ai terreni fertili potrebbe prefigurare una nuova forma di colonialismo. Ma già si pensa a possibili correttivi, come quello messo in atto in Etiopia, dove per contratto la Saudi Star Agricoltural Investement si tiene il 60% del raccolto lasciando il resto alla popolazione locale.

 Pubblicato su L'Espresso - luglio 2011


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