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Escher: orizzonti e inquietudini della scienza moderna

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Maurits Cornelis Escher nacque a Leeuwarden (Olanda) il 17 giugno 1898 e morì a Laren (Olanda) il 27 marzo 1972, ultimo dei figli di un ingegnere idraulico. Niente di particolarmente importante ai fini della comprensione delle sue opere accadde nella sua infanzia a parte il fatto che, già da allora, cominciò a entrare nella tipologia del “parzialmente incompreso e non allineato” (Andrea Bonavoglia, Periodicità e limiti di Maurits Cornelis Escher). Nessuno dei suoi insegnanti, infatti, gli riconobbe particolari doti in ambito di logica e matematica e la sua istruzione non si spinse oltre la scuola secondaria dove, peraltro, fu costretto a ripetere il secondo anno.

L’imprinting per la sua produzione artistica fu probabilmente collegato al ben noto fermento intellettuale dei primi decenni del 900, in cui visse spostandosi fra Italia, Svizzera e Olanda. In quegli anni le scoperte di Heisenberg ed Einstein, il Surrealismo e il Cubismo, i teoremi di Gödel, i lavori di Poincarè e Turing contribuirono a realizzare un clima totalmente nuovo. Cominciava a farsi spazio, in sostanza, l’idea di una scienza capace non solo di aprire nuovi orizzonti prima inaccessibili ma anche di trasmettere nuove e profonde inquietudini o, per usare le parole dello stesso Escher, “sensi di vuoto”. La celebre affermazione di Richard Feynman in Qed, la strana teoria della luce e della materia chiarì molto bene il concetto: “Dal punto di vista del buon senso l'elettrodinamica quantistica descrive una Natura assurda. Tuttavia è in perfetto accordo con i dati sperimentali. Mi auguro quindi che riusciate ad accettare la Natura per quello che è: assurda”.

Il legame fra le creazioni del grafico olandese e la scienza del suo tempo è stato rintracciato dagli studiosi a vari livelli. Sono stati individuati, da un lato, casi di applicazione consapevole di principi scoperti in quegli anni o, comunque, a lui noti (trasformazioni sul piano cartesiano ed elementi di geometria non euclidea). Sono stati evidenziati, d’altronde, anche lavori con in nuce principi scientifici che l’artista non poteva conoscere anche perché mostreranno le loro principali applicazioni solo molti anni più tardi (autoreferenzialità e intelligenza artificiale).

L’opera Cerchio Limite IV costituì un importante esempio del primo gruppo perché qui la geometria iperbolica fornì all’artista il proverbiale tassello mancante (si veda, ad esempio, la pubblicazione Artful Mathematics: The Heritage of M. C. Escher curata dalla American Mathematical Society). La vicenda iniziò intorno al 1939, anno in cui Escher si pose l’obiettivo di rappresentare il concetto di infinito con alcuni lavori preliminari con cui, però, non riusciva mai a ottenere il risultato voluto. Affermò, infatti, commentando lo Studio di divisione regolare del piano con rettili: “Che cosa è stato realizzato con l’ordinata suddivisione della superficie? Non ancora il vero infinito, ma comunque un frammento di esso, un pezzo dell’universo dei rettili. Se la superficie in cui essi si inseriscono fosse infinitamente grande, un numero infinito di essi potrebbe esservi rappresentato” (Elmer Eric Schattschneider in M. C. Escher: Visions of Symmetry). Il salto di qualità poté arrivare solo in seguito, grazie a un suggerimento del matematico canadese Harold Scott MacDonald Coxeter che gli mostrò un pattern di triangoli contenuto in un piano iperbolico bidimensionale (o “disco di Poincarè”). Fu proprio grazie alla possibilità di evocare il disco nella mente dello spettatore che Escher riuscì a coniugare l’idea della numerosità infinita e del mantenimento delle proporzioni dei singoli elementi con la limitatezza della superficie pittorica, arrivando appunto al Cerchio Limite. Quest’opera, vista con occhio euclideo, raffigurava, infatti, angeli e pipistrelli di dimensioni progressivamente decrescenti man mano che ci si allontanava dal centro, fino a divenire quasi invisibili e molto numerosi sulla circonferenza. Poteva suggerire, però, guardandola con occhio iperbolico (ovvero tenendo presente che in un disco di Poincarè la distanza tende al limite di zero in prossimità del bordo) l’idea di un numero di rettili progressivamente crescente, ma tutti uguali, indipendentemente dalla distanza dal centro. Escher stesso suffragò questa interpretazione dichiarando il proposito che “il limite dell’infinitamente numeroso e dell’infinitamente piccolo viene raggiunto sul bordo circolare” esprimendo, quindi, la propria piena soddisfazione.

Le opere che, come questa, sono state considerate il risultato documentabile della conoscenza diretta di scienziati innovatori e delle relative teorie, furono, d’altronde, solo la minoranza. Più comuni sono stati i casi in cui il legame con la scienza è stato ricostruito solo ex post pur con argomentazioni abbastanza convincenti (Douglas Hofstadter in Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, premio Pulitzer nel 1980). Disegni e litografie che, comunque, hanno sempre destato forte ammirazione e sono state spesso utilizzate con ottimi risultati anche in didattica scientifica (si veda Fare matematica con le opere di M.C. Escher di Paola Vighi) pur restando ai margini dei manuali di storia dell’arte.

Verrebbe a questo punto spontaneo cercare di capirne il perché. Chiedersi, cioè, cosa abbia garantito a Escher questi apprezzamenti e cosa, invece, ne abbia determinato il relativo insuccesso di critica: se limiti intrinseci o piuttosto una non adeguata comprensione.

Ora, gli studiosi sono sempre stati concordi nell’associarne il valore, oltre che all’elevata abilità tecnica, ai dualismi grafici (bianco/nero, pieno/vuoto) e ideali (razionale/irrazionale, meraviglioso/mostruoso) su cui ha costruito la quasi totalità delle realizzazioni. Un valore, quindi, principalmente legato a un’ottima rappresentazione della condizione esistenziale dell’uomo moderno continuamente in bilico fra suggestioni e paure legate alle scoperte di una scienza che, per dirla con Robert Oppenheimer, aveva scoperto anche il suo “peccato”. A proposito dei dualismi nella sua opera Escher stesso affermava: “Il bene non può esistere senza il male, se si accetta la figura di Dio, bisogna assegnare anche al diavolo un posto equivalente. Vivo di questa dualità. Ma anche questo non sembra permesso. Le persone, di fronte a questi problemi, diventano subito così pensose che io non ci capisco presto più niente. Eppure, in realtà, non è difficile: bianco e nero, giorno e notte - il grafico vive di tale contrasto”.

Il limite è stato prevalentemente associato, viceversa, alla predominanza dell’aspetto tecnico su quello dell’impegno politico o sociale contrariamente a quanto accadeva ai quasi contemporanei Magritte e De Chirico, capaci di attirare un consenso quasi unanime. La colpa di Escher sarebbe stata, in sostanza, quella di comportarsi più da virtuoso che da artista non avendo intenzionalmente rappresentato nei suoi lavori niente di più di quello che possiamo concretamente vedere.

Nessuno finora è, effettivamente, riuscito a trovare nelle opere di Escher informazioni cifrate o nascoste: è, però, una valida giustificazione, questa, per la tesi del semplice artigiano, pur di immenso talento? Il punto, crediamo, sia rappresentato dalla seguente domanda: “è più importante la consapevolezza con cui si comunica o il messaggio che si riesce a passare?”. Il grande studioso di comunicazione Marshall McLuhan non avrebbe dubbi: il mezzo è parte del messaggio. Il grafico olandese forse non ha parlato ma le sue opere hanno parlato per lui, sicché l’argomentazione del limite intrinseco risulta, quantomeno, a sua volta discutibile.

I ragionamenti fatti ci hanno portato, dunque, a dire che Escher, per le suggestioni che ancor oggi riesce a trasmettere, fu uno dei pochi intellettuali capaci di parlare di arte e scienza contemporaneamente, a dispetto di una critica non sempre favorevole.

Non possiamo sapere se fra cent’anni Escher sarà inserito nei manuali di storia dell’arte. Di sicuro, ci piacerebbe che trovasse, un giorno, il giusto riconoscimento. Convinti, come Bonavoglia, che il grafico olandese sia stato uno dei pochi a vedere collegamenti fra due mondi apparentemente inconciliabili e che abbia lasciato impronte “molto più profonde di quanto oggi potremmo immaginare”.


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