fbpx Einstein aveva ragione | Scienza in rete

Einstein aveva ragione

Primary tabs

Tempo di lettura: 8 mins

Non sono solo le nuove scoperte della fisica che ci dicono che Einstein aveva ragione. In qualche modo anche la storia e la politica ci portano alla stessa constatazione. Albert Einstein non è stato solo un genio della fisica, il più grande. E' stato anche un ispiratore della politica. Non di quella politicante che ben conosciamo, ma di quella alta, visionaria dei grandi personaggi che hanno forgiato il XX secolo, da Roosevelt a Gandhi, da Russel a Nehru. Bene ha fatto Pietro Greco a scegliere come titolo della sua ricognizione del pensiero politico del fisico tedesco, dunque, Einstein aveva ragione. Mezzo secolo di impegno per la pace (ScienzaExpress, 2012). 

La pace, prima di tutto. Nato in Germania, a Ulma, nel 1879 e morto a Princeton nel 1955, l'ebreo non praticante Albert Einstein compie un percorso a suo modo esemplare attraverso due guerre mondiali, la rivoluzione dei Soviet, l'olocausto nazista, la nascita dello Stato di Israele, l'atomica su Hiroshima e Nagasaki, lo stalinismo e il maccartismo, la guerra fredda. Formidabili sì quegli anni, vissuti da Einstein da protagonista sia per aver scosso dalle fondamenta l'edificio della fisica newtoniana con la messa a punto in due riprese della relatività, speciale nel 1905, e generale nel 1915 (con la prima conferma sperimentale nel 1919), sia per aver dato un contributo determinante alla nascita del pacifismo moderno.

Pacifista militante

La carneficina della prima guerra mondiale fa maturare in Albert - prima impiegato all'Ufficio brevetti di Berna, poi docente in diverse università in Svizzera e in Germania – un pacifismo istintivo e, via via sempre più radicale, come ben spiega Greco. Al punto da spingere il già noto professore di fisica a prendere posizione, in piena guerra, per l'obiezione di coscienza totale. Non basta essere pacifisti - diceva. Bisogna essere pacifisti militanti. Il ragionamento di Einstein era che se una moltitudine di giovani si fossero rifiutati di arruolarsi nell'esercito, lo Stato avebbe avuto difficoltà a punirli tutti con il carcere, e lo spirito bellico si sarebbe dileguato. Ingenuo e geniale allo stesso tempo. Fin dalle prime riflessioni, in lui la pace è un valore non negoziabile, come apprende nelle sue letture giovanili di Kant (in particolare del suo scritto sulla Pace perpetua, oltre che della Critica della ragion pura, che legge a 13 anni!). Per difendere la pace serve l'unione di tante volontà: l'esempio individuale non basta. Ecco allora la necessità che il pacifismo esca dalla sfera della coscienza individuale per farsi movimento politico. 

La prima guerra mondiale termina con la disfatta e l'umiliazione a Versailles della Germania, costretta a cedere Alsazia e Lorena e a pagare straordinari debiti di guerra in oro. Matura pericolosamente in quegli anni lo spirito di vendetta e il cieco nazionalismo che troverà un interprete mefistofelico nell'austriaco Adolf Hitler. Ma prima dell'avvento del nazismo nel 1933, la Germania conosce le speranze del socialismo, la vertiginosa libertà intellettuale della Repubblica di Weimar, l'illusione spartachista di Rosa Luxemburg rapita e assassinata nel 1919 insieme al sodale Karl Liebknecht. 

In questa temperie Einstein si fa portavoce mondiale della triade pacifismo, socialismo e democrazia, che lo mette al riparo dal fascino esercitato dalla cosiddetta “democrazia popolare” dei Soviet, rendendolo inviso, alla lunga, sia ai regimi comunisti sia a quelli "liberali". Verso la fine degli anni '20 l'Europa, messa in ginocchio dalla crisi economica, è percorsa dal veleno dell'antisemitismo nazista, che spinge Einstein a lasciare la Germania per la Svizzera e in seguito, a partire dal 1933, per Princeton, negli Stati Uniti d'America, dove restarà fino alla morte. 

La bomba

La seconda guerra mondiale (1939-1945) – come osserva acutamente Greco - “muta le condizioni di contorno” inducendo il fisico a mutare atteggiamento verso una opzione pacifista e non-violenta (predicata da Gandhi in quegli anni di resistenza al dominio della corona britannica in India). Viene infatti giudicata inadatta a fronteggiare le “forze del male” che sempre più chiaramente si delineano in Europa e che egli coglie da subito, senza i tentennamenti – quando non i tradimenti – di molti altri intellettuali, primo fra tutti il “nazificato” Martin Heidegger. Per quanto i campi di sterminio siano ancora di là da venire, la persecuzione degli ebrei è già una realtà, che genera come antidoto il movimento sionista e un nuovo esodo verso la Palestina. Einstein aderisce al movimento, ma di nuovo a modo suo, accettando la necessità di una terra d'asilo ma rifiutando la costituzione di un nuovo Stato. Albert resta, in cuor suo, un libertario, allergico a ogni nazionalismo e statolatria. Come insegnava Kant, la pace si potrà pure installare sulla Terra a patto che i popoli superino le chiusure nazionaliste federandosi sotto un unico ordine mondiale a cui rimandare almeno l'uso legittimo della forza. 

Ma le armate del Fuhrer dilagano in Europa, rendendo sempre più insostenibile il credo pacifista. Einstein, per usare l'espressione di Greco, si “autosospende” da pacifista militante. Anche perché proprio in quegli anni dal cilindro della fisica esce l'idea della bomba. Prima Otto Hahn e Lise Meitner, poi Enrico Fermi, osservano il fenomeno della fissione nucleare:  l'uranio, bombardato da neutroni, si spezza, decadendo in bario, un atomo di massa notevolmente più piccola. Dov'è finita la massa mancante? Sarà Lise Meitner a suggerire che la chiave sta proprio nella celebre formula di Einstein: E=mc2. I resto della massa si trasforma in energia. In un grammo di uranio che subisce una fissione completa l'energia è pari alla combustione di 3 tonnellate di carbone.

Signor presidente...

L'amico Leo Slizard sarà fra i primi a comprendere le conseguenze di quella scoperta: in pochi anni si potrebbe produrre una bomba capace di distruggere un'intera città. I suoi inviti a non divulgare i particolari delle sperimentazioni che si moltiplicano a cavallo fra il 1939 e il 1940 tra Francia, Stati Uniti e Germania restano inascoltati. E il guaio è che il terzo Reich ha gli scienziati (Heisenberg) e i laboratori adatti per arrivare prima degli altri a confezionare questo inusitato strumento di morte. Einstein coglie al volo l'entità della nuova minaccia, sospende il suo impegno pacifista e si decide a scrivere la famosa lettera indirizzata al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt. E' il 2 agosto 1939: “Signor Presidente, alcune ricerche svolte recentemente da E. Fermi e L. Slizard (...) mi inducono a a ritenere che un elemento, l'uranio, possa essere trasformato nell'immediato futuro in una nuova e importante fonte di energia”. 

La lettera prosegue invitando il presidente alla massima vigilanza. Ma ci vorranno ancora tre anni - l'attacco giapponese a Pearl Harbour (7 dicembre 1941) e la conseguente entrata in guerra degli Stati Uniti, nonché la dimostrazione della reazione a catena da parte di Enrico Fermi, realizzata in uno scantinato a Chicago il 2 dicembre 1942 – perché maturino le condizioni scientifiche e politiche per l'avvio del Progetto Manhattan, diretto da Robert Oppenheimer. Il resto, purtroppo, è storia ancora ben impressa nella coscienza collettiva: il 16 luglio viene fatta esplodere la prima bomba atomica sperimentale ad Alamogordo. E, benché nel frattempo il terzo Reich sia già caduto nella operazione a tenaglia delle truppe americane e sovietiche, il 6 agosto 1945 la prima bomba atomica viene fatta eplodere sopra Hiroshima. Il 9 agosto segue Nagasaki.

Apocalisse atomica

Lo spirito di una possibile apocalisse atomica è ormai uscito dalla bottiglia. Rimettercelo diviene l'ossessione degli ultimi dieci anni di vita di Albert Einstein. Il fisico – ormai vera e propria icona pop della cultura e del costume al pari di Gandhi e Charlie Chaplin, più volte finito in copertina su Time e intervistato dai media di mezzo mondo – chiude il periodo di “autosospensione” per forgiare un pacifismo del tutto nuovo, all'altezza delle nuove sfide che si trova a fronteggiare. Il mondo gioca con la possibilità reale, che si affaccia per la prima volta nella storia grazie anche allo sviluppo tecnico-scientifico, della sua completa autodistruzione. Sull'orlo del baratro Einstein si chiede – e ci chiede – che direzione vogliamo prendere. Il bivio è chiaro, almeno nella sua mente: da una parte la proliferazione nucleare governata da militari, industria e scienziati acquiescenti, teso a instaurare l'equilibrio del terrore; dall'altra il disarmo e il libero esercizio della scienza finalizzato al progresso. 

Inutile dire che, almeno fino a quando ha dominato la contrapposizione fra USA e URSS, la prima via ha avuto la meglio. Ma leggendo il libro di Greco ci chiediamo quanto peggiore e pericoloso sarebbe stato lo scenario mondiale senza la testimonianza di Einstein. Senza di lui, senza Bertrand Russel con il quale firmò il famoso appello per la pace e il disarmo a pochi giorni dalla sua morte nel 1955, forse il movimento per il disarmo atomico (come il Pugwash) non avrebbe avuto la stessa forza. L'Agenzia atomica internazionale non avrebbe forse varato negli stessi termini il programma Atom for peace. E la scienza avrebbe sicuramente durato fatica a salvaguardare la propria autonomia dai programmi di secretazione della ricerca sull'atomo da parte dei militari.

Il senso di colpa dei fisici

Per alcuni anni subito dopo la seconda guerra mondiale l'immagine di Einstein ha risentito della paternità della bomba che qualcuno a voluto accordargli. Cosa storicamente non vera, giacché il fisico di Princeton non volle partecipare al progetto Manhattan e si limitò a schierarsi con gli Alleati negli anni del grande scontro con l'asse nazifascista. Ma su di lui quell'ombra rimase indelebile, e lo portò ad accollarsi la sua parte di responsabilità per l'innocenza perduta della scienza. Lo strenuo impegno per la pace e l'utopia di un governo mondiale che togliesse ai singoli Stati l'uso legittimo della forza fu il suo modo di riscattare più che se stesso una intera comunità di scienziati.

Il libro di Greco narra tutto questo non tralasciando aneddoti (gustosi quelli sulla sua infanzia e i suoi problematici matrimoni) e approfondimenti di aspetti meno noti al pubblico, come la farsa della fisica nazista che si scaglia violentemente contro la teoria ebraica della relatività. O come l'invito del governo ebraico a diventare presidente dello Stato di Israele dopo la morte di Chaim Weizmann, che Albert declinò con un certo imbarazzo. O come lo straordinario sviluppo del movimento pacifista internazionale e dei “fisici atomici per la pace”, che ancora oggi è alle prese con il rallentamento del disarmo dopo le speranze accese da Gorbaciov e dalla caduta del muro di Berlino. 

Greco ha ragione: Einstein aveva pienamente ragione, e il libro mostra molto bene quanto poco gli si attagliasse il cliché del fisico perso nei suoi pensieri e distaccato dal mondo. Voto per rendere il libro obbligatorio nelle scuole secondarie.

Per acquistare il libro: Pietro Greco, Einstein aveva ragione, Scienza Express, 2012
Gli scritti di Einstein sulla rete: http://www.alberteinstein.info/

 

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Perché ridiamo: capire la risata tra neuroscienze ed etologia

leone marino che si rotola

La risata ha origini antiche e un ruolo complesso, che il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi esplorano, tra studi ed esperimenti, nel loro saggio Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale. Per formulare una teoria che, facendo chiarezza sugli errori di partenza dei tentativi passati di spiegare il riso, lo vede al centro della socialità, nostra e di altre specie

Ridere è un comportamento che mettiamo in atto ogni giorno, siano risate “di pancia” o sorrisi più o meno lievi. È anche un comportamento che ne ha attirato, di interesse: da parte di psicologi, linguisti, filosofi, antropologi, tutti a interrogarsi sul ruolo e sulle origini della risata. Ma, avvertono il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi fin dalle prime pagine del loro libro, Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale (il Mulino, 2024):