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Fecondazione assistita all'italiana

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Martedì 28 agosto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha pronunciato la sentenza che molte coppie desiderose di avere un figlio stavano aspettando. Una decisione che sancisce, senza lasciar spazio a dubbi, l’inadeguatezza e l’incoerenza della legge italiana che regola la fecondazione assistita.

Il caso

Il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è stato presentato da due genitori trentenni che, in occasione della nascita del loro primo figlio affetto di fibrosi cistica, hanno scoperto di essere portatori sani della malattia. Desiderando un altro bambino, i coniugi si sono dunque rivolti a un centro di diagnosi genetica preimpianto, al fine di capire se vi era la possibilità, attraverso il ricorso alla procedura di fecondazione assistita, di evitare al nascituro di ereditare la malattia.  Nessuna selezione di capelli, sesso, o caratteri di alcun tipo. Solo il desiderio di non mettere consapevolmente al mondo un altro figlio che dovrà lottare contro una patologia estremamente grave. Ciò sarebbe possibile grazie a una procedura che permette di identificare la presenza di malattie genetiche o di alterazioni cromosomiche prima dell’impianto in utero dell’embrione. Tale possibilità, tuttavia, è preclusa alle coppie fertili dalla nostrana legge 40/2004, e accessibile solo alle coppie sterili o a quelle portatrici di malattie virali trasmissibili quali l’ H.I.V., e l’epatite B e C (art. 4, L. 40/2004 e Decreto del Ministero della salute n. 31639/2008).

La coppia ha dunque richiesto l’intervento della Corte Europea, affinché riconoscesse l’illegittimità di una legislazione che discrimina coloro che vogliono ricorrere alla scienza per evitare che il proprio figlio erediti malattie genetiche. Sulla base della legge 194 del 1978, inoltre, se il feto risulta essere gravemente malato la madre può ricorrere all’aborto terapeutico: il problema viene dunque solo posticipato, e risolto, se cosi si può dire, con maggiori rischi per la salute e per il benessere psicofisico della madre. Secondo la difesa del Governo italiano, il divieto della L. 40 avrebbe invece avuto lo scopo di proteggere la salute del bambino e della donna, la dignità e la libertà di coscienza degli esercenti la professione medica e l’interesse generale di evitare il rischio di derive eugenetiche.

La Corte ha però riconosciuto le ragioni della coppia, fondando la propria decisione sull’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), secondo il quale “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare”: i ricorrenti hanno il diritto di veder rispettata la loro decisione di diventare genitori, e di ricorrere alla procreazione assistita per non trasmettere al proprio figlio la malattia di cui sono portatori sani.

Alternative, o presunte tali

Quali alternative, rispetto alla procreazione assistita, avrebbe una coppia in assenza della pronuncia della Corte Europea? Da un lato, percorrendo la via della rassegnazione, si potrebbe rinunciare al figlio desiderato, oppure avviare le lunghe pratiche per l’adozione. Dall’altro, volendo perseguire la volontà di concepire un figlio proprio, raccogliere denaro e coraggio, recandosi in uno dei nostri vicini stati europei (tra cui, ad esempio, Belgio e la Spagna) dove la procedura di diagnosi preimpianto è permessa e molto utilizzata. In caso di impossibilità a farlo, concepire naturalmente un figlio e, in caso di malattia, valutare la possibilità di abortire.

La famigerata legge 40

Fin dalla sua approvazione, la legge 40/2004 ha suscitato molte polemiche. L’impianto della legge mostrava una chiusura quasi ermetica rispetto a tutte le possibilità offerte dalla fecondazione assistita, limitandone il ricorso solo a coppie sterili, consentendo un impianto al massimo di tre embrioni per ogni ciclo di fecondazione (togliendo cosi ogni potere decisionale al medico sulla base della situazione della paziente), senza possibilità di diagnosi preimpianto, e senza poter ricorrere a donatori esterni (cd. fecondazione eterologa).
Oggi, dopo svariate vittorie in tribunale, la cui principale è rappresentata dalla sentenza n.151/2009 della Corte Costituzionale, non vi è più limite in merito al numero massimo di embrioni da poter impiantare, che sarà il medico, caso per caso, a stabilire. Gli eventuali embrioni prodotti in eccesso potranno essere crioconservati (superando il precedente e ingiustificato divieto). Ferma restando l’impossibilità di ricorrere a gameti esterni attraverso la cd. fecondazione eterologa, ora potranno effettuare la diagnosi preimpianto sia le coppie sterili che quelle fertili.

Un percorso a ostacoli, dunque, quello della legge che si proponeva di regolare una materia molto delicata ma ha finito solamente per ignorarne i più basilari aspetti pratici e di buon senso, oltre che a violare principi fondamentali quali quello della parità di trattamento e del diritto alla salute, riconosciuti in seguito dalla nostra Corte Costituzionale e, ora, anche dalla Corte Europea.

Lo scenario a breve termine: quali i rischi di un ricorso del governo?

La sentenza europea ha suscitato reazioni contrastanti e non poche polemiche, soprattutto da parte del mondo cattolico e dai sostenitori politici della legge 40.

Il Governo potrebbe presentare ricorso alla Grande Chambre contro la sentenza, facendo leva soprattutto sul fatto che la coppia ha adito la Corte Europea senza prima esaurire tutti i rimedi giurisdizionali italiani, come previsto dall’articolo 35 della CEDU (è risuonata varie volte anche la voce del cardinal  Bagnasco, che ha voluto sottolineare che "non si è passati attraverso la magistratura italiana" che è stata "surclassata”). Tale previsione discende dal principio di sussidiarietà su cui si fonda il sistema della CEDU, che configura il giudice nazionale come primo garante della sua applicazione. L’interpretazione da parte della Corte Europea, tuttavia, è sempre stata piuttosto flessibile e questo potrebbe giustificare l’apparente anomalia di questo caso, nonché rappresentare l’appiglio per confermare la decisione. La Corte ha infatti ribadito altre volte che la regola dell’esaurimento dei rimedi interni deve applicarsi senza eccessivi formalismi e tenendo sempre conto delle circostanze del caso concreto. Il “rimedio” statale, inoltre, deve essere accessibile ed efficace. Già in un precedente caso europeo è stato ribadito che, poiché il sistema di giustizia costituzionale italiano non contempla il ricorso diretto dei singoli alla Corte Costituzionale (che è sempre su iniziativa di un giudice), l’istanza ai giudici comuni non può considerarsi automaticamente un rimedio interno. In altre parole, il vaglio della questione da parte della Corte Costituzionale non è scontato nel momento in cui ci si rivolge a un tribunale di primo grado e, pertanto, non è detto che sia un rimedio effettivo per i singoli cittadini i cui diritti siano violati, come in questo caso.

Il Governo ha 3 mesi di tempo per elaborare le proprie argomentazioni, dopodiché la sentenza europea diverrà definitiva. Nel momento in cui ciò accadrà, il suo contenuto sarà vincolante per il nostro paese. Il Parlamento, dunque, sarà chiamato a modificare la Legge 40/2004, oppure, successivamente interpellata la Corte Costituzionale, quest’ultima potrebbe intervenire direttamente sul testo della legge.

In mancanza di tutto ciò, si finirebbe per ricorrere ai tribunali di primo grado, che dovrebbero interpretare la legge 40 in modo conforme a quanto stabilito dalla Corte Europea, e contrariamente al dettato letterale. Questo sarebbe un rimedio estremo e comunque dubbio. E’ dunque auspicabile che il nostro Parlamento si faccia parte diligente, prenda atto delle indicazioni europee, e provveda a rendere possibile la diagnosi preimpianto anche per le coppie fertili, eliminando quella anomalia e incoerenza che è finalmente stata riconosciuta anche in ambito sovrananzionale.


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