L'etica dei trial clinici è tema controverso. Paradossalmente, anziché muovere verso condizioni sempre più protette, certa ricerca tradisce ancora zone d'ombra, poiché i pazienti arruolati non vengono garantiti sempre e ovunque allo stesso modo. Da tempo auspichiamo un maggior rigore e una normativa internazionalmente condivisa nella gestione degli studi di ricerca, soprattutto quelli condotti all'estero e che coinvolgono soggetti deboli che necessitano di tutela particolare (minori, indigenti, cittadini di Paesi a Basso Indice di Sviluppo Umano). Forse le recenti, drammatiche notizie diffuse dalla stampa internazionale serviranno a sollecitare una efficace mobilitazione.
E' stato stimato che nel 2010, in India, sono morte 668 persone coinvolte in trial clinici. L'India ha regole molto blande sul consenso informato del paziente e non prevede alcun tipo di risarcimento per chi subisce danni anche minimi in seguito a sperimentazioni cliniche. Le autorità, in primo luogo l'ente corrispondente alla nostra Agenzia per il Farmaco, la Central Drugs Standard Control Organization (CDSCO), hanno iniziato a spingere affinché si giunga presto a una riforma del sistema, con meccanismi di maggior controllo sui comitati etici, sull'attività dei ricercatori e sulle aziende sponsor. E' stata avanzata anche una proposta per calcolare l'entità dei risarcimenti sulla base del censo, dell'età, e del tipo di disabilità causata dal trial clinico. Questa prospettiva ha allarmato alcune aziende e quegli studiosi che temono che l'aumento di controlli e di costi legati alla riforma proposta, possano trasformarsi in limitazioni pesanti per il progresso della ricerca. Il dibattito è molto acceso, anche in considerazione del resoconto della Commissione parlamentare su Salute, Welfare e Famiglia che ha accusato il CDSCO di anteporre gli interessi dell'industria a quelli dei pazienti indifesi.
Anche altrove, del resto, permangono dubbi e quesiti etici di non facile soluzione. Uno fra i più spinosi riguarda le possibilità sviluppate dallo studio del genoma umano. Capita infatti che da una sequenza di DNA prelevata per studiare uno specifico argomento, per esempio un tumore, emergano caratteristiche, anche gravi, che rimandano a tutt'altro ambito, per esempio il gene di un virus come l'HIV. Cosa fare con queste informazioni se il paziente che ha donato le sue cellule lo ha fatto a condizione di rimanere anonimo? Il consenso informato firmato dai soggetti che donano tessuti per questo tipo di studi è predisposto in modo che la persona non possa essere contattata. Il razionale di questo comportamento è legato ad un obiettivo differente, dal fornire assistenza o curare eventuali problemi riscontrati per caso sui campioni studiati: infatti, l’obiettivo, almeno in questa fase degli studi, è solo quello di aumentare la conoscenza. In altre parole, il ricercatore non è il medico dei pazienti che donano i tessuti e non può né deve agire come tale. Insomma, può capitare che sia necessario infrangere le regole per informare il soggetto di un rischio importante emerso casualmente. Altre volte, il pericolo potrebbe estendersi ai suoi familiari, persone difficili da rintracciare e spesso nemmeno più legate alla persona che ha donato il campione. Cosa fare in questi casi? Qual è il dovere del ricercatore? Dove finisce la sua responsabilità e, più prosaicamente, chi garantisce tempo e risorse per risalire a tutti i soggetti potenzialmente coinvolti?
E' evidente che si tratta di un problema spinoso che sta stimolando la messa a punto di nuove policy da parte del governo federale negli Stati Uniti. E' qui che si conduce il 50% di tutti gli studi attualmente in corso (46,8 trial per milione di persone, contro gli 11,5 dell'Europa e i 3,3 della Russia, in base ai dati diffusi dal National Institutes of Health), ma le cose stanno cambiando.
Proprio in Russia, il numero di persone che si sottopongono a trial clinici, soprattutto mirati a testare nuovi farmaci, è in ascesa costante ed è legato alla possibilità di ottenere in questo modo accesso a cure mediche gratuite. Anche per questo motivo sempre più studi sperimentali sostenuti da compagnie farmaceutiche statunitensi ed europee vengono condotti in Russia: qui i costi sono più contenuti, la tempistica e la burocrazia più snelle e i volontari abbondano. Il governo Putin, desideroso di aprire il Paese a nuovi tipi di investimenti, nel 2010 ha approvato una legge che obbliga le case farmaceutiche che intendono lanciare un prodotto sul mercato russo a testarlo localmente. Il provvedimento ha immediatamente fatto impennare il numero di trial approvati in loco: ben 448 nei primi sei mesi del 2012, contro i 201 del primo semestre dell'anno precedente. Un aumento del 96%! Misure simili sono state adottate anche da Singapore, dalla Corea del Sud e dalla Cina. La conseguenza diretta auspicata da questi governi è quella di ottenere nuove risorse per le proprie strutture, formazione gratuita per i professionisti locali e assistenza di qualità per i pazienti.
Dal punto di vista etico occorre chiedersi qual è lo scopo di una sperimentazione: la ricerca di nuove opzioni terapeutiche o il trattamento diretto? Inoltre, le aziende farmaceutiche che testano i loro nuovi prodotti all'estero utilizzano i risultati dei trial per ottenere in patria l'autorizzazione alla commercializzazione. In alcuni casi le condizioni in cui è stato condotto lo studio hanno destato perplessità. Altre volte i risultati nazionali differiscono da quelli dei test condotti all'estero. E' imperativo che il rigore dei controlli e il rispetto delle regole venga preteso e garantito ovunque, in un'ottica veramente globale di avanzamento della conoscenza e condivisione delle opportunità di cura.