Lettera aperta al Ministro della Ricerca Scientifica
Come quasi tutti i Paesi dell’UE l’Italia agonizza in una crisi economica superabile solo con una più equa distribuzione della ricchezza e soprattutto con una sua più efficiente produzione: a quest’ultima un forte contributo può arrivare dalle bioscienze, a patto che se ne ottimizzi il potenzialo innovativa e applicativo.
Purtroppo la maggior parte dei biologi italiani lavora in strutture e con strumenti inadeguati, ma anche da noi esistono élite: una è identificabile nei soci dell’Organizzazione Europea di Biologia Molecolare (EMBO), una sorta di club esclusivo in cui in riconoscimento dei loro titoli i nuovi soci vengono cooptati mediante tele-votazioni estese a tutti i soci europei. In Italia ce ne sono un centinaio, lavorano in università e centri di ricerca e si distinguono dai colleghi non soci per l’impegno nella tele-cooptazione, peraltro d’anno in anno meno partecipata. Alcuni dei nostri soci vengono nominati a rappresentare il Paese presso i vari comitati EMBO (borse di studio, convegni ecc.), ma con discrezione: c’è chi ci rappresenta da decine d’anni, forse a sua insaputa. I soci italiani sono bravi, ma in media meno dei colleghi tedeschi, inglesi e francesi: abbiamo ragione di credere che le cause non siano genetiche, ma ambientali. Oltr’alpe la ricerca è molto più gratificante, i nostri colleghi europei (spesso cervelli italiani in fuga) godono di finanziamenti più alti dei nostri e li usano meglio. E qui emerge un paradosso: i Paesi partner dell’EMBO e del suo laboratorio (EMBL) ne sostengono il funzionamento in base al loro PIL, ma ne fruiscono in base alle loro competenze scientifiche. Così, grazie anche ai contributi di tutti i partner, alcuni Paesi dispongono di strutture e servizi molto avanzati: l’Italia purtroppo non è tra questi. In più il nostro finanziamento a favore d’una ricerca che di fatto è prevalentemente anglo-franco-tedesca intacca il sostegno pubblico e privato alla nostra, già gramo all’origine. Ma pur di far parte d’un prestigioso club, d’essere associati all’eccellenzadella ricerca comunitaria, quasi fosse nostra, siamo pronti a rinunciare ai giusti ritorni dei nostri contributi, quasi fossero inique estorsioni, a dimenticare il valore sociale e scientifico della coesione, quasi fosse fastidiosa zavorra o retaggio post-marxista o post-sessantottino.
La partecipazione d’un Paese a progetti internazionali è una sorta di esame di maturità: per passarlo occorrono competenza scientifica, accortezza politica, sensibilità sociale. Qualità oggi scarse, forse più che in altri tempi: nel secondo dopoguerra l’Italia assecondò prontamente la proposta della fondazione prima dell’EMBO e poi dell’EMBL. Purtroppo l’entusiasmo d’allora è lentamente sbollito. Né l’ha ravvivato la recente crociata dell’EMBO contro i tagli alla ricerca minacciati dal bilancio UE 14-20 e a favore dell’European Research Council (ERC), un ente erogatore vicino all’EMBO che controlla circa 8 miliardi di euro con cui sostenere progetti ‘altamente competitivi’.
Finanziamenti comunitari alla bioscienza, direzione e tassi di sviluppo, emarginazione dell’Italia nel settore, sono nodi vecchi e incattiviti. Nel 94 l’autorevole Science pubblicò una nostra denuncia del ruolo dell’Italia nell’EMBO: da allora la situazione non è migliorata. Partita con poche decine di scienziati in rappresentanza dei sette Paesi fondatori (l’Italia aderì poco dopo), l’EMBO ora ne raggruppa 27. I soci sono oltre 1500: grosso modo 300 inglesi, 200 tedeschi, 150 francesi e 120 svizzeri, 100 italiani, poi gli altri; il bilancio è sui 200 milioni di euro e ce ne accolliamo il 12%, un po’ meno di Germania, GB e Francia, ma la nostra fruizione è inferiore, e di molto. Basti ricordare che l’Italia non ha mai avuto un direttore né all’EMBO, né all’EMBL; non ha un capogruppo tra i circa 100 che ora guidano i centri di ricerca di Heidelberg, Cambridge, Amburgo, Grenoble e Monterotondo; su 30 medaglie d’oro EMBO a oggi assegnate, 14 sono andate a giovani attivi in GB, nessuna a un ricercatore attivo in Italia, ma (si noti!) ben 3 a italiani attivi all’estero; poche le forniture e le commesse a nostre ditte; striminzita la nostra presenza tra gli oltre 3000 ricercatori e funzionari stabilmente occupati nei 5 centri comunitari; borse, corsi, simposi e conferenze ci vengono centellinati; è raro trovare italiani tra gli oratori invitati. Di norma i benefici sono meno quantizzabili dei costi, ma per noi il loro ineludibile rapporto è deprimente, anche per colpa della nostra inazione. A riprova si ricordi che per rafforzare il contrasto alla minaccia di tagli ai fondi alla ricerca UE l’EMBO ha mobilitato ben 47 VIP delle scienze: non uno è italiano. Ora quel contrasto è giusto e doveroso purché coerente con gli obiettivi indicati dei padri fondatori dell’EMBO: l’eccellenza nella ricerca e la coesione tra i partner. Allora come ora valori nobili ma contrastanti, meritevoli di una difesa che è sempre stata strenua per la prima, ma fiacca per la seconda, in quanto legata agli innominabili giusti ritorni. A proposito, si ricordi che nel 2011 abbiamo versato a Bruxelles ben 6 miliardi più di quanti ne abbiamo ricevuti: la situazione ci accomuna agli altri Grandi, si obietterà, solo che per noi 6 miliardi sono molto di più che per loro! Tant’è vero che noi tagliamo linearmente la nostra ricerca, mentre altri saggiamente la potenziano selettivamente e generosamente. Tutti però dobbiamo rispettare accordi internazionali che impongono ai partner contributi basati sul loro PIL: è anche grazie a questo che oggi la Germania eccelle in biologia cellulare e la GB in bioinformatica, trainate rispettivamente dagli efficientissimi laboratori EMBL di Heidelberg e Cambridge. E intanto noi non riusciamo a finanziare dignitosamente la nostra ricerca e regrediamo.
Nel dopoguerra i fisici capirono la necessità di megastrutture per i loro progetti di ricerca e l’insostenibilità dei relativi costi da parte dei singoli Paesi: a Ginevra crearono il CERN che fu subito preso a modello dai biologi molecolari, più visionari che previdenti. Ora il CERN è unico e insostituibile (vedi LHC) anche grazie alla partecipazione di tanti fisici italiani, Nobel e borsisti (abbiamo avuto tre direttori generali). L’EMBO (e l’EMBL) non sono né unici, né insostituibili, e non funzionano (altrettanto) bene: certo la sperimentazione biologica è meno costosa e più accessibile ai singoli Paesi, anche se piccoli, purché consapevoli della sua importanza e pronti a sostenerla. Per quel che riguarda la cooperazione internazionale, non c’è quindi ‘necessità economica’ per una struttura come l’EMBL, mentre c’era e c’è per il CERN, che ha un budget 10 volte superiore (insostenibile anche per le massime potenze globali), e modalità di funzionamento diverse (il CERN di norma opera su progetti portati al Ginevra da ricercatori esterni). Per EMBO e EMBL ci sarebbe un’ampia ’opportunità scientifica’, visto che alcuni partner sono più avanti di altri. Ma il suo modus operandi comporta il finanziamento di progetti e centri distaccati che saranno certo ‘eccellenti’ (anche grazie all’appoggio di house organs come Nature, EMBO Journal ecc), ma che sono esplicitamente ‘nazionali’ quanto a gestione e fruizione: di ‘comunitario’ hanno il nome e i fondi. Ad esempio, per aggiornarci in genomica, dobbiamo far venire in Italia bioinformatici da Cambridge e pagargli la trasferta nonostante siano ‘dipendenti’ anche nostri; ma è più facile che siano inglesi piuttosto che italiani! Infatti i due grandi centri di Heidelberg e Cambridge impiegano molte centinaia di giovani, per lo più tedeschi e inglesi, bravi e felici di fare ricerca in avveniristici e stimolanti laboratori, a casa loro, su loro progetti, e di guadagnare bene esentasse; ma di italiani ne troviamo pochissimi. Il confronto col centro di Monterotondo non ci dà grandi soddisfazioni: studia i geni del topo, ed è modesto al punto che se in Google cerchiamo il termine ‘EMBL outstations’, compaiono i centri di Heidelberg, Cambridge, Grenoble e Amburgo, ma non Monterotondo! Lo si trova solo nelle pagine successive, e vi si legge che ospita una piccola frazione dei ricercatori presenti a Heidelberg o a Cambridge, ma anche che il direttore e i nove capigruppo sono cosmopoliti (l’unica italiana è ‘in visita’): una nostra sottorappresentanza potrebbe essere comprensibile per le outstations tedesche, francesi, o inglesi, non per quella ‘italiana’; in più, almeno nella mia esperienza, non è facile contattarne i responsabili per ottenerne materiale, informazioni o collaborazioni. C’è da chiedersi a chi serve e perché mai l’abbiamo attivato/accettato.
Nel 2014 l’EMBO compie 50 anni: mostra qualche ruga e soffre del peccato originale che segnò il suo concepimento entusiastico ma non necessario. Un coordinamento sovranazionale delle ricerche è auspicabile: continui a occuparsene l’EMBO, mentre i 5 centri EMBL (ora a carico della comunità) potrebbero passare ai Paesi ospitanti che pagherebbero all’EMBO il giusto valore. Di conseguenza l’Italia rileverebbe Monterotondo, Germania, GB e Francia i loro supercentri. Un’EMBO così potenziata acquisirebbe risorse con cui autofinanziarsi per anni nei quali potrebbe rinunciare a parte almeno dei contributi dei partner (per quasi tutti oggi un po’ di risparmio è benvenuto); potrebbe promuovere ricerche comunitarie o nazionali, più meritevoli che ‘competitive’ e più vicine alla cultura e ai bisogni dei singoli Paesi; potrebbe rafforzare il suo ruolo istituzionale di diffusore delle bioscienze, coordinatore delle ricerche, consulente nella valutazione di casi nazionali e eventuale compensatore. L’eccellenza dovrebbe resistere e la coesione riemergere nel doveroso riconoscimento dei giusti ritorni. L’ERC dovrebbe assicurare ai finanziamenti trasparenza e competenza e evitare conflitti d’interessi legati a contiguità con EMBO/EMBL, oltre che con potenti istituzioni nazionali.
Le possibili soluzioni ad una situazione oggettivamente critica non sono molte.
- Uscire. Oltre alla faccia, perderemmo mezzo secolo d’investimenti: infatti la recente proposta che all’eventuale chiusura di EMBO/EMBL tutti i beni vadano alla Fondazione Volkswagen (che nel 1964 fa ne aveva accortamente finanziato l’avvio con 680.000 $) è stata approvata da tutti i soci. Meno uno.
- Continuare così. Magari aumenteremo la nostra presenza, avremo più eventi, ecc. Ci basta? Gli old boys (e le old girls) dell’EMBO dicono di sì, o tacciono. Ma se davvero tutti auspichiamo eccellenzascientifica per l’UE e coesione verso l’alto per i partner, entrambe mediate dai famigerati giusti ritorni, dobbiamo riconoscere che premiare i ‘migliori’ (spesso i più ricchi), e penalizzare i ‘peggiori’ (spesso i più poveri) non è meritocrazia: è mal travestita aristocrazia. Se i milioni di euro contesi sono poca cosa a fronte del PIL totale dell’UE, sono tanti per la ricerca italiana. Ma nella scienza valgono anche i principi, come iritorni, a patto che siano giusti. Forse non sono facili da quantificare, ma certo sono irrinunciabili.
- Cambiare. Ma solo dopo aver esplorato nuove tattiche e strategie con rinverdite accortezza politica e competenza scientifica. E con la partecipazione di addetti e simpatizzanti, operatori e informatori, politici e amministrativi, al di qua e al di là delle Alpi. Lo dobbiamo ai nostri figli e nipoti, se vogliamo per loro un futuro paragonabile a quello dei loro cugini UE, e alla scienza, se vogliamo un suo sviluppo meno competitivo ma più cooperativo, meno spettacolare ma più responsabile.