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Tasse universitarie, le ragioni di un'ingiustizia

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Francesca Coin e Francesco Sylos Labini rispondono alla nostra richiesta di chiarire come hanno calcolato alcuni dei numeri con cui avevano criticato la nostra analisi sul trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi insito nell’attuale sistema di finanziamento dell’università (leggi qui).

Li ringraziamo del chiarimento, dal quale capiamo che i loro numeri si riferiscono a quanto, attraverso l’Irpef, ciascun singolo contribuente con un determinato reddito paga del finanziamento dello Stato all’università (incidentalmente, le formule presentate da CSL sono imprecise, perché non tengono conto dei contributi sociali e delle varie deduzioni e detrazioni, e inutili, perché nella stessa tabella del Dipartimento delle Finanze da loro utilizzata c’è già, nella colonna W, l’imposta netta media pagata dai contribuenti nelle varie classi di reddito; moltiplicando quella colonna per il rapporto tra l’FFO e l’Irpef netta totale, che è leggibile nell’ultima riga della stessa colonna e non deve essere stimata come CSL fanno, si ottengono immediatamente i valori precisi dei numeri che loro approssimano).

Dai loro conti risulta, e non è certo una sorpresa, che i cittadini più ricchi pagano di più (proprio perché, essendo più ricchi, pagano più tasse, anche per via della progressività). Non abbiamo nessun problema con questa ovvia conclusione, che non è affatto in contrasto con la nostra affermazione. Non abbiamo mai detto, infatti, che il trasferimento dai poveri ai ricchi derivi dal fatto che il singolo contribuente povero paghi di più del singolo contribuente ricco. Il nostro punto è che ci sono tanti contribuenti poveri (circa il 62% del totale dei contribuenti, su dati del 2008; circa il 70%, su dati del 2010) che contribuiscono a finanziare l’università ma non mandano i propri figli a frequentarla; e questi contribuenti pagano nel loro insieme un ammontare non trascurabile di risorse ad altri contribuenti che invece mandano i propri figli all’università (sono circa 2.5 miliardi all’anno, con dati del 2010 e limitandoci al solo FFO, come CSL preferiscono fare); finanziano così o contribuenti che sono già oggi più ricchi, o contribuenti che, una volta laureati, saranno (mediamente) più ricchi in futuro. Abbiamo spiegato nel precedente post come facciamo questo conto e ci sembra di capire che CSL non lo contestino; perciò non ci ripetiamo.

La vera questione rilevante che però CSL pongono è se ciò sia giusto oppure no. Per rispondere, bisogna chiedersi se anche queste famiglie povere e senza figli all’università traggano un beneficio dal fatto che altri ci vadano, oppure no (nel gergo degli economisti, la questione è se ci siano rilevanti esternalità positive associate all’istruzione terziaria). L’opinione di CSL (“a nostro avviso”, scrivono) è che sia così. Noi abbiamo provato ad andare oltre l’espressione di una opinione soggettiva e abbiamo guardato a quali conclusioni giungono le analisi empiriche, nazionali e internazionali, che hanno cercato di dare una risposta a questa domanda (ne parliamo parecchio nel libro “Facoltà di Scelta”, Rizzoli 2013). E la conclusione, come abbiamo scritto nel nostro precedente post e ancora rispondendo a Paolo Palazzi, è che l’evidenza è piuttosto debole, per usare un eufemismo: di quelle esternalità non si trova traccia significativa (a differenza di quel che accade per i livelli inferiori di istruzione) e gran parte del beneficio derivante dall’acquisire un’istruzione superiore è “internalizzato” da chi l’acquisisce. Perciò noi concludiamo che non è giusto far pagare a tutti quello di cui solo in pochi usufruiscono. E che sia invece giusto che chi avrà un beneficio futuro (che i dati ci dicono essere significativo) ne sopporti oggi una buona parte dei costi.

Non vale a questo proposito il parallelo che CSL fanno con la scuola dell'obbligo o con la sanità. In questi casi le esternalità sono molto più rilevanti (come testimoniato da un'ampia letteratura). Inoltre si tratta di servizi che sono usati assai diffusamente, nei fatti o potenzialmente, in un’ottica prudenziale. Infine, sono casi in cui, semmai, sono i poveri più dei ricchi a utilizzare più intensamente il servizio. Sono perciò casi in cui ha certamente senso che il servizio sia finanziato attraverso la fiscalità generale.

La seconda questione posta da CSL è che cosa proponiamo in alternativa. CSL offrono una caricatura della nostra proposta: far pagare 10000 euro di tasse universitarie a chi oggi ne paga 100 attraverso l’Irpef. Si tratta, però, di una rappresentazione che sfigurerebbe persino sulle bancarelle degli ambulanti di piazza Navona (e che ha anche un difetto di logica, perché le tasse universitarie le paga chi va all’università, e quindi il contribuente povero che non manda i propri figli all’università comunque non le paga, qualunque esse siano).

La nostra proposta è davvero molto diversa: solo per alcuni corsi e solo in alcuni atenei, le tasse universitarie possano essere aumentate a 7500 euro in media, con una forte differenziazione per reddito della famiglia d’origine (e quindi gli studenti che vengono da famiglie più povere dovrebbero pagare molto di meno, forse non più di quanto pagano oggi). Gli studenti sceglierebbero se frequentare quei corsi, oppure se continuare a frequentare i corsi attuali: lo farebbero solo se ritengono che quei corsi offrano loro una migliore formazione e migliori prospettive di guadagno, tali da più che compensare il maggiore costo iniziale. E se, provenendo da una famiglia più disagiata, non avessero i soldi per fare questo investimento, pur ritenendolo produttivo, avrebbero accesso a un finanziamento che consentirebbe loro di farlo. Un finanziamento da restituire non con una rata fissa, come i mutui per la casa, ma in modo proporzionale al reddito futuro del laureato, sopra una certa soglia: questo evita rimborsi insostenibili e offre una parziale assicurazione contro il rischio di investire in istruzione terziaria, perché sposta l’onere maggiore del rimborso in quei periodi in cui esso è più facilmente sopportabile. Per questo facilitano l’iscrizione all’università soprattutto per chi viene da famiglie economicamente svantaggiate (più soggette a vincoli di liquidità e più avverse al rischio).

Ci sono altri importanti tasselli nella nostra proposta che non vogliamo qui affrontare (chi è interessato li trova nel libro). E, a dirla tutta, essa, almeno nella forma di cui nel libro simuliamo la sostenibilità finanziaria, non è motivata principalmente dal desiderio di ovviare all’ingiusto trasferimento di cui abbiamo prima discusso. Come argomentiamo diffusamente nel libro, la proposta è motivata dal desiderio di reperire nuove risorse convogliandole agli atenei che le vogliano e possano meglio usare, senza pesare sul bilancio pubblico. Per aggredire effettivamente il problema del trasferimento dai poveri ai ricchi sarebbe necessario sostituire al finanziamento pubblico le tasse universitarie, mentre noi proponiamo che le maggiori tasse universitarie si aggiungano al finanziamento pubblico, aumentando le risorse complessive per l’università. E questo anche perché riteniamo necessaria una sperimentazione graduale del sistema di finanziamento da noi proposto, prima che se ne possa ragionevolmente pensare una estensione su scala maggiore. 

Crediamo comunque che quanto detto sia sufficiente a capire quanto la proposta sia diversa dalla caricatura che di essa hanno fatto CSL. A loro evidentemente non piace; è un’opinione legittima, ma che almeno le critiche siano rivolte a quello che proponiamo, non a uno spaventapasseri di comodo. Saranno poi i lettori a decidere per loro conto. 

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