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I nostri politici e la ricerca (abbandonata)

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Di quello che vorrebbe fare chi vincerà le elezioni per uscire dalla crisi si sente parlare molto poco. Di formazione dei giovani e ricerca poi non ne parla proprio nessuno. Ma aiutare la scienza è l’unico modo per tornare a crescere e lo è specialmente per noi senza materie prime e con un costo del lavoro così alto. Negli Stati Uniti la crisi economica è diventata un’opportunità per far avviare progetti che altrimenti non sarebbero mai partiti. E lo stesso si sta facendo in India, Vietnam, Brasile, Cina e persino in Egitto. L’Italia con meno ricercatori di tutti i paesi avanzati e meno soldi di tutti sta ormai per uscire dal giro dei paesi che contano e così i giovani di talento di solito vanno all’estero. Si sono fatte varie leggi per farli tornare, una peggio dell'altra. E’ sbagliato: lasciamoli là gli scienziati che hanno avuto successo all’estero, per fortuna ci sono loro a supplire alle carenze delle nostre Università, sono loro che ospitano nei loro laboratori tanti che dopo aver provato a fare scienza per emergere o anche solo per trovare un lavoro hanno dovuto andar via. Invece dovremmo fare di tutto per rendere competitivi i nostri laboratori e offrire agli scienziati dell’Europa, ma anche dell’Asia e degli Stati Uniti di venire loro da noi. Per questo però servono soldi e li si deve spendere bene. Come si fa in pratica? Basta darli direttamente ai ricercatori, quelli davvero bravi sono i primi ad avere interesse a usare bene le risorse (anche solo per riuscire pubblicare i risultati delle loro ricerche nelle riviste di maggior prestigio).  

Mi è capitato di chiedere un giorno al direttore del Lancet, Richard Horton, perché l’Inghilterra sia così avanti rispetto a noi. “E’ semplice, i nostri politici investono molto in ricerca, per ogni sterlina che spendono tornano indietro 0.39 sterline all’anno”. “Per quanto?” chiedo “per sempre”.  

E’ con questo spirito che gli amici del Gruppo 2003 hanno preparato le loro dieci domande ai nostri politici. Risponderanno? Forse sì o forse no. Domenica scorsa, intanto, a Bergamo Mario Monti ha inaugurato proprio qui la sua campagna elettorale. Perché proprio a Bergamo e perché proprio al Kilometro Rosso? Non lo so. Certo per la causa della ricerca è un gran bel segnale. Chissà se anche Monti risponderà alle dieci domande, certo continueremo a chiederlo anche agli altri candidati, a tutti, nessuno escluso.  

Horton mi diceva ancora: “I vostri ricercatori all’estero sono molto considerati dalla comunità scientifica. Vuol dire che gli italiani se gli dai la possibilità si fanno valere e quei pochi che riescono a fare ricerca in Italia sono altrettanto bravi”. E’ vero, per numero di lavori sottomessi alle grandi riviste di scienza e di medicina l’Italia è quasi sempre ai primi posti, quarta o quinta di solito, dopo Stati Uniti, Inghilterra, Cina e qualche volta Giappone. Peccato che negli ultimi 30 anni nessuno di quelli che ci hanno governato è stato all’altezza dei nostri scienziati migliori. Destra e sinistra hanno sempre litigato su tutto tranne che sulla scienza a cui non ha mai pensato proprio nessuno.  

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La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.