L’università
italiana deve migliorare. E ha
bisogno di maggiori finanziamenti. Ma nuove risorse favoriscono il miglioramento
soltanto se concentrate dove possono più
facilmente dare buoni frutti. Inoltre, non possono venire dal bilancio
pubblico; non solo perché i conti dello Stato non lo permettono, ma anche
perché finanziare ancor più gli atenei attraverso la fiscalità generale aggraverebbe
per le famiglie meno abbienti e senza figli all’università l’onere di
finanziare studi universitari redditizi intrapresi prevalentemente dai figli
delle famiglie benestanti.
C’è però un
modo per reperire maggiori risorse e indirizzarle dove meglio possono essere
usate. Non un nuovo terremoto riformatore, ma una creazione graduale di condizioni che consentano
lo sviluppo sperimentale di corsi universitari
operanti in modo diverso e con risorse autonomamente raccolte. Nulla
cambierebbe per chi preferisse continuare con il veccho sistema. Se i nuovi
corsi saranno anche migliori la sperimentazione contagerà positivamente il
resto del sistema. In caso contrario, il fallimento non sarà costato molto.
La nostra proposta si fonda sull’idea che i principali utenti dell’università, gli studenti, debbano essere coloro che ne giudicano la qualità e, scegliendo dove andare, premiano gli atenei migliori e penalizzano i peggiori. Una maggiore concorrenza e una reale facoltà di scelta consapevole ed esigente degli studenti possono migliorare la qualità del sistema universitario. Perché questo possa funzionare sono necessarie tre condizioni concatenate:
- gli studenti devono avere i mezzi economici per scegliere dove andare e quindi per non essere costretti a restare nella città dei genitori;
- un ateneo che viene scelto da molti studenti di valore deve trarne un beneficio (e simmetricamente un ateneo in cui nessuno vuole andare deve esserne penalizzato);
- gli atenei devono avere l’autonomia e le risorse necessarie per costruire un’offerta formativa in grado di attrarre gli studenti.
Per garantire la prima condizione,
proponiamo che gli studenti meritevoli,
sulla base dei risultati ottenuti nella scuola superiore, ricevano un finanziamento, che
ripagheranno quando troveranno un
lavoro e in proporzione al reddito che guadagneranno: pagheranno cioè poco
(o nulla) quando il loro reddito sarà basso, e pagheranno di più quando se lo
potranno permettere.
Per garantire la seconda, proponiamo che
le università possano raccogliere, dagli studenti che le scelgono, maggiori
risorse attraverso maggiori tasse
universitarie, differenziate per
reddito della famiglia d’origine; quindi non uguali per tutti, ma in media
più elevate di adesso (e non in
sostituzione delle risorse che oggi le università ricevono dallo Stato).
Per garantire la terza, proponiamo che
sia concessa ampia autonomia agli atenei,
non solo nel disegno dell’offerta formativa, ma anche nelle scelte riguardanti
assunzioni, retribuzioni e promozioni di docenti e ricercatori, lasciando che
sia poi la valutazione degli studenti a “metterli in riga”.
Proposte di questo tenore provocano
l’immediata indignazione di chi pensa che l’università debba essere
necessariamente “gratis per tutti”. È uno slogan molto efficace. Ma è
sbagliato per almeno tre ragioni.
In
primo luogo si tratta di uno slogan illusorio: la questione non è se
l'università debba essere gratis o a pagamento, ma se il suo costo, che comunque c'è,
debba essere coperto da tutti i contribuenti o solo da coloro che la
frequentano. La prima possibilità genera un paradosso difficilmente
accettabile: oggi in Italia la parte preponderante delle famiglie più povere
paga l’università ai figli di quelle più ricche. Possiamo stimare (su dati 2008/09) che le famiglie (relativamente) più povere (in cui nessuno guadagna più
di 31.000 euro lordi l’anno) che non
hanno figli all’università (composte da circa il 60% dei contribuenti) trasferiscono circa 2,5 miliardi all’anno
alle famiglie con figli all’università: tra queste, circa la metà sono
composte da contribuenti più ricchi. Si tratta quindi di un trasferimento dai
più poveri ai più ricchi di circa 1,4 miliardi l’anno. L’altra parte dei 2,5
miliardi va a contribuenti altrettanto poveri; ma i futuri laureati di quelle
famiglie avranno redditi più elevati (questo ci dicono tutte le statistiche), e
saranno quindi i ricchi di domani (almeno, relativamente parlando); quindi,
anche questo è un trasferimento da poveri a ricchi.
In secondo luogo, per i giovani meno abbienti il prestito è un potente strumento di
equità. Sostituisce la capacità personale alla casualità dell’appartenenza
familiare: con il prestito non sono i redditi correnti (dei genitori) a
essere importanti, ma quelli futuri (del laureato). E prestiti condizionati al reddito futuro (non a rata fissa, come i mutui
per la casa) evitano rimborsi insostenibili e offrono una parziale
assicurazione contro il rischio di investire in istruzione terziaria, perché
spostano l’onere maggiore del rimborso in quei periodi in cui esso è più
facilmente sopportabile: per questo facilitano l’iscrizione all’università
soprattutto per chi viene da famiglie economicamente svantaggiate (più soggette
a vincoli di liquidità e più avverse al rischio).
In terzo luogo, un sistema di prestiti agli studenti
consente di convogliare maggiori risorse
agli atenei che le meritano, senza gravare sullo Stato e aumentando la
qualità del sistema universitario, grazie alla pressione concorrenziale
esercitata sugli atenei stessi dalle scelte degli studenti: avere fiducia in
loro è la chiave di volta.
Nel nostro libro (Facoltà di Scelta, Rizzoli 2013) proponiamo questa riforma graduale, studiandone
approfonditamente i dettagli e simulandone la sostenibilità finanziaria. Senza costi aggiuntivi per il bilancio
pubblico, la riforma, con i parametri qui di seguito descritti,
consentirebbe un aumento netto di
risorse nell’ordine dell’11-13% per gli atenei che sappiano migliorare la loro
offerta formativa in modo convincente.
Lo schema di cui simuliamo la sostenibilità economica prevede di offrire
ai giovani più promettenti (per esempio, i circa 50000 studenti che ogni anno
superano la Maturità con un voto superiore a 90; ma altri criteri sono
possibili) un prestito di 15000 euro
all’anno per 5 anni, per coprire i
costi di sostentamento e le tasse universitarie di una laurea magistrale, da
restituire (con un interesse del 2% reale) mediante un prelievo del 10% sulla parte del loro reddito futuro che superi i 15000 euro lordi all’anno.
Il MIUR deve concedere agli atenei che intendono partecipare allo schema
la possibilità di aumentare le tasse
universitarie al valore medio per studente di 7500 euro annui, pur
differenziandole a seconda del reddito della famiglia d’origine. Deve inoltre
concedere agli atenei l’autonomia per disegnare liberamente l’offerta
formativa, chiamare i migliori docenti, anche dall’estero, con retribuzioni
adeguate, acquistare attrezzature d’avanguardia senza vincoli burocratici.
Proprio il miglioramento dell’offerta
didattica, generato dalle risorse
aggiuntive, dai docenti più qualificati e dalla maggiore autonomia delle
università, crea l’incentivo per gli studenti a scegliere bene, con attenzione
al valore reale del titolo, non a quello legale. E dal canto loro le università hanno un incentivo
ad attrarre gli studenti destinatari dei prestiti, in modo da acquisire le
maggiori risorse da essi portate. Gli
studenti infatti potranno utilizzare il prestito solo nei corsi di laurea per i
quali gli atenei intendono partecipare allo schema. Le università avranno
quindi un incentivo molto forte a partecipare per prime.
I prestiti sono finanziati dalla generazione
dei padri che investe in quella dei figli e dei nipoti, in uno scambio dal potente valore simbolico, ma con una
sua razionalità economica. Veicoli
di questo scambio sono la Fondazione per
il merito (FM), una “scatola” per ora vuota recentemente creata dal Ministero
dell’Economia e dal MIUR con lo scopo di finanziare gli studi universitari
degli studenti più meritevoli, e la Cassa
depositi e prestiti (CDP), che
raccoglie e gestisce il risparmio postale. Questo risparmio viene convogliato
dalla CDP alla FM, che eroga i prestiti e che offre a garanzia dei mancati
riborsi i contributi che le sono stati conferiti. Quindi il finanziamento che
la CDP può razionalmente erogare sarà un multiplo
della garanzia che la FM offre,
in relazione alla frazione che non verrà
restituita. Sotto l’ipotesi che la proposta, come crediamo, sia in grado di
migliorare la qualità dell’offerta formativa e le prospettive di reddito degli
studenti, portandole al livello oggi osservato per i laureati di una delle
migliori università italiane, stimiamo
che la frazione di prestiti non restituita sia nell’ordine del 12%, assumendo
40 anni di vita utile del laureato. La quota non restituita salirebbe al 15%
nello scenario più pessimista in cui i redditi dei laureati fossero simili a
quelli dei migliori studenti di una media università italiana.
La fonte principale di
conferimenti alla FM, da utilizzare a garanzia dei prestiti, deve provenire
dagli atenei stessi. Quelli che vorranno partecipare potranno conferire
alla FM una parte del loro Fondo di finanziamento ordinario. L’incentivo a farlo deriva dall’aumento
complessivo di risorse che così essi otterrebbero. Le nostre simulazioni
mostrano che il conferimento da parte di un ateneo di una quota del suo FFO
porterebbe a un aumento netto di risorse
pari in media a 2 volte la quota conferita. Per un ateneo che fosse capace
di creare in modo credibile nuovi corsi di laurea eccellenti per 500 studenti, una garanzia di circa 5 milioni di euro
all’anno consentirebbe di acquisire circa 10
milioni di risorse fresche annue sufficienti a finanziare quei corsi,
lasciando anche margini per parziali redistribuzioni al resto dell’ateneo.
Aumentare le dimensioni del programma a un numero maggiore di studenti,
obiettivo in sé desiderabile, richiederebbe di allentare i criteri sul merito
per la concessione del prestito; questo probabilmente aumenterebbe il rischio che la frazione di prestiti non
restituita sia maggiore. Se e quando la crisi finanziaria dello Stato sarà
superata, rendendo possibile una maggiore garanzia pubblica per i prestiti, il
programma potrà eventualmente essere allargato a un numero maggiore di
studenti.
La nostra proposta non è l’ennesimo intervento dirigista sull’università, con obblighi e divieti per tutti. Vogliamo iniettare nel sistema una dose di concorrenza, e lasciare autonomia ai vari attori. Non ci saranno, a priori, atenei di serie A o B: tutti potranno partecipare a questo gioco a somma positiva, se sapranno costruire un’offerta convincente che attragga nuove risorse. Ma potranno anche andare avanti col vecchio sistema se preferiscono.