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Amianto, l'uomo non è l'unico a soffrirne

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Chi non ha mai sentito parlare di mesotelioma pleurico? A Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, proprio nessuno. Si tratta di un tumore non molto diffuso in Italia (3,55 casi su 100mila abitanti tra gli uomini; 1,21 casi su 100mila abitanti tra le donne, stando ai dati del rapporto ReNaM 2012), ma ha guadagnato le prime pagine di molti giornali perché si manifesta in modo frequente in tutti quei siti dove un tempo veniva estratto o lavorato un minerale, l’amianto. A Bari, Broni (PV), Cavagnolo (TO), Biancavilla (CT) e appunto Casale il numero di ammalati e di vittime per questo motivo è molto superiore alla media nazionale. Dal 1993 al 2008 si sono verificati nella sola area piemontese 48,7 casi su 100mila abitanti, pari a quasi un ammalato su duemila residenti. Di questi numeri si è molto discusso fino a un anno fa, quando la Corte penale del Tribunale di Torino ha emesso una sentenza di condanna che non ha precedenti nella storia: sedici anni di carcere ai vertici societari dell’Eternit per disastro ambientale doloso e omissione volontaria di cautele antinfortunistiche. Oltre a questa pena esemplare, poi, gli imputati Stephan Schmidheiny e Jean Louis De Cartier De Marchienne sono stati condannati a risarcire tutti coloro che si erano costituiti parte civile durante il processo. Dodici mesi dopo quell’evento, che fu seguito con grande attenzione in tutto il mondo, comincia il processo d’appello, dal quale però non dovrebbero giungere clamorosi colpi di scena.

Il grande interesse mediatico sollevato a suo tempo dal Caso Eternit trova come giustificazione principale gli aspetti di salute pubblica connessi all’inalazione dell’amianto. L’ambito ambientale, di conseguenza, è sempre passato in secondo piano, come funzione derivata di quello sanitario. «Gli studi effettuati nel corso degli anni dall’Agenzia regionale per l’ambiente ­– spiega Claudio Trova, direttore del Centro ambientale Amianto dell’Arpa Piemonte – si sono incentrati sull’individuazione delle aree da bonificare e sul monitoraggio di tutta la zona, al fine di ridurre il pericolo per gli abitanti che qui risiedono».
Esistono però evidenze circa l’impatto delle fibre di amianto su animali e piante?
Le ricerche compiute negli anni hanno interessato in particolare gli animali domestici, che si ammalavano dopo aver frequentato a lungo ambienti in cui la polvere di amianto entrava con regolarità. Così come è accaduto a molti uomini e donne che hanno contratto malattie amianto-correlate, le bestiole vivevano o all’interno degli stabilimenti di lavorazione del minerale, oppure nelle case dove operai e dipendenti portavano i vestiti da lavoro. In maniera piuttosto grossolana è possibile dividere fra le ricerche effettuate sui gatti, che sono nel complesso poche, e quelle compiute sui cani, che risultano invece (relativamente) abbondanti.

Il primo articolo pubblicato in assoluto sull’asbestosi risale al 1931, quando in Inghilterra venne studiato il cadavere di un terrier che aveva vissuto per oltre dieci anni in uno stabilimento di lavorazione dell’amianto. Il caso venne considerato degno di interesse perché portava alla luce un fatto nuovo: i polmoni  presentavano una quantità tale di collagene da aver causato la morte dell’animale per asfissia. Fino ad allora un fatto simile non era mai stato osservato in nessun’altra specie vivente, uomo compreso, nonostante le applicazioni dell’amianto fossero in uso già da secoli. A partire dalla seconda metà del XX secolo, poi, nuovi studi evidenziarono lo stesso fenomeno: cani di età superiore ai quindici anni, che per anni avevano vissuto a contatto con la polvere d’amianto, d’improvviso mostravano problemi respiratori e decedevano nel giro di pochi mesi. A questo dato se ne aggiungevano altri due: non tutte le razze canine erano suscettibili allo stesso modo e c’erano differenze anche di genere. A maggior rischio erano soprattutto i maschi di pastore tedesco, setter irlandese e bovaro delle Fiandre.
Con la diffusione dell’amianto in Europa, si moltiplicarono gli stabilimenti in tutto il continente. Questo minerale veniva utilizzato principalmente come materiale da costruzione, ma la sua grande capacità di isolamento termico e acustico lo rese perfetto anche per produrre intonaci, vestiario e tubature per l’acqua. Cominciarono man mano a sorgere qua e là focolai di asbestosi e mesotelioma pleurico nella popolazione umana e per questo vennero avviati studi sistemici sui ratti da laboratorio (Rattus norvegicus). Nel 1983 venne provata la correlazione diretta tra la presenza di fibre di amianto nei polmoni e l’insorgenza del mesotelioma in questi animali. Non passò molto tempo e lo stesso risultato venne raggiunto nei cani e nell’uomo.

La principale differenza che esiste tra la nostra specie e gli altri mammiferi va individuata nel cosiddetto “tempo di latenza”: una persona può contrarre il mesotelioma fino a cinquant’anni dopo che è entrata in contatto con l’amianto, mentre un cane lo fa al massimo otto anni dopo. Un ratto, invece, si ammala solo un anno dopo aver inalato la polvere d’amianto. Un simile divario è legato al diverso metabolismo delle varie specie e alla durata media della loro vita. L’uomo raggiunge frequentemente gli ottant’anni di età, un cane si ferma di solito intorno ai quattordici anni e di rado il ratto va oltre ventiquattro mesi di vita.

Discorso più complesso riguarda, poi, il mondo vegetale. In questo caso il numero di pubblicazioni è inferiore, ma è proprio dall’Italia che sono giunti degli interessanti risultati. I primi laboratori naturali di analisi sono stati gli stagni e i corsi d’acqua che fiancheggiavano i siti di lavorazione o estrazione dei minerali contenenti amianto. Tipiche di questi ambienti sono le fioriture di Lemna gibba, alghe comunemente note come “lenticchie d’acqua”. I ricercatori hanno scoperto che le sottili fibre minerali cadute sull’acqua si incuneano all’interno delle cellule, provocando uno stress ossidativo che si ripercuote sulla formazione delle strutture intracellulari. Si tratta dello stesso processo che si verifica negli animali, ma porta ovviamente ad altri risultati. Nell’apparato respiratorio animale i piccoli aghi vengono aggrediti dai globuli bianchi i quali, non potendo fare nulla, esplodono e liberano atomi di ossigeno in circolo. Questi atomi, meglio noti come “radicali liberi”, possono causare tumori o variazioni dell’equilibrio interno dell’organismo. Nelle piante, invece, i radicali liberi compromettono la regolare funzionalità degli organelli e possono ripercuotersi sulla stabilità di tutta la pianta.

Esiste però un filtro naturale che sembra non soffrire della presenza dell’amianto. È stato scoperto nei pressi dell’amiantifera di Balangero (TO), la cava che per decenni ha rifornito lo stabilimento di Casale Monferrato. Si tratta di una serie di licheni in grado di intrappolare le fibre presenti nell’aria, proteggendo l’ecosistema che si sviluppa tutto intorno. Autori della scoperta, pubblicata su Plant Biosystem, sono stati, nel 2006, i ricercatori dell’Università di Torino Sergio Favero-Longo, Consolata Siniscalco e Rosanna Piervittori.

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