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Due telescopi sono meglio di uno

Tempo di lettura: 4 mins

Cos’è più potente di un grande telescopio, come ad esempio l’Hubble Space Telescope o il VLT? Telescopi ancora più grandi, ovviamente! Oppure due telescopi. Telescopi più grandi e potenti – il James Webb Space Telescope e lo European Extremely Large Telescope primi tra tutti – li stiamo già costruendo, ma per costruirli ci vogliono soldi e soprattutto tempo. Perché allora non usare due telescopi per fare meglio di quanto si riesce a fare con uno solo? Non sto pensando al Large Binocular Telescope (LBT) che i due telescopi li monta in parallelo sulla stessa forcella, no, penso a due telescopi in cascata, l’uno dietro all’altro!

Non ridete, si può fare, anzi è già stato fatto e sono in corso programmi per farlo sistematicamente. Certo non è semplice allinearli, ma quando ci si riesce, i risultati sono formidabili. Questa configurazione di due telescopi in serie si ottiene usando preferibilmente, come primo dei due, un telescopio tra i più potenti di cui disponiamo e caratterizzato da un’ottima risoluzione angolare, sia esso situato sulla Terra o nello spazio. Avendovi accesso diretto, lo possiamo manovrare a piacere, puntandolo nella direzione desiderata. Lo punteremo quindi in modo da allinearlo e da “guardare dentro” al secondo telescopio. Questo sarà un telescopio di diversa concezione, un telescopio “naturale” – ne esistono tanti nell’universo – la cui lente è costituita da una enorme massa in grado di “curvare” il percorso della luce, proprio come fa una lente di vetro. Il secondo telescopio è dunque un telescopio gravitazionale e la sua lente può essere un oggetto celeste compatto o diffuso, opaco (come una galassia), o trasparente (come il gas che si accumula nella buca di potenziale di un ammasso di galassie, o anche un gran- de agglomerato di materia oscura). Quanto maggiore e compatta sarà la massa della lente, tanto più pronunciata sarà la deflessione dei raggi luminosi. Questo effetto, previsto dalla teoria della relatività generale di Einstein, fu osservato per la prima volta pochi anni dopo la sua formulazione, in occasione dell’eclissi totale di Sole del 29 maggio 1919. L’oscuramento del Sole permise di vedere le stelle dietro di esso e di misurarne la posizione apparente. Un confronto poi con le posizioni delle stesse stelle, registrate a mesi di distanza, quando la loro luce arrivava a terra non più disturbata dalla presenza del Sole, mostrò una piccola e sistematica differenza nel- le posizioni, confermando la correttezza delle previsioni della relatività generale. La deflessione è dovuta al fatto che nello spazio-tempo, deformato dalla presenza di una massa, la geodetica – la linea che descrive il percorso più breve fra due punti – non è una retta bensì una curva.

È chiaro che con la nostra coppia di telescopi non potremo scegliere liberamente quali oggetti celesti osservare ma dovremo accontentarci di guardare il cielo in alcune particolari direzioni, là appunto dove sappiamo che si trovano queste lenti gravitazionali che amplificano il segnale emesso dalle galassie situate oltre la lente e in posizioni favorevoli. A seconda delle caratteristiche e della geometria della lente, e anche dal grado di allineamento tra osservatore, lente e oggetto osservato, le immagini risulteranno più o meno distorte: immagini doppie, triple o multiple, ad arco e, più raramente, ad anello. E saranno anche leggermente amplificate, proprio per effetto della lente gravitazionale che concentra i raggi luminosi. Un “leggermente” che a volte è quanto basta per rivelare qualcosa che altrimenti rimarrebbe inosservabile. I primi astronomi che si resero conto di aver probabilmente allineato il loro telescopio con una lente gravitazionale furono Walsh, Carswell e Weymann, che nel 1979 suggerirono la possibilità che i due quasar 0957+561A e B altro non fossero che due immagini sdoppiate dello stesso oggetto. Ci vollero un po’ di tempo e molte altre osservazioni perché la comunità scientifica si convincesse della cosa, anche perché vi erano differenze (come ad esempio le diverse lunghezze dei due cammini ottici, che impedivano di vedere variazioni simultanee nelle due immagini) solo in seguito spiegate in modo consistente con l’ipotesi dello sdoppiamento di una singola immagine.

Questo esercizio è particolarmente interessante nel caso del weak lensing dovuto a un ammasso di galassie (deformazioni lievi delle immagini, allungamenti orientati tangenzialmente rispetto al centro della lente). In questi casi, infatti, si ottiene una misura della quantità e della distribuzione di materia che costituisce la lente, che eccede, e di molto, quella risultante dall’analisi dell’emissione elettromagnetica dell’ammasso in questione, a dimostrazione della presenza di ingenti quantità di materia oscura. La materia oscura sfugge alle osservazioni dirette ma tradisce la sua presenza proprio per gli effetti gravitazionali che induce. La ricostruzione delle proprietà della lente (massa e sua distribuzione) partendo dagli effetti che produce è uno degli strumenti più potenti per misurare e mappare la materia oscura. Combinando poi questi risultati con quelli ricavabili da osservazioni nella banda X (che rivelano il gas caldo barionico che permea l’ammasso) e con la distribuzione di materia luminosa collassata (galassie), come ad esempio nel caso del Bullet cluster, di MACS J0025 e di Abel 520, si ottiene una descrizione completa della dinamica dell’ammasso e ulteriori preziose indicazioni sulle interazioni tra materia barionica e materia oscura. In attesa di capire che cosa quest’ultima veramente sia. 

Tratto da Le Stelle n°113, dicembre 2012


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