Nessun Paese al mondo può vantare, come l’Italia,
qualche migliaio di anni di arte, storia e produzione di beni culturali. Che il nostro
patrimonio artistico e culturale non temi concorrenza, sia per quantità che per
qualità, è un dato che difficilmente può essere contestato.
Tuttavia, il
paradosso di doverlo considerare, per molti versi, un 'tesoro nascosto', rende
necessario, di nuovo, rilanciare una discussione su quali siano le strategie
più efficaci per la sua valorizzazione.
Questa richezza può essere considerata, a conti fatti, un potenziale strategico per diversi settori di ricerca e sviluppo, oltre che strettamente artistico-culturali. Per rispolverare questo patrimonio disperso, coperto
– a volte letteralmente – dalla polvere dell’indifferenza e dell’incuria, la
ricerca scientifica e tecnologica utilizza già da molti anni, infatti, diversi know how
in grado di andare oltre il restauro o la semplice gestione dei musei. Grazie
alla diagnostica per i beni culturali, ad esempio, l’Italia stessa potrebbe diventare
uno dei più grandi laboratori dedicati all’arte e alla cultura nelle
loro espressioni più ‘materiali’, partendo dall’analisi del loro stato di
degrado. Si tratta di una disciplina che mette insieme competenze di diverse professionalità scientifiche - fisici, chimici, ingegneri, biologi - per garantire una fase di analisi preventiva al restauro di tele, affreschi, statue, sculture lignee, documenti cartacei.
Che composizione chimica ha il colore di un affresco? Quanto e come sono degradati i suoi elementi, quali gli agenti esterni che lo attaccano? Come si può intervenire dall'esterno? Cosa c'è sulla tela di un dipinto, sotto lo strato di pittura? Sono tutte domande che chi indaga su un'opera d'arte si pone per poi scegliere e intervenire con la tecnica più opportuna.
Anna Pelagotti è una ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Ottica del CNR, tornata in Italia dopo una lunga esperienza all’estero come ingegnere elettronico, per dedicarsi completamente alle analisi scientifiche applicate a dipinti, affreschi, sculture. A Firenze, l’ingegner Pelagotti riesce a coniugare le attività di ricerca nel settore dell'ottica applicata alla medicina, all'olografia digitale, con l’impegno sul campo per la gestione e la cura del patrimonio artistico. Il suo è un contributo a quella rete di tecnici esperti che collaborano con restauratori, storici dell’arte e archivisti, da cui si potrebbe ripartire per ripensare un'auspicabile nuova forma di filiera industriale.
Le analisi scientifiche applicate ai beni culturali rendono, di fatto, la diagnostica una specie di "medico" che visita un'opera d'arte. E' corretto?
A.P. Le analisi scientifiche sono gli strumenti più efficaci e idonei per conoscere lo stato di conservazione, e quindi di salute, delle opere d’arte. E una buona cura parte sempre, del resto, da una diagnosi accurata. La diagnostica offre anche qualcosa in più. Permette di scoprire la tecnica che è stata usata per realizzare l’opera d’arte. Nel caso dei dipinti: i pennelli, i colori, la maniera di usarli, in ultima analisi consente di vedere l’artista al lavoro con i suoi materiali, prima e durante il lavoro, mentre l’opera diventa arte.
C'è però il rischio che si comprometta ulteriormente lo stato di degrado di un oggetto d'arte, intervenendo con tecnologie esterne?
Non direi, anzi il contrario. La diagnostica
si è evoluta negli anni per diventare assolutamente non invasiva. Si può
conoscere anche la struttura interna di un dipinto senza neppure toccarlo,
attraverso la radiografia, la riflettografia, le indagini in fluorescenza, ad esempio.
Anche
i prelievi per le analisi chimiche dei campioni, cosiddetti "distruttivi", sono in realtà
microprelievi, che non compromettono, generalmente, l’opera. Certo, per
qualsiasi intervento è fondamentale, però, che si interpelli un esperto.
In questo senso a che punto è la ricerca scientifica in questo settore?
In passato in Italia, inutile nasconderlo, la ricerca scientifica nel campo dei beni culturali è stata sostenuta economicamente, anche in modo sostanzioso, soprattutto dalla Comunità Europea, ma le risorse sono state utilizzate a volte purtroppo in modo discutibile. Anche perché talvolta questo settore è stato il ricettacolo di chi non era risuscito a sfondare in altri campi, spesso considerati più prestigiosi. Questo ha screditato un po’ la scienza per i beni culturali in generale, che non è cresciuta come avrebbe potuto. Nel frattempo i fondi destinati a questo scopo nel nostro Paese però sono molto diminuiti.
Non è successa la stessa cosa all’estero, per cui il primato che avevamo sta vacillando. Nonostante questo, è un campo che affascina. La ricerca c’è comunque stata, anche se sottopagata, e qualcosa è stato fatto. Penso soprattutto ai metodi multispettrali ad immagine, che consentono di conoscere, in modo completamente non invasivo, i materiali e i metodi usati dall’artista con una sorta di analisi chimica senza prelievi di campioni. E’ molto meno di quanto avremmo potuto fare, o, se vogliamo leggerla positivamente, è un campo nel quale ci sono ancora moltissime possibilità.
L'Italia ha un
patrimonio sterminato di beni culturali da tutelare, e la diagnostica è una
disciplina (relativamente) giovane, che deve confrontarsi anche con i
restauratori, gli storici dell'arte...
Quanto c'è
ancora da fare? Le risorse umane in campo sono sufficienti?
La diagnostica deve farsi conoscere, questo è
il primo passo.
Purtroppo essendo appunto una disciplina relativamente giovane,
e non essendo prevista per legge da nessun capitolato di appalto per i
restauri, neanche delle opere più importanti, generalmente non vengono stanziati dei fondi ad hoc, è qualcosa che rimane tra gli optional, e in questo modo viene dunque considerata.
Molti tra i restauratori e gli storici dell’arte - compresi anche i funzionari pubblici - non hanno avuto modo di studiare neanche i rudimenti base delle tecniche attualmente disponibili. E si sa, in Italia spesso non possiamo contare sui corsi di aggiornamento.
La situazione é ben diversa in Paesi dove la scienza, in generale, ha una diffusione ed una considerazione più alte. Lo dico con cognizione di causa. Io ho avuto la possibilità, in passato, di vivere all'estero per molto tempo, ho lavorato in Olanda per sette anni (presso la Philips Research), in un ambiente con un respiro internazionale. Ma per farsi un’idea basta comunque vedere cosa offre la rete. Quanti sono, in particolare, gli Istituti per la Conservazione esteri e cosa fanno, con quali strumenti, e come condividono i risultati. Senza paura. Qui da noi, invece, sono tutti attenti a non esporsi. E senza condivisione, senza crescita comune, rimaniamo isolati e in coda a guardare, inevitabilmente.
Quindi fare il viaggio inverso che molti ricercatori sono costretti a intraprendere oggi, "fuggendo" con le proprie conoscenze, offre uno sguardo più chiaro su cosa va storto nel Bel Paese?
Qualcosa va storto ovunque. Certo che la prima
cosa che capita di pensare “tornando” in Italia è: “perché qui non funziona
nulla?” “Basterebbe così poco”, viene da dire. Ma forse poco non è. Bisogna
credere che quello che farai di buono verrà apprezzato. Vengono in mente alcune parole di Barack Obama, apparentemente scontate: “If you work hard and meet your responsibilities you can get ahead”, ovvero chi lavora con impegno e senso di responsabilità farà strada.
Ma chi potrebbe
credibilmente, in questo momento storico, pronunciare queste parole in Italia? Cerchiamo di resistere. Perché
alla fine amiamo il nostro Paese, non a caso ci siamo tornati, e solo
credendoci possiamo cambiare qualcosa.
Scienza e tutela dei beni culturali italiani: da operatore sul campo si riescono a individuare delle priorità, per un rilancio del nostro patrimonio?
Come prima cosa bisogna diffondere la consapevolezza del valore intrinseco che i beni culturali hanno. Per tutti, come espressione più alta del patrimonio dell'umanità. Se un uomo, in passato, è stato in grado di produrre un oggetto artistico di valore, come uomini valiamo, perché condividiamo queste possibilità. Il perché ciascuna opera d’arte è un’espressione alta va però spiegato, va contestualizzato. Per prima cosa quindi va messo in campo tutto quello che serve a conoscere e a divulgare questo sapere, sia artistico che tecnico, tra tutti. Il che significa, prima di tutto, educazione, istruzione, fin dalla scuola primaria, ma anche rivoluzionare l'approccio espositivo per coinvolgere il visitatore, a prescindere dal suo background, perché possa fruire pienamente dell'opera. Se comprendi il valore di un monumento, ad esempio, se sai che ti appartiene, non lo danneggi, ma, viceversa, lo curi, lo preservi.
La diagnostica può aiutare, perché ti fa vedere di più, si rivelano dettagli non visibili ad occhio nudo, come ad esempio il disegno preparatorio in un dipinto, i chiodi e la colla in una scultura. Queste tecniche ci danno la possibilità di conoscere il suo lato più materiale, come è fatto, prima di essere un’immagine e quindi qualcosa di più immanente, più vivo. E, di conseguenza, il lato umano che c'è dietro l’opera d'arte, l’idea e il progetto nato dalla mente di una persona. Che ha iniziato un lavoro, sbagliato, nel frattempo, ricominciato e consegnato quando il lavoro era terminato, quando il progetto era concluso. Per passare poi il messaggio a noi, responsabili della sua custodia.