fbpx Il nuovo virus dell’aviaria tallonato dai social network | Scienza in rete

Il nuovo virus dell’aviaria tallonato dai social network

Tempo di lettura: 5 mins

Dall’Oriente non viene solo la minaccia coreana di un attacco nucleare. Anche dalla Cina trapelano notizie poco rassicuranti su una nuova epidemia di influenza aviaria, provocata da un virus che mai prima aveva interessato l’uomo, chiamato H7N9. Ma a dieci anni esatti dall’emergenza SARS, che provocò migliaia di casi e centinaia di vittime in tutto il mondo -- tra cui il medico italiano Carlo Urbani, il primo a identificare il coronavirus che ne è responsabile --, le nuove tecnologie stanno costringendo le autorità a cambiare radicalmente il modo di gestire la situazione, imponendo loro una maggiore trasparenza.

Tra il 2002 e il 2003, infatti, il silenzio imposto alla stampa dal regime cinese, che per ragioni di pubblica sicurezza tenne nascosti i primi casi di SARS, impedì un adeguato contenimento dell’epidemia, che si diffuse in tutto il mondo.

Oggi, grazie a internet, la censura è sempre più difficile. Lo dimostrano i primi fotogrammi di questo nuovo film, che si spera a lieto fine. La prima scena è inquietante, anche se forse alla fine si rivelerà irrilevante ai fini della trama: più di 16.000 carcasse di maiali morti per cause sconosciute che galleggiano sul corso d’acqua destinato a rifornire gran parte delle risorse idriche di Shangai. A riferirlo Weibo, il social network che, dopo la messa al bando di Twitter, un paio di anni fa, permette a circa 500 milioni di cinesi di scambiarsi informazioni. C’è sempre la spada di Damocle della censura, ma gli zelanti funzionari addetti all’arduo compito fanno fatica a tenere il passo con la mole e la rapidità di diffusione dei dati. In questo caso, poi, non si poteva smentire il macabro episodio, osservato da migliaia di persone. E’ quindi seguita una dichiarazione ufficiale, che avrebbe voluto essere rassicurante: «Nonostante l’evento, l’acqua di Shangai si mantiene entro accettabili standard di qualità» afferma la nota.

Quando però, pochi giorni dopo, sono stati segnalati i primi casi della nuova epidemia, è stato difficile non associare i due eventi, il cui legame – va detto—resta comunque tutto da dimostrare. Il virus H7N9 (che come tutti i virus influenzali è contrassegnato dalle diverse caratteristiche di due proteine, l’emoagglutinina H e la neuroaminidasi N) finora infatti era stato isolato in rari casi e solo negli uccelli, non nei maiali. Altri casi di influenza A di tipo H7 (ma in altre varianti) si erano registrati negli esseri umani al di fuori della Cina, e anche in Italia, ma con manifestazioni molto lievi, raffreddori e congiuntiviti.

La combinazione H7N9 invece non era mai passata, che si sappia, dagli uccelli agli esseri umani. E la miscela, almeno all’apparenza, sembra esplosiva: dei nove casi segnalati al 4 aprile, tre sono stati mortali, mentre sei versano ancora in condizioni critiche. Attenzione, però. E’ facile sbagliarsi. Questo dato infatti non permette di capire davvero la gravità dell’infezione, perché nessuno sa se questa che vediamo è solo la punta dell’iceberg: per risalire alla letalità del virus dovremmo sapere anche quante altre persone lo hanno contrato senza conseguenze, con qualche starnuto o una lieve influenza. Cosa che si potrà capire solo nelle prossime settimane, a mano a mano che si procederà con l’analisi dei campioni prelevati dalla popolazione.

Nel frattempo le autorità si sono affrettate a smentire il possibile legame con la morìa dei maiali: in una conferenza stampa hanno dichiarato che dall’esame di 34 degli animali non è emersa traccia del nuovo virus.

Accolta con qualche scetticismo la risposta, il social network ha continuato a tenere il fiato sul collo ai portavoce del governo.

I primi tre casi erano stati segnalati domenica a Shangai (i due letali) e nella provincia di Hanhui. Una zona già indicata da un recente studio come ad alto rischio per il riassortimento di nuovi ceppi di virus influenzale. Martedì 2 aprile, però, un anonimo  membro del social network, che dice di lavorare in un ospedale di Nanjing, una grande città della provincia di Jiangsu, al confine con quella di Hanhui, posta la foto di un documento, forse una cartella clinica, in cui è chiaramente riportata la diagnosi di infezione da H7N9 datata 30 marzo. La paziente è una donna di 45 anni, che di mestiere macella pollame. Il regime si affretta a rimuovere il post, ma ormai migliaia di persone lo hanno visto, scaricato e condiviso, e le autorità non hanno altra scelta che ammettere l’evidenza: l’infezione sta dilagando. Nella provincia di Jiangsu i casi sono già quattro, compreso quello che si era cercato di occultare.

A tutt’oggi non si sa ancora se il virus è in grado di trasmettersi tra le persone o è stato contratto solo dagli animali infetti. Nella prima ipotesi, c’è solo da sperare che i casi letali siano un’eccezione. Le nuove tecnologie permettono infatti di incrinare il muro della censura, ma fanno molta più fatica a fermare l’ondata del contagio. Un importante progetto europeo, TellMe, si preoccupa proprio delle modalità della comunicazione al pubblico in questi casi, anche sulla base delle più recenti esperienze.

La nuova epidemia ci trova quindi meno impreparati: in questi ultimi, anche grazie alla caparbietà di una ricercatrice italiana, Ilaria Capua, si è costituita una banca dati internazionale, GISAID, a libero accesso dove sono conservate tutte le sequenze genetiche dei virus influenzali noti (compreso quello oggi emergente). I ricercatori cinesi hanno già depositato le informazioni sui nuovi ceppi appena isolati. E’ più facile quindi, per gli scienziati di tutto il mondo, attingere a questa fonte per studiare la nuova minaccia e cercare il modo migliore per rispondervi in maniera adeguata. Roberta Villa

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.