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Ma le costanti variano? Una domanda per E.T.

Tempo di lettura: 7 mins

Se un giorno riusciremo a stabilire un contatto e a impostare una conversazione con una qualche forma di civiltà extraterrestre, tra le tante cose che vorremo confrontare ci sarà indubbiamente la fisica che noi conosciamo. Se, cioè, le leggi che governano il nostro mondo sono le stesse che governano il loro, situato in un altro luogo e soprattutto in un altro tempo dell’universo in cui entrambi abitiamo. Sebbene tutte le evidenze raccolte sino ad ora ci inducano a pensare che le leggi della fisica che valgono qui e ora valgono anche là e allora e, più in generale, ovunque nell’universo, noi vorremmo esserne certi e poter disporre di misure accurate per conoscere la precisione con cui affermiamo che le due fisiche sono effettivamente identiche. Questo perché anche piccole differenze, sarebbero estremamente interessanti e ci permetterebbero di fare ulteriori passi avanti nella conoscenza della realtà.

Una maniera ragionevolmente sbrigativa per farlo, per capire cioè se siamo governati dalla stessa fisica, sarebbe quella di paragonare i valori di alcune costanti fondamentali; sapere dunque se i nostri ipotetici interlocutori hanno misurato la stessa velocità della luce che abbiamo misurato noi, la stessa carica elettrica dell’elettrone, la stessa costante di Planck, la stessa massa del protone e così via. Per semplificarci la vita ed eliminare i problemi connessi con le differenti unità di misura, potremmo concentrarci su di un paio di costanti adimensionali – numeri puri cioè – quali il rapporto tra le masse di protone ed elettrone, mp/me o, ancor meglio, α, la costante di struttura fine. 
E' questa una costante che si ottiene dividendo il quadrato della carica elettrica e per il prodotto della velocità della luce c e della costante di Planck h e moltiplicando il tutto per 2π. Il risultato, se fate i conti, è 0,0073, anche se i fisici preferiscono esprimerlo come 1/137. Ιntrodotta da Sommerfeld nel 1916, la costante di struttura fine α caratterizza la forza delle interazioni elettromagnetiche, quelle che regolano la vita degli atomi, delle molecole, della materia con cui abbiamo quotidianamente a che fare e delle interazioni tra radiazione e materia. Feynman la definì “... Uno dei più grandi misteri della fisica: un numero magico di cui l’uomo non trova comprensione”.

Il fascino delle costanti

Può sembrare strano voler investire tempo e risorse per verificare la costanza delle costanti fondamentali. Dopotutto, se le abbiamo chiamate costanti, avremo avuto le nostre buone ragioni! Invece, è dai tempi di Dirac che la cosa è considerata alquanto interessante. Se è vero che molte teorie sarebbero messe in crisi dalla scoperta che alcune costanti variano, prima tra tutte la Relatività Generale, altre teorie non ne sarebbero minimamente turbate, anzi. È il caso delle teorie multidimensionali delle stringhe, in seguito raggruppate nella M-theory (dove M può stare per Membrana ma anche per Madre, nel senso della madre di tutte le varianti delle teorie delle stringhe) che molti fisici teorici, tra cui Stephen Hawking, hanno considerato come candidata alla Teoria del Tutto.
Le costanti fondamentali ci affascinano per il ruolo che hanno nel dare all’universo le proprietà che noi osserviamo. Ma non le capiamo, e al loro proposito ci poniamo molte domande che ancora non hanno trovato risposta. Ci chiediamo, ad esempio, quante veramente ne servano di queste costanti, per descrivere il mondo; perché esse abbiano il valore che hanno e cosa lo determini. Siamo comunque consapevoli che piccoli cambiamenti dei valori delle costanti fondamentali porterebbero a situazioni in cui difficilmente la vita (almeno nella forma che noi conosciamo) potrebbe essersi sviluppata. Ad esempio, se la costante di struttura fine avesse un valore minore di quello che ha, anche solo del 5%, gli atomi sarebbero meno “legati” e tutto il complesso processo di formazione degli elementi pesanti attraverso i processi di nucleosintesi stellare ne risentirebbe drammaticamente. In particolare, non sarebbe stato possibile produrre né il carbonio né altri elementi necessari per dare inizio allo sviluppo di quella complessità chimica che ha poi portato alla formazione, differenziazione ed evoluzione della vita. Addirittura, le prime fasi dell’universo sarebbero state molto diverse, con differenti tempi e modi per la ricombinazione, l’epoca precedente e propedeutica alla formazione delle prime stelle. Analogamente, valori maggiori avrebbero provocato diverse ma altrettanto significative differenze nell’evoluzione dell’universo. Ecco dunque perché alcuni fisici sostengono che l’universo sia perfettamente “accordato” (nel senso che le costanti fondamentali hanno proprio i valori “giusti”) per permettere lo sviluppo della vita. D’altra parte va ricordato che se le proprietà o la storia dell’universo non fossero compatibili con lo sviluppo e l’evoluzione della vita, noi non potremmo essere qui a discuterne. 
E' quindi conseguenza di un gigantesco effetto di selezione, che i numeri dell’universo sono proprio quelli che osserviamo. Che esista un solo universo e che questo abbia proprio i numeri “giusti” (per noi) è tuttavia cosa che imbarazza molti scienziati, in considerazione del fatto che il passo che separa dal “Disegno Intelligente” è pericolosamente piccolo. Ecco dunque il favore con cui vengono accolte le teorie che contemplano i multiversi (cioè i molti universi) di cui il nostro sarebbe solo uno di tanti, quello dove le costanti fondamentali assumono i valori che ci permettono di filosofeggiarne in merito. O più semplicemente, l’idea che il nostro universo, pur unico, sia caratterizzato da luoghi (e tempi) in cui le costanti possono assumere valori diversi da quelli che noi abbiamo misurato qui e ora e che la vita si sviluppi soltanto dove la congiuntura è favorevole. Diventa quindi naturale porsi il problema dell’eventuale variabilità delle costanti fondamentali.

L'universo come laboratorio

Nell’attesa, probabilmente lunga, di poter chiedere all’ipotetica civiltà extraterrestre qual è il valore che loro misurano per la costante di struttura fine e paragonarlo al nostro per vedere se c’è variazione, possiamo ingegnarci a cavarcela da soli facendo noi stessi le misure necessarie. Possiamo iniziare con misure di laboratorio che utilizzino orologi atomici basati sulle transizioni iperfini di atomi di diverso numero atomico Z. Orologi al maser di idrogeno, al rubidio o al cesio, opportunamente sincronizzati, perderebbero infatti la sincronia, al variare di α, proprio a seguito del diverso numero atomico che caratterizza l’elemento su cui è basato il loro ticchettio. Queste misure sono sempre più accurate e hanno permesso di porre limiti superiori alla variazione temporale di α di poche parti su 1016 all’anno. Esse, tuttavia, non possono dirci nulla su eventuali variazioni spaziali. L’utilizzo dell’universo come laboratorio ci permette invece di considerare, pur con minor precisione e maggiori problemi di controllo sull’esperimento, variazioni su tempi estremi, dell’ordine dei miliardi di anni e altrettanto estreme scale di distanza. Useremo i quasar, che osserviamo ad alto redshift e quindi in epoche remote, e i doppietti di righe di assorbimento (o emissione) visibili nel loro spettro e dovute a particolari elementi. La distanza tra
le due righe del doppietto
dipende, infatti, dal valore
numerico della costante di
struttura fine, e può quindi
essere paragonata alla distanza, tra le stesse righe,
misurata in laboratorio per
verificare se vi sia stata variazione.

I primi a determinare in questo modo un li
mite alle possibili variazioni
di α furono John Bahcall,
 Wallace Sargent e Maarten
 Schmidt che dimostrarono 
anche la fattibilità del metodo. Nel loro articolo (ApJ
 Letters, 149, L11, 1967) si
 legge: “La separazione di 
struttura fine misurata tra 
le righe di assorbimento del Si II e del SiI V può essere 
utilizzata per determinare 
il rapporto tra il valore che 
la costante di struttura fine
 aveva al redshift z = 1,95 e 
quello di laboratorio...
Noi concludiamo che α(z
= 1,95)/α(z = 0) = 0,98+/-
0,05”. Il limite non era particolarmente stringente, ma il metodo era dimostrato. Da allora molti l’hanno applicato e generalizzato, usando una combinazione di transizioni di diversi elementi. Negli anni, il limite superiore alla variazione di α è stato reso più stringente di oltre un fattore mille. Poi hanno iniziato a comparire i primi risultati non nulli, risultati cioè che sembravano indicare una (seppur debole) evidenza di variazione. La complessità dell’acquisizione e dell’analisi dei dati, la significatività statistica (marginale) dei risultati non nulli, il fatto che siano state presentate evidenze tanto per un lieve aumento quanto per una lieve diminuzione del valore di α, nonché il loro alternarsi a risultati nulli, hanno lasciato la comunità scientifica ragionevolmente scettica, anche se interessata e disponibile a dedicare a questa ricerca ingenti quantità di tempo di osservazione ai maggiori telescopi del mondo. L’ultimo sasso nello stagno è stato lanciato da un gruppo di ricercatori australiani (King e altri, MNRAS, 422, 3370, 2012) che hanno rianalizzato gli spettri di assorbimento di un gran numero di quasar, inclusi quelli che in precedenza avevano portato a suggerire un aumento di α (ottenuti al VLT) e quelli che sembravano invece mostrare una diminuzione di α (ottenuti al Keck). La loro sorprendente conclusione è che la variazione della costante di struttura fine sia descritta da un modello di dipolo angolare che punta in una particolare direzione del cielo (nei dintorni delle 17h di ascensione retta e –60° di declinazione, dalle parti cioè della costellazione australe dell’Altare).

La comunità rimane perplessa e ricorda quello che diceva un grande astronomo che era alla caccia del risultato probabilmente più eclatante che si possa immaginare: l’evidenza di intelligenza extraterrestre. Diceva questo astronomo: “extraordinary claims require extraordinary evidence”, e cioè, “affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie”.
Caro Carl Sagan, ci manchi.

Tratto da: Le Stelle n°115, Febbraio 2013


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