Fotografare una proteina per studiarne la funzione. Affinata da un team di ricerca dell’IFOM di Milano una sofisticata tecnica per catturare con un fermo immagine molecolare il processo coordinato dall’ubiquitina, proteina con un complesso ruolo di comunicazione cellulare, cruciale per la salute dell’organismo. Malfunzionamenti nel meccanismo di comunicazione gestito dall’ubiquitina possono infatti dare origine a tumori. Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Structural and Molecular Biology è stato realizzato grazie a una tecnologia innovativa sviluppata da IFOM in collaborazione con l’Unità di cristallografia a raggi X dello IEO. “La via dell'ubiquitina è molta conservata nei diversi eucarioti, ci sono solo 3 residui amminoacidici differenti tra quella dell’uomo e quella del lievito. Fino a poco più di una decina di anni questa proteina veniva definita bacio della morte, si pensava, infatti, che il senso dell'ubiquitinazione fosse uno solo: la distruzione della proteina marcata da questo specifico segnale molecolare” spiega Simona Polo, responsabile in IFOM del programma di ricerca "Ubiquitinazione e trasmissione del segnale" e ricercatrice presso l'Università degli Studi di Milano. L'ubiquitina, quindi, come un angelo della morte, che si attacca alla proteina condannata e la accompagna fino a una sorta di deposito cellulare di rifiuti: il proteasoma.
Negli ultimi anni però, grazie anche alle
ricerche condotte dall’IFOM, all’ubiquitina sono state attribuite funzioni molto
più complesse nella comunicazione tra ambiente interno ed esterno alla cellula:
sarebbe una proteina multitasking, capace di trasmettere molteplici segnali di attivazione,
degradazione, localizzazione, interazione con svariati fattori proteici. L'esecuzione
corretta di questa funzione dell’ubiquitina risulta essenziale per la vita
delle cellula e dei tessuti e, in ultima analisi, dell'organismo: quando il messaggio
non viene trasmesso e interpretato fedelmente, la cellula corre il rischio di
proliferare in maniera incontrollata, andando incontro a trasformazioni maligne.
“Abbiamo dimostrato che l’ubiquitina svolge un ruolo fondamentale nella salute
dell’organismo, spiega Simona Polo, ma visualizzare l'ubiquitina in azione era
una scommessa estremamente difficile poiché il processo che essa mette in atto
si consuma in tempi brevissimi, risultando impossibile da cogliere con tecniche
tradizionali”.
Per decifrare il codice dell'ubiquitina l’équipe
guidata da Polo, grazie ai finanziamenti di AIRC, dell’EMBO e della Comunità
Europea, si è avvalsa di tecniche sofisticate come la cristallografia a raggi
X, sviluppate in collaborazione con il team dello IEO coordinato da Sebastiano
Pasqualato. “Esplorando intimamente l'architettura delle molecole, grazie alla
cristallografia a raggi X siamo riusciti a visualizzare tridimensionalmente la
funzione dell’ubiquitina e cogliere a livello molecolare il processo transiente
che innesca nella cellula. Per sviluppare questa fotografia molecolare abbiamo
generato cristalli proteici nei laboratori dell’IFOM e IEO, e li abbiamo in
seguito analizzati ai raggi X al sincrotrone europeo di Grenoble, l’ESRF” ha
spiegato Pasqualato. La fotografia molecolare che i gruppi italiani sono
riusciti a ricavare offre una grande possibilità nello studio dei processi
legati al funzionamento dell’ubiquitina e quindi nel cercare di mettere a punto
delle strategie in grado di salvaguardare tutti i meccanismi cellulari che
sottendono a questa proteina. Molte forme tumorali sono caratterizzate,
infatti, da alterazioni della via dell’ubiquitina.
Emblematico è, ad esempio, il caso di
BRCA1, una proteina che interviene nella risposta di danno al DNA la cui funzione
è trasferire molecola di ubiquitina al suo bersaglio. Mutazioni nel gene BRCA1
sono chiaramente associate a carcinoma mammario e ovarico: nelle cellule
tumorali infatti, BRCA1 mutata e non è più in grado di
mediare l'ubiquitinazione, un processo essenziale affinché la lesione al DNA
sia riconosciuta e riparata.
Il carcinoma ovarico è un esempio ma sono
tanti i casi in cui l'origine o la progressione di un tumore è riconducibile a
un malfunzionamento all'interno del processo di ubiquitinazione. Ma il cattivo
funzionamento del “bacio della morte” determina, anche, l’insorgenza delle
malattie neurodegenerative. Alla base, infatti, di tali malattie vi è un
accumulo di metaboliti neurotossici. In condizioni fisiologiche, alla rimozione
di tali metaboliti provvede la via dell’ubiquitina che pulisce il cervello
dalle proteine e le ricicla in aminoacidi riutilizzabili. Se questo sistema si
inceppa o funziona male, come sembra succedere nel Parkinson, le proteine
tossiche possono accumularsi bloccando il corretto funzionamento delle cellule
dopaminergiche.
“Questo studio, spiega la scienziata, ci
aiuta a comprendere meglio i meccanismi molecolari alla base di queste
patologie e ad individuare nel sistema di comunicazione dell'ubiquitina i bersagli
su cui puntare per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici. È senz’altro un
risultato di difficile comprensione, ma ancora una volta dimostra
l’importanza della conoscenza prodotta dalla ricerca di base per porre le
premesse per l’individuazione di approcci terapeutici mirati”.
Per arrivare a questi risultati ci sono voluti alcuni anni e tantissima dedizione al lavoro, risultati ottenuti da una mamma-ricercatrice. Simona Polo è madre, infatti, di due bambini. E’ importante sottolineare questo aspetto, proprio a pochi giorni dalla festa della mamma. Troppo spesso si pensa che il lavoro di ricercatrice sia inconciliabile con quello di madre. “In passato lasciare il laboratorio durante il periodo della gravidanza voleva dire rimanere fuori dai giochi. Era difficile conciliare serenamente un progetto di maternità con il proseguimento della carriera scientifica. Nel lavoro di ricerca non si può essere sostituiti, se non si è disponibili purtroppo il lavoro si blocca con ricadute sia personali ma anche su tutto il proprio gruppo”. Ora le cose stanno cambiando e l’IFOM, per esempio, ha realizzato il Laboratorio G: si tratta di un laboratorio studiato ad hoc per le ricercatrici in dolce attesa o neomamme, che offre loro l'opportunità di lavorare in condizioni di massima sicurezza con protocolli che possono comunque essere applicati in qualsiasi altro laboratorio di ricerca. “Lavorare nel campo della scienza aiuta a diventare delle buone madri: l’abitudine al fallimento e le lunghe ore d’attesa per un esperimento ci forniscono di forza e pazienza, qualità fondamentali per crescere al meglio i propri figli” ha concluso Polo.