fbpx Una fotografia molecolare per l'ubiquitina | Scienza in rete

Una fotografia molecolare per l'ubiquitina

Tempo di lettura: 5 mins

Fotografare una proteina per studiarne la funzione. Affinata da un team di ricerca dell’IFOM di Milano una sofisticata tecnica per catturare con un fermo immagine molecolare il processo coordinato dall’ubiquitina, proteina con un complesso ruolo di comunicazione cellulare, cruciale per la salute dell’organismo. Malfunzionamenti nel meccanismo di comunicazione gestito dall’ubiquitina possono infatti dare origine a tumori. Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Structural and Molecular Biology è stato realizzato grazie a una tecnologia innovativa sviluppata da IFOM in collaborazione con l’Unità di cristallografia a raggi X dello IEO. “La via dell'ubiquitina è molta conservata nei diversi eucarioti, ci sono solo 3 residui amminoacidici differenti tra quella dell’uomo e quella del lievito. Fino a poco più di una decina di anni questa proteina veniva definita bacio della morte, si pensava, infatti, che il senso dell'ubiquitinazione fosse uno solo: la distruzione della proteina marcata da questo specifico segnale molecolare” spiega Simona Polo, responsabile in IFOM del programma di ricerca "Ubiquitinazione e trasmissione del segnale" e ricercatrice presso l'Università degli Studi di Milano. L'ubiquitina, quindi, come un angelo della morte, che si attacca alla proteina condannata e la accompagna fino a una sorta di deposito cellulare di rifiuti: il proteasoma.

Negli ultimi anni però, grazie anche alle ricerche condotte dall’IFOM, all’ubiquitina sono state attribuite funzioni molto più complesse nella comunicazione tra ambiente interno ed esterno alla cellula: sarebbe una proteina multitasking, capace di trasmettere molteplici segnali di attivazione, degradazione, localizzazione, interazione con svariati fattori proteici. L'esecuzione corretta di questa funzione dell’ubiquitina risulta essenziale per la vita delle cellula e dei tessuti e, in ultima analisi, dell'organismo: quando il messaggio non viene trasmesso e interpretato fedelmente, la cellula corre il rischio di proliferare in maniera incontrollata, andando incontro a trasformazioni maligne. “Abbiamo dimostrato che l’ubiquitina svolge un ruolo fondamentale nella salute dell’organismo, spiega Simona Polo, ma visualizzare l'ubiquitina in azione era una scommessa estremamente difficile poiché il processo che essa mette in atto si consuma in tempi brevissimi, risultando impossibile da cogliere con tecniche tradizionali”.
Per decifrare il codice dell'ubiquitina l’équipe guidata da Polo, grazie ai finanziamenti di AIRC, dell’EMBO e della Comunità Europea, si è avvalsa di tecniche sofisticate come la cristallografia a raggi X, sviluppate in collaborazione con il team dello IEO coordinato da Sebastiano Pasqualato. “Esplorando intimamente l'architettura delle molecole, grazie alla cristallografia a raggi X siamo riusciti a visualizzare tridimensionalmente la funzione dell’ubiquitina e cogliere a livello molecolare il processo transiente che innesca nella cellula. Per sviluppare questa fotografia molecolare abbiamo generato cristalli proteici nei laboratori dell’IFOM e IEO, e li abbiamo in seguito analizzati ai raggi X al sincrotrone europeo di Grenoble, l’ESRF” ha spiegato Pasqualato. La fotografia molecolare che i gruppi italiani sono riusciti a ricavare offre una grande possibilità nello studio dei processi legati al funzionamento dell’ubiquitina e quindi nel cercare di mettere a punto delle strategie in grado di salvaguardare tutti i meccanismi cellulari che sottendono a questa proteina. Molte forme tumorali sono caratterizzate, infatti, da alterazioni della via dell’ubiquitina.

Emblematico è, ad esempio, il caso di BRCA1, una proteina che interviene nella risposta di danno al DNA la cui funzione è trasferire molecola di ubiquitina al suo bersaglio. Mutazioni nel gene BRCA1 sono chiaramente associate a carcinoma mammario e ovarico: nelle cellule tumorali infatti, BRCA1 mutata e non è più in grado di mediare l'ubiquitinazione, un processo essenziale affinché la lesione al DNA sia riconosciuta e riparata.
Il carcinoma ovarico è un esempio ma sono tanti i casi in cui l'origine o la progressione di un tumore è riconducibile a un malfunzionamento all'interno del processo di ubiquitinazione. Ma il cattivo funzionamento del “bacio della morte” determina, anche, l’insorgenza delle malattie neurodegenerative. Alla base, infatti, di tali malattie vi è un accumulo di metaboliti neurotossici. In condizioni fisiologiche, alla rimozione di tali metaboliti provvede la via dell’ubiquitina che pulisce il cervello dalle proteine e le ricicla in aminoacidi riutilizzabili. Se questo sistema si inceppa o funziona male, come sembra succedere nel Parkinson, le proteine tossiche possono accumularsi bloccando il corretto funzionamento delle cellule dopaminergiche.
“Questo studio, spiega la scienziata, ci aiuta a comprendere meglio i meccanismi molecolari alla base di queste patologie e ad individuare nel sistema di comunicazione dell'ubiquitina i bersagli su cui puntare per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici. È senz’altro un risultato di difficile comprensione, ma ancora una volta dimostra l’importanza della conoscenza prodotta dalla ricerca di base per porre le premesse per l’individuazione di approcci terapeutici mirati”.

Per arrivare a questi risultati ci sono voluti alcuni anni e tantissima dedizione al lavoro, risultati ottenuti da una mamma-ricercatrice. Simona Polo è madre, infatti, di due bambini. E’ importante sottolineare questo aspetto, proprio a pochi giorni dalla festa della mamma. Troppo spesso si pensa che il lavoro di ricercatrice sia inconciliabile con quello di madre. “In passato lasciare il laboratorio durante il periodo della gravidanza voleva dire rimanere fuori dai giochi. Era difficile conciliare serenamente un progetto di maternità con il proseguimento della carriera scientifica. Nel lavoro di ricerca non si può essere sostituiti, se non si è disponibili purtroppo il lavoro si blocca con ricadute sia personali ma anche su tutto il proprio gruppo”. Ora le cose stanno cambiando e l’IFOM, per esempio, ha realizzato il Laboratorio G: si tratta di un laboratorio studiato ad hoc per le ricercatrici in dolce attesa o neomamme, che offre loro l'opportunità di lavorare in condizioni di massima sicurezza con protocolli che possono comunque essere applicati in qualsiasi altro laboratorio di ricerca. “Lavorare nel campo della scienza aiuta a diventare delle buone madri: l’abitudine al fallimento e le lunghe ore d’attesa per un esperimento ci forniscono di forza e pazienza, qualità fondamentali per crescere al meglio i propri figli” ha concluso Polo.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.