Prendete una certa sostanza e diluitela. Poi diluitela ancora. E ancora. E ancora una volta. Poi dinamizzatela, che è un modo per dire che dovete agitare bene la sostanza. Grazie alla “memoria dell’acqua”, questi scuotimenti permetteranno alla sostanza chimica di lasciare una traccia nell’acqua in cui essa è stata disciolta. Questo è il procedimento per ottenere dei rimedi omeopatici, che presto potranno essere parificati ai farmaci tradizionali, grazie al recepimento di una direttiva dell’Unione europea. È infatti recente la notizia dell’apertura (obbligata) dell’Aifa, l’Agenzia Italiana del Farmaco, nei confronti dei preparati omeopatici. La direttiva europea dice che i prodotti omeopatici possono concorrere per ricevere un'autorizzazione da parte dell'agenzia. Per le sostanze già in uso da molti anni è prevista una procedura semplificata, in cui non viene chiesto di valutarne l'efficacia, ma solo di certificare che esse non siano nocive per la salute dell'uomo. Questa potrebbe sembrare una (pericolosa) scorciatoia in confronto alle regole che devono rispettare i farmaci convenzionali.
La lunga strada per l’autorizzazione dei farmaci
Per comprendere le sue proprietà, dimostrare che sia sicuro, attivo ed efficace, e quantificare che ci sia un evidente vantaggio tra gli effetti collaterali e i benefici terapeutici, la molecola chimica studiata per poter diventare un farmaco è sottoposta a una lunga e costosa sperimentazione clinica. In genere sono necessari tra i dieci e i dodici anni per portare a termine queste ricerche, che si articolano in una serie di studi che comprendono diverse fasi descritte e stabilite dalla legge.
Innanzitutto a monte c’è la scoperta e la sintesi di una nuova molecola, il cosiddetto processo di drug discovery, il cui arco di tempo varia dai due ai tre anni. Circa stessa durata ha la sperimentazione preclinica, o fase 0, che viene subito dopo. I composti qui vengono testati in vitro (coltura cellulare) e/o in vivo (animali da laboratorio) su un modello che riproduce la patologia. In questa fase della sperimentazione si osserva come si comporta e qual è il livello di tossicità della molecola su un organismo vivente complesso.
Inizia quindi la sperimentazione clinica, che è composta da tre fasi distinte. La fase I, detta di farmacologia clinica, fornisce una prima valutazione della sicurezza e della tollerabilità del principio attivo. La durata è in genere di 1-2 anni e viene compiuta su un piccolo campione di volontari sani (da 20 a 80). Nella fase II, o studio di efficacia, l'efficacia del farmaco, relativa a un dosaggio e a una posologia definita, è valutata in un ristretto numero di pazienti, in tutto qualche centinaio, affetti dalla malattia per la quale il farmaco è stato pensato. Questi soggetti sono divisi in più gruppi, a ciascuno dei quali è somministrata una dose differente del farmaco e un placebo. Questi studi sono condotti in “doppio cieco”, in modo cioè da evitare che medico e paziente conoscano il tipo di trattamento somministrato. Per portare a termine questa fase ci vogliono circa un paio d'anni. La sperimentazione continua nella fase III, il cui obiettivo è soprattutto quello di valutare la sicurezza nel lungo periodo e le possibili reazioni su soggetti diversi. Il numero dei pazienti coinvolti è decisamente maggiore, anche fino a 3000. Lo studio di riferimento in questa fase è lo studio clinico randomizzato e controllato. Generalmente il periodo di monitoraggio degli effetti del farmaco è di 3-5 anni.
Conclusasi la fase di sperimentazione, bisogna fare domanda di registrazione presso il Ministero della Sanità per ottenere l’Autorizzazione all’Immissione in Commercio della nuova specialità farmaceutica. Questa autorizzazione deve essere richiesta all’EMA, European Medicines Agency, o all’AIFA, Agenzia Italiana del Farmaco. L’immissione in commercio però non segna la fine degli studi. Inizia da questo momento la fase IV di farmacovigilanza, che ha l'obiettivo di confermare le caratteristiche del farmaco nella pratica quotidiana.
Edzard Ernst, il primo medico al mondo che ha ottenuto una cattedra in medicina complementare all’Università di Exeter e che ha passato gli ultimi vent'anni a testare scientificamente i farmaci alternativi, dichiara che il 95% dei farmaci omeopatici non funziona: “Il modello di uno studio clinico controllato è pensato per minimizzare qualsiasi causa di pregiudizio o di contraddizione. La causalità è la chiave in tutto ciò e in essa sta la differenza cruciale tra esperienza clinica e prova scientifica. Quello di cui i medici sono testimoni nella loro pratica quotidiana può avere una miriade di cause. Quello che gli scienziati osservano in uno studio ben progettato è, molto probabilmente, originato dal trattamento. Quest’ultima è una prova, mentre la prima non lo è”.
Farmaci omeopatici?
Come giustamente affermano Stefano Bagnasco, Andrea Ferrero e Beatrice Mautino nel loro libro “Sulla scena del mistero”, “Le basi teoriche che ci sono alla base della pratica dell’omeopatia sono incompatibili con le attuali conoscenze mediche e scientifiche. In base a quello che oggi sappiamo riguardo alla fisica, chimica, medicina e farmacologia, l’omeopatia non può funzionare. Questo è sufficiente per dire che l’omeopatia non funziona? In realtà no. È un buon motivo per essere scettici, ma non è sufficiente per dire a priori che l’omeopatia non può funzionare. L’omeopatia potrebbe agire in base a qualche principio ancora sconosciuto o ancora non ben compreso”.
“D’altra parte”, continuano, “molte persone che hanno provato l’omeopatia dicono che con loro è stata efficace, così come molti omeopati dicono che la loro esperienza clinica ne dimostra chiaramente l’efficacia. Questo è sufficiente per dire che l’omeopatia funziona? Nemmeno. Se sono stato meglio dopo avere provato l’omeopatia, le possibili cause possono essere diverse, per esempio insieme alla terapia posso aver cambiato abitudini, sarei potuto guarire anche senza fare niente, ecc”.
E allora come fare per dimostrarne l'efficacia? L’unica via è quella di condurre un esperimento clinico controllato, lo stesso iter che, come abbiamo descritto sopra, devono seguire i farmaci tradizionali per venire approvati e commercializzati. Questa soluzione è stata per molti anni osteggiata dagli omeopati perché in contrasto con diversi principi della pratica omeopatica, primo fra tutti l’estrema personalizzazione dei trattamenti.
Negli ultimi vent’anni sono state condotte una serie di ricerche di meta-analisi che prendono in esame la letteratura scientifica esistente sull’efficacia dei rimedi omeopatici. Il principio di base di queste analisi è quello di armonizzare, comparare e mettere insieme i risultati di studi differenti, magari compiuti su dei piccoli campioni, per cercare di ottenere risultati statisticamente significativi. La maggior parte degli studi di meta-analisi arrivano alla conclusione che l’effetto positivo osservato è da attribuirsi nella quasi totalità dei casi a un effetto placebo, e non al principio che essi contengono. Nel caso dell’omeopatia quindi, dopo decenni di studi, non esiste ancora una conferma statisticamente significativa dei risultati sperimentali (per approfondimenti sulle meta-analisi condotte si veda qui e nella bibliografia allegata all’articolo).
Nuove norme dall’Unione Europea
Nonostante questo, sembra che l’Europa voglia aprire ancora di più la strada alla commercializzazione dei farmaci omeopatici, anche in quei paesi dove, come in Italia, non esiste una legislazione chiara in merito. Sul nostro mercato, infatti, sono venduti, grazie a una serie di autorizzazioni provvisorie, solo i prodotti introdotti prima del 1995. Da quella data in poi le aziende non hanno potuto immettere sul nostro mercato alcun nuovo prodotto.
Adesso l’Aifa ha stabilito le regole per la registrazione semplificata dei prodotti omeopatici, recependo così la direttiva europea del 2006 che invitava i paesi membri ad adottare misure di registrazione per queste specialità entro il 2015. In più il bollino Aifa dovrebbe garantire anche l’affidabilità di questi prodotti. Il problema sta tutto nel fatto che le informazioni che le aziende omeopatiche devono fornire per vedere approvato un loro prodotto si riconducono a informazioni sulla loro origine chimica e biologica, sulla diluizione e sulla sicurezza del principio. Nient’altro. Viene da chiedersi perché il modello non possa essere quello usato per i medicinali tradizionali, dove si richiedono dati di sicurezza ed efficacia a seguito di studi contro placebo o terapia standard.
L’Aifa comunque specifica: “Ogni informazione mancante va giustificata: per esempio occorre spiegare perché si accetta la dimostrazione di un livello accettabile di sicurezza anche in assenza di alcuni studi” e “ai fini della registrazione semplificata, qualora vengono utilizzate sostanze non sufficientemente note nella medicina allopatica in quanto non presenti nella Farmacopea, né contenute in specialità medicinali commercializzate in Europa, vengano condotti studi sperimentali di tossicità non dissimili da quelli previsti per la autorizzazione all’immissione in commercio dei medicamenti allopatici utilizzati in Italia ed in Europa”.
Fuori le prove!
Silvio Garattini, tra i membri dell'AIFA, ha detto: “L'Agenzia deve rispettare le regole internazionali e quindi seguirà quanto previsto da quell'atto. Questo non si discute. Come farmacologo però ritengo che sia insostenibile il fatto di avere in circolazione prodotti per cui non esistono prove scientifiche di efficacia. Dovranno ottemperare alle leggi come i farmaci convenzionali ma sarà difficile dimostrare che qualcosa che non contiene niente funzioni per curare le persone”.
Dal canto suo Elio Rossi, responsabile del Centro di riferimento di omeopatia della Toscana, ribadisce “Con le leggi vigenti non era possibile sperimentare nel pubblico i medicinali omeopatici. Quindi non è possibile rispondere all'accusa di chi ci dice che non fanno niente e sono come il placebo. Ma con il nuovo regime si darà la possibilità anche di fare ricerca e potremo dimostrare l'efficacia”.
È certo che i rimedi omeopatici godono oggi di una corsia avvantaggiata all’interno del mercato dei farmaci, essendo gli unici prodotti curativi che non hanno dovuto superare dei controlli ufficiali per essere venduti come tali.
Oltre che essere convinti dell’efficacia di tale metodo sulla base di esperienze personali e di pochi e ambigui risultati clinici, i medici sostenitori della medicina omeopatica devono necessariamente aprirsi al confronto con la medicina convenzionale per ottenere un riconoscimento ufficiale di questa terapia. Questo deve essere fatto sul terreno di studi metodologicamente corretti, comparati con la terapia convenzionale più efficace per quel tipo di problema.
Fino a quando i sostenitori dell’omeopatia concepiranno la ricerca solo come un mezzo per confermare le loro credenze e si opporranno a un esito negativo della stessa, piuttosto che un metodo oggettivo per accertare la validità e l’efficacia di una terapia medica, qualsiasi apertura a farmaci e rimedi alternativi non potrà (e non dovrà) esserci dalla comunità scientifica e, più in generale, da una società civile e moderna.
di Anrea Pennisi
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