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La supernova lascia il segno

Tempo di lettura: 4 mins

Non è certo una novità che sul pianeta Terra si possano trovare tracce di una esplosione stellare. Dopotutto, se escludiamo idrogeno ed elio, tutti gli elementi chimici che incontriamo quotidianamente, compresi quelli di cui siamo fatti, possiamo ricondurli proprio a una supernova. E' vero che la loro sintesi avviene grazie alle reazioni nucleari che alimentano le stelle, ma poi ci pensa l'esplosione di supernova a diffonderli tutt'intorno rendendoli disponibili per il loro successivo utilizzo. C'è, però, un secondo aspetto da mettere in conto. Le reazioni delle fornaci stellari, infatti, non riescono a sintetizzare tutti quanti gli elementi della tavola periodica, al massimo arrivano fino al ferro. Diciamola così: per gli elementi più pesanti del ferro non è un processo conveniente, la stella dovrebbe fornire energia anziché ricavarne. Tali elementi vengono dunque sintetizzati direttamente dall'esplosione stellare. Questo allora significa, per esempio, che l'oro utilizzato per i contatti elettrici del computer con il quale sto scrivendo o - più romanticamente - impiegato per forgiare un galante omaggio è stato prodotto proprio in un'esplosione di supernova. Tutto ciò che ci circonda, insomma, reca il marchio di una supernova.

Questo marchio, però, può essere molto più intrigante di quanto si creda. Al recente Meeting dell'APS (American Physical Society) tenutosi a metà aprile a Denver in Colorado, infatti, Shawn Bishop (Technische Universitat di Monaco - Germania) e collaboratori hanno presentato i risultati di una ricerca che riguarda proprio le tracce di supernovae. Lo studio, che prosegue ormai da qualche anno, si occupa del Fe60, un isotopo del ferro individuato già alcuni anni fa nei materiali provenienti dai fondali oceanici. Anche questi atomi di ferro sono imputabili direttamente a un'esplosione di supernova, ma tale esplosione non può certamente essere quella che ha prodotto i materiali dai quali è nato il Sistema solare. Questo isotopo, infatti, è radioattivo e ha un tempo di decadimento di 2,62 milioni di anni. La sua presenza, dunque, ci racconta di una esplosione avvenuta moltissimo tempo dopo la formazione della Terra. Giusto per dare un'idea, stiamo più o meno parlando dell'epoca in cui, in Africa, alcuni Australopiteci cominciavano a forgiare rudimentali utensili di pietra.

Di queste tracce se n'era occupato anche il team di Klaus Knie (anch'egli della Technische Universitat di Monaco) pubblicando nel 2004 uno studio su Physical Review Letters in cui presentava la scoperta di un significativo eccesso di Fe60 nella crosta oceanica e lo si imputava all'esplosione di una supernova avvenuta 2,8 milioni di anni fa a una trentina di anni luce della Terra (lo studio era la naturale continuazione di un lavoro iniziato più o meno dallo stesso team cinque anni prima).

Per comprendere la particolarità della scoperta annunciata da Bishop a Denver, però, è necessario tornare un po' più indietro nel tempo. Nel 1963 il nostro Salvatore Bellini, un medico che lavorava presso l'Istituto di Microbiologia dell'Università di Pavia, scoprì che alcuni batteri mostravano la proprietà di orientarsi lungo le linee del campo magnetico terrestre. Dodici anni più tardi, in uno studio su Science, il microbiologo Richard Blakemore battezzò tali batteri con il nome di magnetotactic bacteria (batteri magnetotattici). Tali organismi, utilizzando il ferro che assimilano dall'ambiente circostante, sintetizzano al loro interno cristalli di magnetite (un ossido di ferro) del diametro di circa 80 nanometri che utilizzano come vere e proprie bussole per orientarsi e “navigare” con profitto nell'ambiente in cui vivono.
Grazie a particolari tecniche chimiche, Bishop e collaboratori sono riusciti a isolare questi cristalli di origine biologica presenti nei campioni sedimentari provenienti dal fondo del Pacifico e a valutare l'ammontare di Fe60. La rilevazione, che è stata compiuta ricorrendo alla tecnica nota come spettrometria di massa con acceleratore (Accelerator Mass Spectrometry o AMS), ha così messo in evidenza il picco di presenza di quell'isotopo radioattivo del ferro riconducibile a un evento di supernova avvenuto circa 2,2 milioni di anni fa. Non è ancora stato possibile individuare con certezza quale possa essere stata la supernova responsabile, ma precedenti studi punterebbero il dito sull'associazione stellare Scorpius-Centaurus, un complesso gruppo stellare formato da un migliaio di stelle distanti tra i 350 e i 450 anni luce.

Se confermate, quelle scoperte da Bishop sarebbero le prime tracce biologiche lasciate da una supernova. A tal proposito, il team non solo si sta occupando di un secondo campione di fondale oceanico che appare particolarmente promettente, ma vuole ottenere un'ulteriore conferma dell'esplosiione di quella supernova ricercando un altro isotopo caratteristico di questi cataclismi stellari, l'Al26.

Certamente si dovranno valutare le possibili conseguenze biologiche per quella folata di ferro radioattivo che investì il nostro pianeta due milioni di anni fa, ma secondo alcuni ricercatori è altresì fondamentale tener presente anche l'incredibile pioggia di raggi cosmici che accompagnò quella supernova così vicina. Visto che l'interazione dei raggi cosmici con l'atmosfera può sfociare nella produzione di nuclei di condensazione per le nubi, infatti, a quella supernova potrebbero essere imputate anche pesanti ripercussioni sul clima del pianeta. Ma non solo su quello. Più copertura nuvolosa comporterebbe un raffreddamento globale o comunque un cambiamento climatico che, obbligando gli ominidi a migrare in cerca di regioni più ospitali, potrebbe aver seriamente influenzato la loro stessa evoluzione.

Insomma, quegli strani batteri di due milioni di anni fa porterebbero alla luce possibili intrecci che, pur prematuri e tutti da verificare, hanno tutta l'aria di essere incredibilmente intriganti.

Per approfondire: 

Technische Universitat Munchen 
Nature News


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